Giachetti, un radicale per tutte le stagioni

Antonio Monti

Prima verde, poi rutelliano, quindi margheritino e democratico renziano. Da sempre radicale, è passato alle cronache nazionali per le sue battaglie berlusconiane contro i giudici. Non a caso ‘Bobo’ è un uomo di apparato, stimato in ambienti politici di destra e di sinistra, apprezzato anche da manager come Sergio Marchionne, Luca Cordero di Montezemolo e nei salotti del ‘generone’ romano, dove vanta amicizie variegate: da Enrico Mentana a Giorgia Meloni.

, da MicroMega 2/2016

Prima verde, poi rutelliano, quindi margheritino e democratico ren-ziano. Da sempre radicale, ma solo fino a un certo punto. Roberto Giachetti è stato il cavallo sul quale ha puntato fin da subito Matteo Renzi alle primarie del centro-sinistra per il Campidoglio, una scialba competizione a sei (tre esponenti Pd, uno dei Verdi, uno di Centro democratico e la candidatura-provocazione di una ragazza autistica), priva di qualunque spunto di interesse sul futuro di un città intrappolata tra i fasti del passato e il grigiore del presente.

Nella sua storia Giachetti ha collezionato tanti volti e altrettante tessere di partito, assestandosi però in una seconda linea perenne della politica. È un romano verace, ma senza idee dirompenti per la città. Non è popolare tra la gente, non entusiasma i militanti del suo stesso partito e secondo un recente sondaggio convince appena un elettore su quattro nel centro-sinistra. Ma piace a Matteo Renzi e al suo entourage. E tanto è bastato per catapultarlo nella bolgia elettorale romana, con la benedizione di tutti i vertici del Pd. È opinione diffusa che Giachetti avrebbe declinato volentieri «l’offerta capitale», ma non è riuscito a sottrarsi al pressing di Palazzo Chigi. Forse convinto anche dalla promessa di ottenere qualcosa in cambio, se la partita elettorale non dovesse finire bene. In fondo il renzianissimo Paolo Gentiloni, dopo un poco lusinghiero terzo posto alle primarie romane del 2013, è sbarcato addirittura alla Farnesina.

Dopo mesi di riflessioni e strategie al vertice (e in mancanza di nomi di maggiore appeal), il premier ha scelto lui per la competizione romana con il compito di archiviare la traumatica fine di Ignazio Marino, l’ex sindaco dem sfiduciato dai consiglieri del suo stesso partito, e riconquistare il Campidoglio. Il nome del candidato è arrivato dall’alto con l’inizio del nuovo anno: «Giachetti conosce Roma meglio di chiunque altro, ha fatto il capo di gabinetto. È romano e romanista», ha sentenziato Renzi. Parole capaci di indirizzare immediatamente le primarie capitoline, ma anche di togliere qualsiasi suspense e brio alla competizione.

Ma la Capitale per Renzi è una sfida doppia: la vittoria alle elezioni di giugno può essere un ponte per conquistare una città che non lo ha mai amato, e che è stata ricambiata con altrettanta freddezza. Basti pensare che perfino alle primarie plebiscitarie del 2013, l’ex rottamatore nella città eterna si è fermato ben otto punti sotto la sua media nazionale. Non a caso i renziani romani, tra cui Giachetti, di fatto restano una minoranza tra i democratici cittadini, priva di una propria soggettività politica definita. Sono pochi, perlopiù impegnati in ruoli di sottogoverno – assistenti parlamentari o sherpa nelle segreterie politiche – e la loro militanza si esprime tra convegni paludati e retweet del premier. Oltre alle lodi sperticate del verbo del presidente del Consiglio, resta poco altro.

Cinquantacinque anni, vicepresidente della Camera, soprannominato «Bobo», Giachetti vanta una formazione politica strettamente legata al partito di Marco Pannella di cui mantiene sempre la tessera. Ma i decenni gloriosi di quel Partito radicale capace di vincere battaglie referendarie cruciali per il paese sono passati da tempo. E Giachetti fa parte di un’altra generazione: quella «radicali da giovani e governativi da adulti», la stessa di diversi esponenti poi finiti folgorati sulla via del berlusconismo. Politici che sopravvivono a ideali e schieramenti adattando alla bisogna la grammatica pannelliana, tra scioperi della fame e della sete per i motivi più disparati.

Allora chi è Roberto Giachetti? Dietro l’ambientalista, il difensore dei diritti umani e l’appassionato di diritti dei carcerati, c’è un uomo fondamentalmente di apparato. Un politico scelto da Renzi proprio per la sua capacità di essere trasversale agli schieramenti e di parlare, grazie a una faccia più pulita delle altre, anche a un elettorato potenzialmente grillino. Stimato in ambienti politici di destra e di sinistra, «Bobo» è apprezzato anche da manager come Sergio Marchionne e nei salotti del «generone» romano, dove vanta amicizie variegate: da Enrico Mentana a Giorgia Meloni. Negli otto anni al vertici dell’amministrazione comunale con Francesco Rutelli sindaco (fu prima capo della segreteria politica e poi capo di gabinetto), non ha lasciato tracce significative. Non una parola chiave, non un progetto qualificante per il futuro della Capitale, i trasporti, i rifiuti, la cultura o le sue disastrate società municipalizzate. Ci si ricorda di lui, invece, nelle vesti di parlamentare quando portò avanti uno sciopero della fame per modificare la legge elettorale per ben quattro mesi. Oppure quando si improvvisò «statua vivente» fuori da Montecitorio per contestare la mancata assegnazione di alcuni seggi.
Insomma, se nelle battaglie simbolo è un seguace fedele dell’ormai anziano leader radicale, nei contenuti Giachetti appare un politico molto più comune. Ha vestito di volta in volta la casacca più conveniente per poter ricoprire, ininterrottamente da oltre vent’anni, ruoli istituzionali e di governo. Prima a livello locale, poi nazionale, senza quasi mai passare per la lotteria delle preferenze. Proprio lui che, per quei famosi 123 giorni, ha digiunato per la modifica del sistema elettorale e l’abolizione del Porcellum.

Alle primarie 2016 per il Campidoglio come sfidante principale ha trovato Roberto Morassut: un altro deputato Pd, già assessore all’Urbanistica con Walter Veltroni, anche lui da decenni attivo sulla scena politica romana. I due contendenti hanno condotto una campagna elettorale sotto tono, all’insegna del passato più che del futuro, senza pungersi quasi mai, anzi dandosi spesso ragione a vicenda. Una competizione, a tratti, quasi farsesca, dato che gli sfidanti si sono trovati spesso a commentare dossier e scandali in buona parte ereditati dagli anni che li hanno visti impegnati a Palazzo senatorio. Entrambi hanno fatto parte del «Modello Roma», lo schema di governo con cui per quindici anni il centro-sinistra ha governato la Capitale. Un’intuizione brillante, basata sul rilancio della cultura e sull’urbanistica di avanguardia, che è finita nel peggiore dei modi. Al suo tramonto, nel 2008, con l’elezione a sindaco di Gianni Alemanno, il debito comunale veleggiava verso la cifra stellare di 22 miliardi di euro e solo una spericolata operazione contabile ha consentito di accollare il passivo nelle tasche di tutti gli italiani. Per non parlare delle opere urbanistiche, faraoniche e incompiute, come la Vela di Santiago Calatrava e la Nuvola di Massimiliano Fuksas. La prima è ferma dal 2012, la seconda aprirà in primavera con cinque anni di ritardo. A quegli anni risalgono anche cattedrali nel deserto, come la Nuova Fiera di Roma e la Stazione Tiburtina, e l’espansione del perimetro urbano sancita dal nuovo piano regolatore. Non proprio un’esperienza da replicare.
Più che parlare della città, alle primarie le
seconde file del «Modello Roma» hanno dato vita a una conta tra le correnti del Pd capitolino. Da un lato Giachetti, sostenuto da renziani, ex dalemiani e popolari ma anche dalla Comunità di Sant’Egidio. Dall’altro Morassut, appoggiato da quel che resta dei veltroniani e dalla fronda contro Matteo Orfini, che dopo un anno e mezzo da commissario dei dem romani ha collezionato non pochi detrattori. Con gli altri quattro partecipanti relegati al ruolo di semplici comprimari.

La carriera politica: radicale, verde e rutelliano

La storia. Roberto Giachetti inizia la sua militanza politica a metà anni Ottanta nei radicali e ancora oggi rivendica le campagne sui temi della giustizia, come quella per il sì al referendum del 1987 a favore della responsabilità civile dei magistrati. Dopo la vittoria, il partito di Torre Argentina gridò al successo, dimenticando il peso sul risultato delle lotte intestine al governo. Sono gli anni della crisi del pentapartito, con la Dc sempre più insofferente alla permanenza del leader del Psi Bettino Craxi a Palazzo Chigi. Arrivati sull’onda dei violenti attacchi alle toghe a seguito del processo a Enzo Tortora, i referendum furono cavalcati dai socialisti, schierati per il «sì» a differenza dei democristiani, come arma per misurare i rapporti di forza tra i due partiti. Con buona pace della norma sulla responsabilità civile dei magistrati, che infatti venne immediatamente rivista.

Ma, al crepuscolo della Prima Repubblica, alle urne i radicali stentano. Così, la prima carica elettiva per Giachetti arriva altrove: nelle file dei Verdi come consigliere circoscrizionale del municipio del centro storico. Qui Giachetti si occupa principalmente di temi legati al decoro urbano: dalle buche stradali ai manifesti abusivi fino alle bancarelle di piazza Navona. Problemi ancora irrisolti, a distanza di quasi trent’anni. Non mancano i gesti plateali, né gli incidenti. Nel 1990 annuncia le dimissioni dal consiglio municipale in polemica con l’allora sindaco socialista, Franco Carraro, per il mancato decentramento dei poteri da Palazzo senatorio alle circoscrizioni. Malmenato durante una seduta d’aula dai commercianti esclusi dalla Festa de’ noantri (la più popolare ricorrenza religiosa cittadina), finisce anche in ospedale con una spalla lussata.

Nel 1993 il salto di qualità arriva con Francesco Rutelli sindaco. Tutto il percorso politico di Giachetti corre al suo fianco: la comune militanza radicale, i Verdi, il Campidoglio, più tardi la Margherita, di cui sarà coordinatore romano, e infine il Pd. Quasi un binomio inscindibile, l’uno a fare l’uomo immagine, l’altro a lavorare dietro le quinte. Dopo gli anni bui di Tangentopoli, quando la giunta Carraro è finita travolta dalle inchieste giudiziarie che hanno coinvolto molti assessori e i vertici delle municipalizzate, si apre una nuova stagione. E Rutelli, all’epoca appena quarantenne, azzecca le sue prime mosse: crea una squadra di governo con alcune delle menti più vivaci della politica romana degli ultimi decenni, a partire da Walter Tocci, plenipotenziario vicesindaco. In quella prima esperienza, Giachetti viene nominato capo segreteria. In sostanza, è un facilitatore di rapporti tra il sindaco e le varie anime della città che lo sostengono. Però le scelte cruciali sul governo della città non passano dalle sue mani, perché ai trasporti c’è Tocci, alla cultura un altro colosso come Gianni Borgna. La squadra lavora a un pacchetto di infrastrutture per svecchiare la città: dall’Auditorium firmato da Renzo Piano ad alcuni nuovi collegamenti tramviari. E, nell’immaginario collettivo dei romani, il primo sindaco a elezione diretta resta quello del rilancio della Capitale.

Il Rutelli bis invece è tutto proiettato sulla preparazione del Giubileo del 2000, che consente di rifare il look al centro storico. Le risorse finanziarie a disposizione sono immense, il governo stanzia la bellezza di 3 mila miliardi di lire (pari a 1,5 miliardi di euro), gestiti in prima persona da Rutelli come commissario, affiancato da Guido Bertolaso. Per il primo è l’apice della carriera politica (poi a livello nazionale saranno solo sconfitte), per l’altro il trampolino di lancio. Nel frattempo anche Giachetti fa strada, diventa capo di gabinetto, controllore della regolarità degli atti amministrativi. Anche perché a occuparsi di mediazione politica in Campidoglio arriva Goffredo Bettini, il vero king maker del Modello Roma, divenuto nel 1997 assessore ai rapporti istituzionali.

Più che un’idea di città, a Palazzo senatorio Giachetti cementa legami: con Paolo Gentiloni, allora assessore alla comunicazione; Filippo Sensi, al tempo ufficio stampa; e Michele Anzaldi, portavoce del sindaco. Tutti rutelliani doc. All’epoca giovani professionisti in ascesa, oggi la triade di consiglieri più ascoltata da Matteo Renzi sulle questioni romane. Nel 1997 il gruppo consiliare di Rifondazione comunista lamenta «aumenti indiscriminati di 2 milioni e 700 mila lire lordi al mese» per quattro giornalisti che «svolgono funzioni dirigenziali». Con uno stipendio che avrebbe raggiunto gli 11 milioni lordi al mese. Non proprio spicci. Tre dei quattro nomi tirati in ballo sono Giachetti, Anzaldi e Gentiloni, per l’appunto. Sono anni di spese allegre in Campidoglio, caratterizzati dalla crescita del debito comunale. La magistratura contabile cerca di vederci chiaro e nel 2002 Rutelli e i suoi assessori vengono condannati dalla Corte dei conti a risarcire il Comune per la nomina di sei consulenti. Per l’accusa avrebbero potuto individuare gli stessi profili tra i 24 mila dipendenti capitolini, senza gravare ulteriormente sulle casse comunali.

L’approdo in parlamento, sempre sulla scia di Rutelli

Forte del successo organizzativo del Giubileo, nel 2001 Rutelli diventa il candidato del centro-sinistra a Palazzo Chigi contro Silvio Berlusconi. Ma alle urne è una débâcle: il Cavaliere torna al governo staccando lo sfidante di quasi quindici punti, con oltre cinque milioni di voti di differenza. Nonostante la sconfitta, l’ex sindaco riesce a portare in parlamento diversi dei suoi fedelissimi. Naturalmente tra loro c’è Giachetti, che fa il suo ingresso a Montecitorio con la Margherita: un romano doc paracadutato nel collegio elettorale delle Marche. Tanto che un candidato locale dei Popolari si vede soffiare il seggio con la quota proporzionale e attacca Rutelli per aver preferito un fedelissimo a un rappresentante del territorio.

Sarà la prima di tre elezioni in parlamento, seguiranno quelle del 2006, 2008 e 2013. In quasi tre lustri alla Camera «Bobo» si fa notare per i suoi gesti ad effetto, in primis gli scioperi della fame. Ce n’è per tutti i gusti. Una volta, assieme al maestro Pannella, per sollecitare la nomina di due giudici costituzionali. Un’altra per la calendarizzazione di una legge sul conflitto di interessi. Ma il digiuno più singolare è quello del 2007 quando, dopo aver lasciato il ruolo di coordinatore romano della Margherita a un candidato avversario, inizia un nuovo sciopero della fame per chiedere tempi certi per la costituente del nascituro Pd. In quell’occasione è lo stesso Walter Veltroni, segretario in pectore dei democratici, ad ammonirlo: «Non farlo, lo sciopero della fame. Quello è uno strumento da riservare a grandi temi». I colpi di teatro sono il suo piatto forte in ogni circostanza. Nel 2003, ad esempio, assieme al collega di partito Enzo Carra, appende un fazzoletto verde sul cavallo della sede Rai di viale Mazzini, in polemica con la Lega Nord che progettava di spostare
la seconda rete a Milano. Per «Bobo» la prima legislatura è costellata da frequenti polemiche col Carroccio, soprattutto per la mancanza di una legge e di fondi ad hoc per la Capitale.

Col passare degli anni in aula, da perfetto radicale, si posiziona in maniera sempre più trasversale agli schieramenti, tanto che nel 2014 finisce col votare, unico e solo nel Partito democratico, un emendamento del centro-destra sulla responsabilità civile dei magistrati. Durante le dichiarazioni di voto rivendica: «Ho raccolto le firme per il referendum del 1987, la legge sulla responsabilità civile dei magistrati è stata fatta per truffare il risultato di quella consultazione, perché la sancisce in modo assolutamente labile». Ma perfino l’amato premier Matteo Renzi lo sconfessa. Nel frattempo la sua presenza sui temi romani si fa più rarefatta. Poche le sue prese di posizione durante gli anni di Gianni Alemanno in Campidoglio, scanditi da parentopoli e gaffe del primo cittadino.

La corsa per il Campidoglio

Per la candidatura alle primarie capitoline Giachetti non ha fatto salti di gioia, anzi. Non è un mistero che avrebbe volentieri lasciato ad altri una sfida che, per il Pd, si annuncia piena di incognite. Mai come stavolta, infatti, la tornata elettorale romana si annuncia incerta e ricca di insidie. Il centro-sinistra è in piena crisi di rinnovamento, tra il Pd che rincorre la vocazione maggioritaria e Sinistra italiana appena nata e già piena di lotte intestine. Il centro-destra è polverizzato tra Guido Bertolaso, sponsorizzato da Silvio Berlusconi, e Alfio Marchini, l’imprenditore alle prese con l’eterno dilemma tra profilo civico e schieramento di parte. Il Movimento 5 Stelle, forte nei sondaggi, appare impaurito dalla prospettiva di poter realmente vincere e quindi dover governare. Mentre Ignazio Marino fa pesare l’incognita di una sua possibile ricandidatura. In passato Giachetti aveva sentenziato: «Per fare il sindaco di Roma bisogna avere delle qualità che io non ho». Poi, evidentemente, ha cambiato idea, ma senza mostrare grande entusiasmo: «Non ho visto altri con altre qualità scendere in campo». Un profilo sottotraccia, insomma, di chi non sembra molto sicuro di vincere. E, non a caso, ha subito chiarito che darà le dimissioni dall’amato ruolo di vicepresidente della Camera «solo se eletto sindaco». Nel dubbio, meglio tenere la poltrona.

Una scelta che rende ancora più evidente come la sua discesa in campo sia figlia di un vuoto. Un vuoto di rinnovamento, innanzitutto. La generazione politica che ha animato le giunte Rutelli e Veltroni in buona parte ha fatto carriera e si è accomodata in parlamento, per i meno fortunati «la pensione» è il consiglio regionale del Lazio. Dopo di loro, una parte del gruppo dei quarantenni del Pd romano ha fatto del consociativismo con la destra il proprio tratto distintivo, come ha dimostrato l’indagine Mafia Capitale. E i giovani? Non pervenuti. Si notano praticamente solo per la ripetizione pedante delle parole d’ordine dei loro capi corrente. Poco, troppo poco per ambire ad essere classe dirigente di una città tanto complessa e piena di problemi. E allora ecco che il Pd romano ricicla il salvabile dal suo passato, pescando tra le seconde linee. Una scelta minoritaria, che rivela tutto lo smarrimento di una federazione commissariata da oltre un anno dopo Mafia Capitale e mai in grado di uscire dalle faide tra correnti.

Lo stesso Giachetti nel 2008, agli albori della giunta Alemanno, aveva denunciato, al solito in modo plateale, i metodi di gestione del partito romano: «Uscirò dal Pd di Roma, ma resterò nel gruppo parlamentare». Per le primarie però ha accolto senza batter ciglio il sostegno degli stessi eterni capi bastone di cui lamentava la condotta, parlamentari ed eurodeputati come Umberto Marroni, Enrico Gasbarra e Bruno Astorre. Perché, senza quel che resta del voto organizzato, è difficile spuntarla in una competizione che parla poco alla città e ha tutto il sapore di una conta interna tra le varie anime dei democratici romani.

Quanto al programma elettorale, nel corso della campagna per le primarie «Bobo» non ha spiegato cosa intende fare. Non ha delineato il futuro dei servizi pubblici: trasporti, rifiuti, sociale, verde, asili, il vero core business del Campidoglio. Non ha specificato se vuole privatizzarli, lasciarli pubblici o aprire parzialmente ai privati. Eppure si tratta di scelte da cui dipende un pezzo importante della qualità della vita dei cittadini.

Ha attraversato Roma sostenendo che «il tema della mobilità, a cominciare dal trasporto pubblico, è enorme. È un problema, così come il degrado, sia del verde pubblico sia delle buche stradali». Frasi di circostanza, pronunciate con piglio svogliato e prive di soluzioni specifiche. Lo sforzo massimo di elaborazione creativa è l’hashtag #tuttaRoma. Come dire, tutto e al tempo stesso niente.

Di fatto la sua campagna elettorale per le primarie è stata monopolizzata dal fantasma di Ignazio Marino, che Giachetti non riesce a far dimenticare. «Sono stufo di parlarne, io voglio parlare di Roma», ha sbottato in uno dei suoi primi appuntamenti pubblici. Eppure le future mosse e l’agenda dell’ex sindaco sembrano quasi un’ossessione. Il riconoscimento dei matrimoni omosessuali contratti all’estero è «inutile senza una legge nazionale», sostiene il vicepresidente della Camera. La pedonalizzazione di via dei Fori Imperiali «si può migliorare, va sistemata». Come dire, in assenza dei propri temi forti meglio smontare e rimontare quelli degli altri.

L’unica cosa di cui Giachetti è veramente certo è il sostegno alla candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024. Un progetto, guidato dal duo Giovanni Malagò-Luca Cordero di Montezemolo, che fa gola a tutti gli interessi economici consolidati in città. A partire dai costruttori. I Radicali italiani, che col neosegretario Riccardo Magi provano a guardare oltre l’eredità di Pannella, hanno proposto un referendum cittadino sui Giochi. Troppo costose le ultime edizioni della rassegna iridata per non chiedersi se sia opportuno candidare una città in profonda crisi di liquidità. Giachetti però, vista la posta in gioco, rinnega parzialmente le sue origini. «Se raccolgono le firme, penso che sia giusto: segnalo solo che è un po’ singolare fare un referendum consultivo, che tendenzialmente si fa prima che la decisione sia presa. Noi abbiamo già avuto una decisione del consiglio comunale». Radicale sì, ma fino a un certo punto.

In conclusione, fino ad ora, i temi di cui si è fatto portabandiera sono distanti anni luce dalla Capitale e dalla sfida per la sua modernizzazione. Roma ha un disperato bisogno di colmare il gap che la separa dalle altre grandi città europee. Manca tutto: trasporti pubblici efficaci, banda larga gratuita nelle piazze, manutenzione urbana, valorizzazione dei beni culturali, opportunità per i giovani e visione della città tra venti anni. Una «sfida immane», come ammesso dallo stesso Giachetti, che però, invece di affrontarla aprendo il suo comitato a una pluralità di voci, si è circondato di turbo renziani romani, quasi tutti ex rutelliani. E – nonostante le promesse di massima trasparenza – nel suo staff non mancano ex esponenti dell’Api, l’ultima avventura politica di Rutelli, finita sotto i colpi dell’inchiesta per uso improprio del finanziamento elettorale da parte dell’ex tesoriere Luigi Lusi.

Insomma, la scelta di Re
nzi di imporre la sua candidatura potrebbe configurare un’operazione sul genere «dalla padella alla brace».

(17 giugno 2016)



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