Gianni Barbacetto: D’Avanzo, ovvero “i fatti non sono la verità”
di Gianni Barbacetto, da www.societacivile.it/blog/
Consiglio ai colleghi giornalisti di tenere ordinate le ricevute e gli scontrini delle vacanze, anzi di incorniciarle e poi esporle come le lauree dei dentisti. Così a Peppe D’Avanzo non verrà in mente di accusare altri di aver fatto le vacanze a spese di qualche mafioso. Peccato che abbia imboccato questa china, D’Avanzo, che ha scritto anche tante cose buone. Una strada "storta", direbbe lui, mimando Cordero. Certo che è difficile capire ora il suo accanimento contro Marco Travaglio. Difficile capire come faccia a scrivere che “non sempre i fatti sono la verità”. Noi, i fatti possiamo raccontare, la verità (sempre provvisoria) la lasciamo alla comprensione dei lettori. Raccontare i fatti significa anche informare sul passato di un politico appena diventato presidente del Senato. Comprese le sue vecchie società messe in piedi con personaggi che saranno poi coinvolti in indagini di mafia. Non è penalmente rilevante? D’accordo, ma è giornalisticamente interessante, dunque da raccontare. Dei Clinton hanno raccontato lontanissimi affari immobiliari, di Obama hanno cercato fratelli perduti e vecchie foto: è la stampa bellezza.
Ma allora non è legittimo fare lo stesso con Travaglio, personaggio ormai altrettanto pubblico, e raccontare ogni sua vacanza, ogni sua amicizia? Certo. Ma non si può confrontare un fatto VERO (i rapporti di Schifani) con un fatto FALSO (dire che Travaglio ha avuto le vacanze pagate da un mafioso). E, peggio, RIPETERLO, il falso, dopo essere stato smentito: dicendo che Travaglio ha sbagliato anno, quando ha pubblicato le fatture del 2002, lasciando intendere dunque che il mafioso le vacanze gliele ha pagate nel 2003…
Lasciando intendere senza dire, e dicendo invece che la cosa grave e accertata è il rapporto di Travaglio con Ciuro, investigatore poi arrestato e condannato. Ma D’Avanzo sa bene che avere avuto rapporti con Ciuro non è riprovevole. Era uno dei migliori investigatori a Palermo, ha fatto indagini importanti, ha avuto contati con tanti giornalisti (forse anche con D’Avanzo, certo con me: dovrò esibire gli scontrini del bar, o della pizzeria?). Poi si è scoperto che aveva cominciato a passare informazioni a un indagato. È stato condannato. Ma non per aver favorito la latitanza di Provenzano, bensì per aver dato notizie riservate a un suo amico importante, quell’Aiello che all’epoca era un imprenditore incensurato.
Anche Schifani ha fatto società con persone che SOLO IN SEGUITO si è scoperto essere legate ad ambienti mafiosi. Ma non è la stessa cosa. Non solo perché (e D’Avanzo lo sa) un giornalista non ha gli stessi doveri di cautela di un politico. Ma perché Ciuro è un ufficiale di polizia giudiziaria che a un certo punto ha tradito la sua divisa e gli amici con cui lavorava e che frequentava, mentre in Cosa nostra sono rare le vocazioni adulte: chi viene scoperto da vecchio (come gli amici di Schifani) di solito ha iniziato la carriera da giovane. Questo non vuol dire che Schifani sia mafioso, o che certamente sapesse di aver avuto contatti con mafiosi: nessuno lo ha mai detto né scritto. Abbiamo detto e scritto che è legittimo, anzi doveroso, per un giornalista, raccontare anche i vecchi rapporti di Schifani. Innocenti? Forse. Ma fatti. Fatti giornalisticamente rilevanti. Fatti da raccontare. Come vengono raccontati i fatti e le storie dei politici Usa. E fatti che devono essere raccontati senza essere per questo "puniti" da strane campagne inventate da chi sostiene che “non sempre i fatti sono la verità”.
(17 settembre 2008)
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