Gesù di fronte a Pilato: tra storia e narrazione
Alessandro Esposito
È possibile una ricostruzione storicamente attendibile della vicenda della comparizione di Gesù di fronte a Pilato? Probabilmente no, visto che essa è riportata esclusivamente nei resoconti evangelici e, pertanto, si situa sul sottile crinale che separa l’avvenimento storico dalla sua reinterpretazione narrativa. Questo non significa però rinunciare a indagarne la valenza prettamente teologica.
Dare senso è come un antidoto alla storia,
per sopportarla dacché la si subisce
(Stefano Levi della Torre)
La letteratura è più generosa della storia
e, forse, più esatta
(Erri De Luca)
1. Scrivere una storia non è scrivere la storia
L’episodio della comparizione di Gesù dinanzi a Pilato è stato oggetto, nel corso dei secoli, di molteplici ed affascinanti interpretazioni letterarie ed esegetiche, al punto che la relativa bibliografia risulta ormai impercorribile. In questa sintetica proposta di lettura del celebre brano, vorrei partire da due presupposti non di rado ignorati da quanti si sono misurati con un testo senza alcun dubbio abissale. In primo luogo, reputo necessario mettere in chiaro il fatto che, sebbene si siano versati fiumi di inchiostro a tale scopo, non è possibile effettuare una ricostruzione storica dettagliata ed attendibile di questa vicenda, la quale è riportata esclusivamente nei resoconti evangelici e, pertanto, si situa sul sottile crinale che separa l’avvenimento storico dalla sua reinterpretazione narrativa. Al contempo, però, vorrei rendere attenti i lettori e le lettrici al fatto che, nonostante nei resoconti neotestamentari non sia in alcun modo possibile riscontrare un’incontestabile obiettività storica, non bisogna però essere indotti a credere che la narrazione consista in pura invenzione. Obiettivo di questo breve saggio, pertanto, sarà quello di individuare i punti di contatto tra la vicenda storica – che può soltanto essere inferita – e la sua rielaborazione in termini narrativi: in particolare, mi concentrerò sull’autore del vangelo giovanneo, o quarto vangelo, che tra tutti i testimoni neotestamentari è quello che più indulge nei dettagli del processo che un profeta itinerante della Galilea dovette affrontare in Gerusalemme dinanzi all’autorità giudiziaria del potere occupante.
2. Processo o interrogatorio?
Sotto il profilo strettamente giuridico, è necessario rilevare il fatto che quello ai danni di Gesù, stando ai resoconti evangelici che ci sono pervenuti, non fu un processo in piena regola, dal momento che l’imputato non era cittadino romano e non beneficiava, pertanto, di alcun diritto civile. Quello a carico del nazareno, con ogni probabilità, fu un processo condotto extra ordinem, il quale prevedeva da parte del magistrato romano un’indagine di routine o cognitio, tesa unicamente ad appurare la sostanziale attendibilità dei reati contestati dall’accusa. L’assenza di un’istruzione formale del processo è denunciata implicitamente da due caratteristiche: la prima di esse riguarda il fatto che il procedimento si svolse in tempi rapidi e non previde un vero e proprio dibattimento; in seconda istanza, bisogna rilevare la totale assenza di testi a difesa dell’imputato. Naturalmente, poiché il giudizio avvenne in sede istituzionale, l’accusa doveva essere di natura politica: essa, com’è noto, consistette nel sostenere che l’imputato si fosse dichiarato “re dei giudei”, compiendo in tal modo un atto di lesa maestà. Eppure, in seno alla tradizione ebraica, tale titolo adombrava pretese messianiche: dal che è possibile intuire il fatto che motivazioni religiose e motivazioni politiche si intrecciarono in questo processo sommario. Sin dal principio, pertanto, è evidente che lo scontro in atto riguarda, in verità, l’accusa, sostenuta dal sacerdozio del tempio gerosolimitano, ed il giudice, che rappresenta il potere occupante e che è investito del potere di comminare la pena di morte al reo.
3. Giovanni, o “il vangelo narrante”
Ogniqualvolta ci troviamo a dover leggere e commentare un passo tratto dal vangelo secondo Giovanni, ci imbattiamo in una difficoltà che gli altri testi evangelici ci pongono in minor misura: quella di un linguaggio narrativo che richiede dimestichezza ed una particolare capacità nell’individuare le tematiche teologiche che esso, di volta in volta, veicola e sottende. Il quarto vangelo è uno scritto complesso, dal linguaggio fortemente allusivo, un testo che obbliga i suoi lettori e le sue lettrici a compiere un vero e proprio “percorso di iniziazione” alla prospettiva teologica che esso esprime all’interno dei suoi distinti episodi. Una particolare cautela, in tal senso, è richiesta per ciò che attiene all’analisi del racconto della comparizione di Gesù di fronte a Pilato. Il quarto vangelo, infatti, elabora in maniera del tutto peculiare un evento riferito anche dalla tradizione sinottica (Marco, Matteo e Luca), fornendogli però una cornice narrativa assai specifica, la quale va individuata ed interpretata al fine di cogliere il significato che l’episodio riveste nell’ottica della teologia giovannea. A tale proposito, il vangelo secondo Giovanni riporta il racconto del processo entro una prospettiva che si pone a cavallo tra il fatto concreto, così come esso potrebbe aver luogo, e la rielaborazione narrativa, che arricchisce il resoconto di particolari poco plausibili e talvolta del tutto improbabili sotto il profilo dell’attendibilità storica. Cercheremo di vedere in che modo il quarto vangelo intreccia la vicenda concreta con la reinterpretazione teologica che ne svolge.
4. Il racconto
Naturalmente, il primo passo non può che consistere nella lettura del testo, che presento di seguito attraverso una mia proposta di traduzione dall’originale greco.
CAPITOLO 18 28 Conducono dunque Gesù da Caifa verso il pretorio. Era di primo mattino ed essi non entrarono nel pretorio affinché non si contaminassero e potessero mangiare la pasqua. 29 Uscì dunque fuori Pilato presso di loro e dice: “Quale accusa portate contro quest’uomo?”. 30 Risposero e gli dissero: “Se non fosse costui uno che fa del male non te lo avremmo consegnato”. 31 Disse dunque loro Pilato: “Prendetelo voi e, secondo la vostra legge, giudicatelo”. Gli dissero i giudei: “A noi non è permesso uccidere nessuno”. 32 Affinché si adempisse la parola che Gesù pronunciò, indicando di quale morte stava per morire. 33 Entrò dunque di nuovo nel pretorio Pilato e chiamò Gesù e gli disse: “Tu sei il re dei giudei?”. 34 Rispose Gesù: “Da te stesso dici questa cosa o altri te l’hanno detta di me?”. 35 Rispose Pilato: “Sono forse io giudeo? La tua nazione e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto? 36 Rispose Gesù: La mia regalità non è da questo mondo. Se da questo mondo fosse la mia regalità, le mie guardie avrebbero combattuto perché io non venissi consegnato ai giudei. Ora, però, la mia regalità non è da qui. 37 Gli disse Pilato: “Pertanto tu sei re!”. Rispose Gesù: “Tu dici che sono re. Io per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Ciascuno che è dalla verità ascolta la mia voce”. 38a Gli dice Pilato: “Che cos’è verità?”. 38b E, ciò detto, uscì di nuovo verso i giudei. E dice loro: “Io non trovo in lui alcuna colpa”. 39 È ora vostra consuetudine che vi liberi uno per la pasqua: volete dunque che vi liberi il re dei giudei? 40 Gridarono dunque di nuovo, dicendo: “Non questi, ma Barabba!”. Ora, Barabba era un bandito. |
CAPITOLO 19 1 Allora, dunque, Pilato prese Gesù e lo fece flagellare. 2 E i soldati, intrecciata una corona di spine, la posero sul suo capo; e lo cinsero con un manto di porpora. 3 E gli si avvicinavano e gli dicevano: “Salve, re dei giudei!”. E gli davano schiaffi. 4 E uscì di nuovo fuori Pilato e dice loro: “Ecco, ve lo conduco fuori, affinché sappiate che nessuna colpa trovo in lui”. 5 Uscì dunque fuori Gesù, portando la corona di spine e il manto di porpora. E dice loro: “Ecco l’uomo”. 6 Quando dunque lo videro, i sommi sacerdoti e le guardie gridarono dicendo: “Crocifiggi! Crocifiggi!”. Dice loro Pilato: “Prendetelo voi e crocifiggetelo! Io non trovo in lui alcuna colpa”. 7 Gli risposero i giudei: “Noi abbiamo una legge e secondo la legge deve morire, poiché ha fatto se stesso figlio di Dio”. 8 Quando dunque udì Pilato questa parola, si spaventò molto. 9 Ed entrò nel pretorio nuovamente e dice a Gesù: “Da dove sei tu?”. Gesù, però, non gli diede risposta. 10 Gli dice allora Pilato: “A me non parli? Non sai che ho il potere di liberarti e il potere di crocifiggerti?”. 11 Rispose Gesù: “Non avresti potere alcuno contro di me, se non ti fosse stato dato dall’alto. A motivo di ciò, chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande”. 12a Da questo momento Pilato cercava di liberarlo. 12b Ma i giudei gridarono dicendo: “Se liberi costui non sei amico dell’imperatore: ognuno che faccia se stesso re si oppone all’imperatore”. 13 Pilato, dunque, avendo ascoltate queste parole, condusse fuori Gesù e (lo) fece sedere su di un seggio, in un luogo chiamato pavimento di pietra, in ebraico gabbatah. 14 Era la preparazione della pasqua, era circa l’ora sesta. E dice ai giudei: “Ecco il vostro re”. 15 Gridarono dunque quelli: “Togli(lo)! Togli(lo)! Crocifiggilo!”. Dice loro Pilato: “Il vostro re crocifiggerò?”. Risposero i sommi sacerdoti: “Non abbiamo un re se non l’imperatore!”. 16a Allora, dunque, lo consegnò loro affinché fosse crocifisso. |
5. Il contesto
L’altro passo fondamentale da compiere, al fine di interpretare in maniera plausibile un testo, è quello di individuarne il contesto. Il nostro brano, nello specifico, si colloca all’interno dell’ampia sezione che il quarto vangelo dedica alla passione di Gesù, la quale occupa i capitoli 18 e 19 dello scritto. Più dettagliatamente, il nostro passo è preceduto dalla narrazione relativa all’arresto di Gesù (Gv 18:1-12) e al suo breve interrogatorio dinnanzi al sommo sacerdote Ana (Gv 18:13-14 e 18:19-24), intervallato dagli episodi concernenti il rinnegamento di Pietro (Gv 18:15-18 e 18:25-27); è poi succeduto dal racconto della crocifissione di Gesù (Gv 19:16b-37), cui fanno seguito la sua sepoltura (Gv 19:38-42) e le testimonianze relative alla sua resurrezione (Gv 20:1-29). Molteplici sono i richiami che il nostro passo fa ad altre sezioni del vangelo giovanneo: essi, per molti versi, costituiscono la chiave di lettura dell’episodio del processo, poiché consentono di inquadrarlo all’interno della visione teologica che innerva tutto lo scritto, fornendo la prospettiva entro cui collocare le singole sezioni di cui esso si compone. Tali richiami ricorrono in particolare nelle parole che Gesù rivolge a Pilato e che restituiscono, attraverso il linguaggio della narrazione, la concezione teologica dell’autore. Altre volte essi sono invece contenuti nelle affermazioni di Pilato e dei sommi sacerdoti, mediante l’artificio retorico (sovente utilizzato da Giovanni) dell’attestazione inconsapevole della verità riguardante lo stesso Gesù e la sua vicenda.
6. Quando individuare la struttura agevola la comprensione del testo
Un ulteriore passo che dobbiamo compiere, prima di accingerci all’analisi più dettagliata del testo, è quello dell’individuazione della sua struttura, la quale, poi, ci guiderà nell’interpretazione dei suoi contenuti. L’autore del quarto vangelo, infatti, conferisce al nostro brano un’ambientazione scenica del tutto peculiare, la quale dà luogo a due spazi entro i quali si svolge l’azione: l’uno esterno al pretorio, ove, in questo processo, prende posto l’accusa; l’altro, all’interno del pretorio stesso, ove viene condotto l’imputato. Tra questi due spazi si muove, dialogando con i rispettivi interlocutori, Pilato, il giudice che sarà chiamato ad emettere la sentenza definitiva.
18:28 INTRODUZIONE – Spostamento di luogo: il pretorio A- 18:29-32 Prima scena (FUORI): primo dialogo tra Pilato e le autorità giudaiche: l’accusa B- 18:33-38a Seconda scena (DENTRO): primo dialogo tra Pilato e Gesù: la regalità di Gesù C- 18:38b-40 Terza scena (FUORI): secondo dialogo tra Pilato e le autorità giudaiche: prima dichiarazione d’innocenza da parte di Pilato X 19:1-3 SCENA CENTRALE: Gesù re dei giudei C’- 19:4-8 Quinta scena (FUORI): Gesù è condotto all’esterno: seconda e terza dichiarazione d’innocenza da parte di Pilato B’- 19:9-12a Sesta scena (DENTRO): secondo dialogo tra Pilato e Gesù sul potere A’- 19:12b-15 Settima scena (FUORI): ultimo dialogo tra Pilato e le autorità giudaiche sulla fedeltà all’imperatore
19:16a CONCLUSIONE – Condanna di Gesù alla morte di croce |
7. Le relazioni tra i protagonisti
Essendo improponibile fornire un’esegesi dettagliata di questo passo nel breve spazio di questo articolo, ci concentreremo sulle relazioni che intercorrono tra i tre protagonisti del nostro episodio e che si sviluppano nel corso dei dialoghi che il testo riferisce. Prima di procedere, però, è assolutamente necessario effettuare una precisazione: l’accusa, nell’ambito di questa azione giudiziaria condotta ai danni di Gesù, è rappresentata non dal popolo della Giudea (raccapricciante semplificazione, frutto di una lettura antisemita dell’intero scritto giovanneo, che fu greve di nefaste conseguenze nella storia successiva, sino ai nostri giorni), bensì dalla sola classe sacerdotale del tempio di Gerusalemme, di più, da una sua specifica componente: poiché tanto diversi abitanti della Giudea (si veda a tal proposito Gv 11:45), quanto una parte della stessa classe sacerdotale (si veda Gv 19:38-39), viene detto che credettero in lui e che divennero suoi discepoli.
7.1 Pilato e le autorità giudaiche
La prima relazione che compare nel nostro brano è quella che vede coinvolti Pilato ed i sommi sacerdoti del tempio di Gerusalemme. Essa è connotata da alcuni aspetti specifici.
- La conflittualità, che si delinea sin dalla prima scena, laddove i sommi sacerdoti al principio si rifiutano di effettuare il loro ingresso nel pretorio (Gv 18:28b), dopodiché rispondono alla domanda che Pilato rivolge loro (“Quale accusa portate contro quest’uomo?” – Gv 18:29) non presentando i capi d’accusa, come era stato richiesto loro di fare e come il loro stesso ruolo all’interno del processo richiederebbe, bensì pronunciando la condanna, che dovrebbe invece spettare eventualmente a Pilato, in qualità di giudice. In tal modo essi vengono a delegittimare la funzione dello stesso Pilato e avocano a sé quelle che sono le prerogative del prefetto nell’ambito della vicenda giudiziaria. Questo stesso conflitto delineatosi sin dall’inizio del nostro passo incomincia a salire di tono nel corso del secondo dialogo tra Pilato e le autorità giudaiche (terza scena), quando il giudice pronuncia il suo primo verdetto di non colpevolezza nei riguardi dell’imputato.
- Qui (terza scena) interviene l’elemento della provocazione ad esasperare ulteriormente i toni della contrapposizione. Pilato, infatti, propone ai sommi sacerdoti la liberazione del reo, presentandolo come re dei giudei: un re che egli, non dimentichiamolo, ha appena dichiarato politicamente innocuo (Gv 18:39). A ciò fa seguito la contro-provocazione degli accusatori, che in luogo di Gesù richiedono la liberazione di un oppositore in armi al potere romano (Gv 18:40). Si presagisce sin da questo secondo scambio come Gesù non costituisca se non il pretesto atto a scatenare un latente ma comunque duro contrasto tra i sommi sacerdoti e Pilato in ordine all’esercizio del potere, tanto politico quanto giudiziario, nella regione della Giudea.
- Nel corso del terzo dialogo tra il giudice e l’accusa (quinta scena) la provocazione diviene scherno ed esplicita derisione mediante la vestizione burlesca dell’imputato, il quale viene mostrato ai sommi sacerdoti come la caricatura di un re, umiliato, vessato e ridotto ad uno stato di completa soggezione.
- Nel corso dell’ultimo dialogo del nostro racconto (settima scena) le autorità giudaiche assistono al realizzarsi dei loro propositi, caldeggiati attraverso il ricorso a due precisi stratagemmi. Il primo è quello della minaccia in cui viene progressivamente trasformandosi la loro precedente contro-provocazione: attraverso di essa i sommi sacerdoti tacciano Pilato di infedeltà all’imperatore, nel caso in cui egli non intenda procedere all’esecuzione di un imputato che egli stesso ha qualificato come un possibile pretendente al trono regale (Gv 19:12b). Il secondo espediente utilizzato è quello della menzogna, attraverso la quale le autorità giudaiche mascherano le loro reali intenzioni di ribellione al dominio romano con una formale quanto ineccepibile dichiarazione di lealtà all’imperatore (Gv 19:15).
Nell’arco di tutta la vicenda del processo potremmo definire questi due protagonisti “così vicini, così lontani” per ciò che attiene alle modalità della loro relazione: pur condividendo, infatti, la stessa logica per quanto concerne la visione del potere, proprio a motivo di ciò essi si troveranno sempre più impigliati nella rete di un conflitto frontale, radicale ed insanabile. Il sacerdozio gerosolimitano intende ottenere la condanna di un dissidente religioso, ma sa che, per ottenerla, dovrà presentare al giudice capi d’accusa politici; il giudice, dal canto suo, intuisce le reali intenzioni dell’accusa, ma sarà costretto a capitolare dinanzi alle pressioni che essa eserciterà al fine di vedere sancito il proprio inappellabile verdetto di condanna, emesso prima ancora di consultare il prefetto romano. Lo scontro, pertanto, più che giudiziario è politico: sebbene, infatti, l’accusa riconosca formalmente la prerogativa del magistrato romano di comminare la sentenza capitale ai danni del reo, in verità farà in modo che quella del giudice non sia altro che una ratifica della decisione da essa assunta in piena autonomia, rendendo pertanto la sua funzione del tutto subordinata alle direttive emanate dal sacerdozio del tempio.
7.2 Gesù e Pilato
Anche la seconda relazione, quella che vede coinvolti Gesù e Pilato, si snoda progressivamente nell’arco della narrazione, che ne mette in luce gli elementi costitutivi.
- Sin dal primo scambio di battute (seconda scena) si profila una significativa e voluta inversione di ruolo tra i due: Gesù, infatti, pone una domanda al giudice che ha preso ad interrogarlo (Gv 18:34) e, in seguito, non risponderà mai in maniera diretta alle domande che Pilato gli rivolgerà.
- Pilato, nell’arco di tutto il primo dialogo con Gesù (seconda scena), non comprende le parole che questi gli rivolge, né per ciò che attiene al significato della sua regalità (Gv 18:37a), né per quanto riguarda il suo essere testimone della verità (Gv 18:37b), condensando tale incomprensione in due domande (Gv 18:37a e 18:38a).
- Ciononostante, Pilato professa l’innocenza dell’imputato al termine della sua requisitoria (quarta scena – Gv 18:38b): ciò lo fa apparire immediatamente come non dichiaratamente ostile a Gesù.
- Non ostile, sì, ma neanche favorevole e men che meno benevolo: Pilato infatti fa flagellare Gesù (scena centrale), dopodiché lo umilia apertamente, aizzando contro di lui il risentimento delle autorità giudaiche (quinta scena).
- L’incomprensione di Pilato persiste, ma prende progressivamente ad ammantarsi di inquietudine (sesta scena – Gv 19:8-9); ciononostante rimane convinto rispetto al proprio potere per ciò che concerne la sorte dell’imputato, che ritiene dipenda esclusivamente da quello che sarà il pronunciamento che egli effettuerà. In ogni caso, la colpevolezza, sia pur “minore”, da cui Pilato è investito nell’arco di questo processo, viene sottolineata dallo stesso Gesù al termine del loro secondo dialogo (sesta scena – Gv 19:11): essa, pertanto, viene ridimensionata, non certo negata.
- Viene infine evidenziato un cambiamento nelle intenzioni di Pilato, che, dopo l’ultima risposta ricevuta da Gesù, cercherà di liberarlo (settima scena – Gv 19:12a): ma alla fine, cedendo alle pressioni dell’accusa e non rinunciando alla provocazione esplicita ai danni di quest’ultima, finirà con il consegnarle l’imputato (conclusione – 19:16a).
La modalità “così vicini, così lontani” può valere anche per la relazione che, nel nostro racconto, coinvolge Gesù e Pilato, seppure in termini che potremmo definire speculari rispetto al rapporto che intercorre tra il giudice e gli accusatori: pur non essendovi tra imputato e giudice un conflitto aperto, sono proprio le logiche che li animano e che essi esprimono, in questo caso, a rivelarsi talmente distanti tra di loro da rivelarsi incompatibili.
7.3 Gesù e le autorità giudaiche
L’ultima relazione che il nostro passo presenta è quella che vede coinvolti Gesù ed i sommi sacerdoti del tempio di Gerusalemme: relazione che si sviluppa all’interno del brano in maniera del tutto indiretta, perché mai, nel corso di tutta la narrazione, accusa ed imputato interloquiranno. Vediamo dunque le modalità secondo cui tale relazione si articola nel corso del nostro episodio.
La separazione tra Gesù ed i sommi sacerdoti avrà luogo sin dall’inizio del nostro brano per volontà di questi ultimi, che rifiuteranno di fare il loro ingresso nel pretorio, laddove il solo imputato verrà introdotto e comparirà al cospetto del giudice (Gv 18:28).
- Nell’arco della prima scena le autorità giudaiche presentano Gesù come “uno che compie il male” (Gv 18:30), il che rappresenta il loro punto di vista sull’imputato, l’accusa, del tutto generica, di cui lo tacciano. Essa verrà immediatamente seguita da un’implicita richiesta di condanna a morte di Gesù (Gv 18:31b), la quale verrà poi resa esplicita nel prosieguo della narrazione.
- Nella seconda scena prima Pilato (18:35) e poi Gesù (18:36) sottolineano come siano le autorità giudaiche le vere antagoniste dell’imputato, quelle che il giudice vede quali autrici e Gesù quali destinatarie del suo essere consegnato.
- La terza scena mette in luce il rifiuto opposto dai sommi sacerdoti a che l’imputato venga rimesso in libertà, a fronte della richiesta che venga loro consegnato Barabba, questi sì “uno che compie il male” (Gv 18:40).
- Nella quinta scena le autorità giudaiche escono definitivamente allo scoperto in un duplice senso: prima rendendo esplicita la loro richiesta di condanna a morte dell’imputato (Gv 19:6), poi adducendo la reale motivazione che sta alla base di tale richiesta (ovverosia la loro interpretazione della legge mosaica, diametralmente opposta a quella che ne dà Gesù – Gv 19:7). Qui si annida il punto nevralgico del loro conflitto con l’imputato: esse ritengono che Gesù sia meritevole di morte in virtù di una legge che egli, a loro giudizio, ha violato, “facendosi figlio di Dio” (Gv 19:7).
- A tale accusa fa da contraltare l’unica affermazione relativa ai sommi sacerdoti messa in bocca a Gesù, secondo la quale “il peccato più grande” è quello commesso da costoro (e non da Pilato) proprio in nome di quella stessa legge che essi, credendo di mettere in pratica, in realtà snaturano e contraddicono mediante la condanna a morte di Gesù (sesta scena – Gv 19:11).
Breve excursus: la contraddizione dei sommi sacerdoti in merito alla legge mosaica È assai interessante notare come, per ciò che attiene alla questione nevralgica della legge mosaica e della sua interpretazione, i sommi sacerdoti cadano in una lampante contraddizione, messa in luce dall’autore del quarto vangelo mediante il ricorso all’ironia. Essi, infatti, affermano in un primo momento che “a noi non è permesso uccidere nessuno” (Gv 18:31b). Certamente tale affermazione può riferirsi al fatto che la pena capitale poteva essere comminata solamente dal governatore romano; ma ancor più significativo appare il richiamo effettuato da Pilato: “Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge”: ragion per cui sembra plausibile leggere l’affermazione delle autorità giudaiche in rapporto alla stessa torah, nella quale è riportato esplicitamente il divieto di uccidere (Esodo 20:13 e Deuteronomio 5;17). |
Il nostro racconto si conclude con la reiterazione della richiesta di condanna a morte dell’imputato inoltrata dall’accusa (settima scena – Gv 19:15): essa fa il paio con l’immobilità che i sommi sacerdoti mantengono nell’arco di tutto il processo, la quale viene rappresentata assai efficacemente sulla scena attraverso il fatto che essi siano gli unici protagonisti che non abbandonano mai, nell’arco dell’intera narrazione, la posizione assunta sin dall’inizio. Con la crocifissione di Gesù autorizzata da Pilato (conclusione – Gv 19:16a), le autorità giudaiche ottengono quanto avevano inteso richiedere sin dall’inizio del nostro brano (Gv 18:31).
Così come avviene nella rappresentazione scenica, anche sotto il profilo della relazione che li lega, la posizione in cui vengono a trovarsi l’uno nei confronti degli altri Gesù e i sommi sacerdoti è quella di una separazione totale. Non vi è vicinanza di alcun tipo, il conflitto che li vede coinvolti è onnipervasivo.
8. Conclusioni
In definitiva, sotto il profilo storico il racconto della comparizione di Gesù di fronte a Pilato contenuto nel quarto vangelo conferma quanto asserito dagli altri vangeli canonici, ovvero:
- La condanna di Gesù fu comminata dal prefetto romano;
- La denuncia che la determinò fu presentata da un gruppo di sommi sacerdoti del tempio di Gerusalemme ostile all’imputato e alla sua interpretazione delle tradizioni religiose ebraiche, in particolare della legge mosaica.
In ogni caso, lo scopo precipuo del quarto vangelo non è di natura prettamente storica: esso, infatti, non si limita a presentare una registrazione attendibile dei fatti, a stilare una sorta di resoconto di quanto accaduto. Il vangelo giovanneo sceglie, invece, di raccontare: dunque, in un certo qual modo, di dare rilievo al senso della vicenda di cui narra. Questo ci obbliga, una volta ancora, a rinunciare a qualsivoglia velleità di ricostruzione storica dettagliata di un episodio al quale i vangeli canonici in generale e quello giovanneo in particolare conferiscono una valenza prettamente teologica.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE (consultabile in italiano)
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LÉON-DUFOUR, X. Lettura del Vangelo secondo Giovanni, 4 voll., Paoline, Roma, 1994
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(22 marzo 2016)
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