Giorello: Il pesce e la fenice
1. «elpino: “Or che dite del lume?”. filoteo: “Dico che il sole non luce al sole, la terra non luce a la terra, nessuno corpo luce in sé, ma ogni luminoso luce nel spacio circa lui. Però, quantumque la terra sia un corpo luminoso per gli raggi del sole nella superficie cristallina, il suo lume non è sensibile a noi, né a color che si trovano in tal superficie: ma a quei che sono a l’opposito di quella”» (G. Bruno, Dialoghi…, p. 383). Come è per la luce, così per l’intelligenza. In De l’infinito, universo e mondi (1584) Giordano Bruno (1548-1600) delinea la parabola della filosofia: nelle pagine in cui dichiara che non c’è limite alla potenza di Dio e che qualsiasi «circolo d’orizonte» è menzogna forgiata «da l’occhio in terra», che l’eccellenza divina «non si glorifica in uno ma in Soli innumerabili», che la «scienza» capace di investigare tale universo «ne discioglie da le catene di uno angustissimo, e ne promuove alla libertà d’un augustissimo imperio» (ivi, p. 318), celebra la «filosofia che apre li sensi, contenta il spirto, magnifica l’intelletto, e riduce l’uomo alla vera beatitudine, che può aver come uomo, […] perché lo libera dalla sollecita cura di piaceri e cieco sentimento di dolori; lo fa godere dell’essere presente, e non più temere che sperare nel futuro» (ivi, p. 316).
Già nei dialoghi della Cena delle Ceneri (1584) Bruno aveva criticato la separazione aristotelica tra Terra e Cielo; aveva sostenuto che la Luna è in realtà «un’altra Terra»; aveva interpretato le macchie lunari come segni che la superficie di «quel pianeta» è ora acquea ora terrestre; aveva difeso la dottrina copernicana dei movimenti del nostro globo, che ruota sul proprio asse e attorno al Sole. Il Sole è pressoché «al centro» fisico del sistema di pianeti che gli orbitano intorno, ma questo sistema non esaurisce l’intero cosmo! Come viene ribadito in De l’infinito, universo e mondi, nello spazio immenso «innumerevoli stelle, astri, globi, soli e terre, sensibilmente si veggono» e ancor di più, se è lecito dir così, ne congettura la nostra ragione. Molti di questi mondi sono «abitati» e ogni astro è un essere vivente, dotato di «anima».
Conservatori e bigotti non dovevano perdonare a Giordano né queste incursioni nell’astronomia, né il suo ricorso a immagini capaci di accendere il ricordo e consentire la potenza. Come si può sostenere la mobilità della Terra contro la Bibbia? E se la Terra è un corpo che «erra nei cieli» (questo è il senso letterale di pianeta), trascina forse con sé nella sede dei beati le anime dei dannati sprofondate nell’Inferno? L’Universo senza limite e orizzonte, senza le «fantastiche muraglie» delle sfere celesti, inventate da «vani matematici» e «filosofi volgari» (ivi, p. 28), appare solo caos e confusione per chi crede che la Provvidenza divina abbia collocato ogni cosa al proprio posto. Ma, come dice Bruno, «quel bell’ordine e scala di natura, è un gentil sogno, et una baia da vecchie rimbambite» (ivi, p. 310).
2. È su questa linea che si è mossa la «filosofia naturale», oggi diremmo la scienza che libera: da Copernico a Darwin, per non dire degli orizzonti dischiusi, appunto, dalla fisica o dalla biologia contemporanea (vedi quanto osservato in H. Gatti, Giordano Bruno…, passim). Il Nolano sarà stato anche accusato di essere un empio cultore delle immagini, ma il suo Universo senza limite costituisce il peggior nemico di tutti gli idoli, cioè, fuori di metafora, di qualsiasi umana opinione la cui fragilità viene compensata con il ricorso alla forza da parte del «potere» che la fa propria.
Bruno insegna, insieme con la relatività del moto, la relatività dei punti di vista. In una pagina della Cena delle Ceneri così affronta l’obiezione tradizionale a una Terra mobile: «Sarebbe impossibile che una pietra gittata a l’alto, potesse per medesma rettitudine perpendicolare tornare al basso: ma sarrebbe necessario, che il velocissimo moto della Terra se la lasciasse molto a dietro verso l’occidente». Al che Bruno ribatte: «Con la Terra […] si muoveno tutte le cose che si trovano in Terra». Non diversa è la situazione su una nave quando «alcuno che è dentro una nave gitta per dritto una pietra: quella per la medesima linea ritornarà a basso, muovasi quanto si voglia la nave, pur che non faccia de gl’inchini» (G. Bruno, Dialoghi…, pp. 86-87). Anche il moto della Terra è abbastanza regolare (non fa «inchini», cioè non beccheggia), sicché non sembra possibile restando sulla Terra accorgersi del moto terrestre. Naturalmente, chi guarda la nave dal molo si accorge del movimento dell’imbarcazione: potessimo collocarci, poniamo, nel Sole, vedremmo il moto del nostro globo. Ma non siamo ancora esseri solari, capaci di vivere nel fuoco che alimenta e fa brillare quella stella.
La navicella di Bruno diventerà il «gran naviglio» ove Salviati, portavoce di Galileo, invita i perplessi per la teoria copernicana a chiudersi «sottocoverta»: «e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto» (G. Galilei, Opere, VII, pp. 212-213). Quindi, «fate muover la nave con quanta si voglia velocità», e allora «(pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprender se la nave cammina o pure sta ferma» (ivi, p. 213).
Oggi gli storici sanno che il «cattolico, anzi cattolicissimo» Galileo leggeva Bruno, pressoché lo traduceva (la nave che non fa de gli inchini diventa il naviglio il cui moto non deve essere fluttuante in qua e in là), ma (per ragioni che il lettore può ben immaginare) non lo citava (vedi G. Aquilecchia, I massimi sistemi…, pp. 485-508; sul confronto tra Bruno e Galilei vedi ancora H. Gatti, op. cit., pp. 19-21, 60-61). Quel che si afferma nel passo della Cena delle Ceneri (1584) come nella seconda giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) è l’idea della relatività dei moti, anche se non è ancora il «principio di relatività» che viene oggi insegnato a ogni studente di meccanica. D’altra parte, per Bruno e per Galileo il moto «naturale» è quello circolare (inerzia galileiana). Solo con Newton avremo una diversa concezione dei moti «naturali» (quelli rettilinei uniformi, inerzia newtoniana). Bisognerà aspettare l’Ottocento per avere con il pendolo approntato da Léon
Foucault nel Panthéon di Parigi (1851) l’indizio sperimentale della rotazione della Terra su se stessa.
3. Certo, l’argomento bruniano (e galileiano) non è originale. Spunti analoghi si ritrovano in una lunga tradizione, più o meno eterodossa rispetto al dogma aristotelico-tolemaico della stabilità della Terra: da Nicola d’Oresme (1323-1382) allo stesso Copernico (1473-1543), per non parlare di scettici antichi o di «teologi» islamici capaci di escogitare una cosmologia alternativa solo per ribadire l’assoluta potenza divina (vedi, per esempio, A. Sparzani, Il problema della misura…, pp. 27-33). Ma Bruno inquadra la relatività del moto e la sua difesa del copernicanesimo in un Universo illimitato. Cambia così la condizione del soggetto conoscente, il filosofo che indaga e descrive l’Universo. È come un pittore, leggiamo nel proemio della Cena delle Ceneri, il quale ritrae un paesaggio e che per «conformarsi con l’arte a la natura […] vi fa veder qua un regio palaggio, ivi una selva, là un straccio di cielo». Ma il pittore, quando non è soddisfatto di come i suoi colori rendono le cose che raffigura, può sempre interrompere l’opera e studiarne i difetti a quella distanza che «soglion prendere i maestri de l’arte». Il filosofo, invece, fa parte di quel mondo che pretende di descrivere. Non può uscire da esso, a meno che non voglia precipitare nell’Abisso del nulla (G. Bruno, Dialoghi…, pp. 11, 15-16). Il suo io resta sempre parte in causa di quella realtà che intenderebbe prevedere e controllare.
Ma nell’illimitato universo bruniano questo vale anche per Dio. Mi pare perfettamente consono con l’ironia del Nolano che noi si possa tendere l’abituale similitudine di Dio come «artista» che crea il mondo sostenendo che tale creatore esterno alle creature finirebbe col trovarsi in nessun luogo. Il Signore non contempla «dall’alto» l’opera sua, ma abita in essa – abita dentro di noi, nel nostro io, ed è forse l’unico principio per cui è possibile dire io sono (vedi quanto osservato in M. Donà, «La divina individualità», pp. 107-115).
Vale la pena di leggere un’altra pagina bruniana: «A questo modo sappiamo, che, si noi fussimo ne la Luna o in altre stelle, non sarreimo in loco molto dissimile a questo, e forse in peggiore; come possono esser altri corpi cossì buoni, et anco megliori per se stessi, e per la maggior felicità de propri animali. Cossì conoscemo tante stelle, tanti astri, tanti numi, che son quelle tante centenaia de migliaia ch’assistono al ministerio e contemplazione del primo, universale, infinito et eterno efficiente. […] Cossì siamo promossi a scuoprire l’infinito effetto dell’infinita causa, il vero e vivo vestigio de l’infinito vigore. Et abbiamo dottrina di non cercar la divinità rimossa da noi: se l’abbiamo appresso, anzi di dentro, più che noi medesimi siamo dentro a noi» (G. Bruno, Dialoghi…, p. 29).
4. C’è però chi pensa «che vi sia uno scopo divino in questo fecondo Universo, la cui vicenda di circa quindici miliardi di anni ha trasformato una palla di energia nella dimora di santi e scienziati, e che questa divina intenzione abbia operato in un solo mondo di coerenti leggi fisiche» (J. Polkinghorne, Credere in Dio nell’età della scienza, p. 14). Questo, ovviamente, non è Giordano Bruno – è invece John Polkinghorne, fisico e apologeta della fede cristiana. Nel rileggere in tale modo la narrazione delle origini, dal big bang presumibilmente alla comparsa «di santi e scienziati» (che sia autoreferenziale?), questo fisico-teologo e pastore della Chiesa di Stato inglese si appella al cosiddetto «principio antropico», in breve l’idea «secondo la quale l’Universo che ci contiene deve essere compatibile con la nostra comparsa in un dato momento della sua storia» (ivi, pp. 10-11).
Polkinghorne riecheggia qui un argomento del cosmologo John Leslie: se ci serviamo di un’attrezzatura da pesca buona solo per pesci di sessanta centimetri e tredici millimetri, gettiamo la lenza nel lago, ne prendiamo uno esattamente di quella lunghezza, allora non possiamo cavarcela dicendo semplicemente «che è solo fortuna» (ivi, p. 11; J. Leslie, Universes, pp. 9-13). Ma come osserva l’astronomo reale britannico Martin Rees, «se non ci fosse nulla oltre al nostro Universo, le sue proprietà sembrerebbero in effetti ben finemente regolate, perfino provvidenzialmente bene. Ma supponiamo che […] altri universi esistano davvero. Se le costanti fisiche assumessero valori diversi in ciascuno di essi, non ci sarebbe da stupirsi che alcuni universi permettano l’esistenza di creature come noi. E ovviamente noi ci troveremmo nel seno di un membro di questo sottoinsieme speciale. Se andate in un negozio di abbigliamento che offre una scelta enorme, non vi stupirete se trovate un vestito che vi va proprio a pennello» (M. Rees, Prima dell’inizio, p. 337). Con il che si liquida anche l’argomento del pesce.
In realtà, se si va a vedere una delle prime formulazioni dell’argomento antropico (meglio che principio per le ragioni chiarite in ivi, pp. 331-333) quella data da Brandon Carter nel 1974 (in J. Leslie [a cura di], Physical Cosmology…, pp. 125-133), anche chi (come Carter stesso) dichiara che la «nostra collocazione nell’Universo è necessariamente privilegiata nella misura in cui è compatibile con la nostra esistenza come osservatori», se non addirittura che «l’Universo deve essere tale da consentire […] la comparsa di osservatori intelligenti al proprio interno», è disposto poi ad ammettere che l’argomento antropico diventa genuina «spiegazione» solo quando si ragioni «in termini di Word Ensemble» (ivi, p. 131). Brandon Carter chiarisce: «Con ciò mi riferisco a un insieme di universi caratterizzati da tutte le combinazioni di condizioni iniziali e costanti fondamentali concepibili […]. L’esistenza di ogni organismo descrivibile come un osservatore potrà essere possibile solo per alcune ristrette combinazioni dei parametri che selezionano, all’interno del Word Ensemble, un sottoinsieme conoscibile che costituisce l’eccezione e non la regola» (ibidem). Se le cose stanno così, come ha notato a sua volta il cosmologo Dennis Sciama, «noi non abbiamo una particolare importanza nello schema delle cose, ed è solo la nostra identità personale che agisce come un effetto di selezione» (D.W. Sciama, Questo bizzarro Universo, p. 43). Resta, come si vede, un bel compito per il filosofo: lavorare pazientemente su questa identità.
5. Quando Carter formulava l’idea del Word Ensemble aveva a disposizione solo la paradossale teoria «dei molti mondi» abbozzata da Hugh Everett (per cui vedi, per esempio, G.C. Ghirardi, Un’occhiata alle carte di Dio, pp. 349-355). Oggi, invece, possiamo confrontarci con varie versioni di una teoria generale del Multiverso (vedi, per esempio, M. Rees, op. cit., in particolare pp. 227-239, 261-283, 305-351).
Non è difficile immaginare che alcune «regioni» del Multiverso o Word Ensemble possano sperimentare un’inflazione (come quella ipotizzata per il nostro Universo dal noto modello inflazionario) in modo da «raggiungere dimensioni tali da permettere la formazione di stelle e galassie; altre potranno espandersi così rapidamente da non consentire l’agglomerarsi della materia; altre potranno collassare altrettanto rapidamente; ciascuna di esse potrà avere caratteristiche differenti, valori e costanti “universali” semplici, ed essere regolata pertanto da leggi diverse. Le stelle, le galassie, gli elementi chimici e quindi gli esseri viventi potranno svilupparsi solo in quegli universi che abbiano come il nostro le caratteristiche adatte» (M. Hack, Sette variazioni sul cielo, pp. 218-219).
In tale scenario, quello che noi viviamo, è un «mini-universo» tra gli altri e il processo per cui nuovi universi emergono «non ha fine, anche se qualcuno dei mini-universi può collassare» (A. Linde, Inflation…, p. 23). Il ragionamento antropico, dunque, sia nelle versioni più «deboli» sia in quelle più «forti», va inteso come l’asserzione di correlazioni tra le proprietà dell’osservatore (il soggetto conoscente, il filosofo bruniano eccetera) e le proprietà dell’Universo osservato: «In altri termini, il punto in discussione riguarda la probabilità condizionata che l’Universo abbia le proprietà che noi osserviamo sotto la condizione […] apparentemente banale che esistano osservatori come noi, interessati alla struttura dell’Universo» (A. Linde, Particle Physics…, pp. 307-308; vedi anche A. Linde, Inflation…, pp. 156-158).
Così reinterpretato, il ragionamento antropico sembra aver ben poco in comune «con il progetto dell’Universo a beneficio degli esseri umani» (ivi, p. 156). Ovviamente, resta aperta la scappatoia di dichiarare che caso non sia altro che uno dei nomi segreti della provvidenza di Dio (vedi, per esempio, J. Polkinghorne, op. cit., pp. 74-75); c’è da chiedersi, allora, se un Dio con tanti nomi non sia in realtà un Dio con nessun nome – dicono di te, nessuno può nominarti – dunque, il fondamento di nessun fondamento: il Dio della teologia negativa, l’espressione più coerente del nichilismo.
6. Come osserva Linde, nel contesto del Multiverso «non sembra più necessario […] assumere che vi sia qualche primo mini-universo che compaia dal nulla o da una singolarità iniziale a qualche istante t = 0 prima del quale non vi sarebbe alcuno spazio-tempo» (A. Linde, Inflation…, p. 23). L’intera vicenda del nostro Universo viene quindi collocata in una «fabbrica dei cieli» (per dirla con l’espressione cara a Galilei) molto più complessa, tenendo conto dei vincoli quantistici che non possono venir trascurati alla scala del cosiddetto tempo di Planck (vedi, per esempio, ivi, p. 197). Si potrebbe anche dire che in questo modo «torna in vita la concezione dello stato stazionario [la teoria rivale a quella del big bang sviluppata da Hoyle, Gold e Bondi; vedi, per esempio, M. Hack, op. cit., pp. 154-161], applicata però al Multiverso, invece che agli universi che lo costituiscono» (M. Rees, op. cit., p. 338). Dunque, in questa concezione, ovviamente «congetturale e speculativa», il nostro big bang appare «come un evento all’interno di una struttura più ampia; l’intera storia del nostro Universo è solo un episodio del Multiverso infinito» (ivi, p. 339).
In questo modo non facciamo altro che dilatare coerentemente l’intuizione bruniana degli infiniti mondi (vedi, per esempio, quanto osservato da F. Bertola, «La pluralità dei mondi», pp. 7-25, in particolare pp. 23-25; vedi anche p. 36): l’Universo che osserviamo è solo uno dei tanti che costituiscono il «Multiverso», e l’intera vicenda cosmica che va dal big bang all’epoca in cui viviamo non è che una delle tante storie cosmiche in cui si dispiega quella che non sapremmo chiamare meglio che la potenza del naturale.
Probabilmente, il Multiverso non ha ancora trovato il suo «pittore», nell’accezione del proemio della Cena delle Ceneri. Non voglio certo passare sotto silenzio il carattere congetturale e speculativo della concezione del Multiverso (tenendo conto delle difficoltà che tale concezione incontra: vedi, per esempio, quanto osservato da G. Coyne, «Riciclati dalle stelle», p. 38); mi basta però che tale «speculazione» costituisca un’alternativa praticabile rispetto a una concezione di un solo Universo in cui si sarebbe compiuto il «miracolo» della comparsa dell’osservatore intelligente.
È in questo senso che sono portato a interpretare l’argomento di Leslie per cui il ragionamento antropico ci conduce all’enunciato composto «Dio è reale e/o ci sono molti universi differenti» (J. Leslie, Universes, p. 13). Polkinghorne glossa: «O abbiamo un mondo il cui potenziale di fecondità è espressione di un fine divino o abbiamo molti mondi, a uno dei quali capita di essere adatto per l’evoluzione della vita» (J. Polkinghorne, op. cit., p. 11). Propongo allora di muovere dalla concezione del Multiverso (nello stesso spirito dell’originale suggerimento di Brandon Carter) per costruire un argomento a favore di una sorta di anti-tesi alla (diciamo per semplicità) tesi «provvidenzialistica» che Polkinghorne ricava dal dilemma di Leslie.
7. Ritroviamo qui il sapore della «cosmologia» nel senso kantiano del termine, così come questa viene abbozzata nella Dialettica trascendentale della prima Critica. Solo che, almeno nell’interpretazione corrente del kantismo, il «conflitto della ragione con se stessa» è l’esito finale del fallimento della metafisica come impresa realmente conoscitiva, mentre si potrebbe concepire tale conflitto come motore della stessa comprensione scientifica della natura, se è vero, come scrive René Thom, che «tutto lo sforzo di costituzione di una disciplina [è…] legato alla risoluzione di un’aporia fondatrice: riempire il buco spalancato, scopo della pregnanza costituiva, con degli oggetti derivati, frutto del caso storico, dei rischi della scoperta» (R. Thom, Parabole e catastrofi, p. 149).
Non posso qui che condividere le osservazioni di Paul Feyerabend a proposito della funzione che ha la scoperta, apparentemente contingente, di alternative: queste non solo forniscono utili euristiche alla ricerca ma costituiscono una protezione contro qualsiasi forma di «tirannide» sia intellettuale sia politica (vedi, in particolare, P. Feyerabend, originariamente 1962-63, in Th. Kuhn, Dogma contro critica, pp. 266-269). In una sua osservazione critica, tutt’altro che marginale, a quello che sarebbe diventato La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) di Thomas Kuhn, Feyerabend sosteneva che «la convinzione che non vi sia alcun paradigma assoluto» può essere sì abbandonata a vantaggio di una «continuità» che garantisce l’identità di una data comunità (in quel caso, una comunità di ricercatori scientifici), ma tutto ciò si paga con la rinuncia alla «scienza come impresa razionale» («anche se la ge
nte continuerà a chiamare “scienza” il nuovo dogmatismo», in Th. Kuhn, Dogma contro critica, p. 280). Propongo come esperimento di sostituire nel brano di Feyerabend alla parola scienza quella di filosofia. Il conflitto diventa allora la chiave per leggere la storia della filosofia intesa come storia delle filosofie al plurale, cioè delle molteplici pretese alla verità – senza appiattirla a più o meno educata «conversazione» tra filosofi, come pretende Richard Rorty («La storiografia filosofica…», pp. 81-114).
8. Una precisazione: è in questa dinamica che cogliamo la radicale alterità di filosofia e religione. Per chiarire, riesaminiamo ancora il dilemma di Leslie e l’interpretazione di Polkinghorne che abbiamo richiamato nel paragrafo 6. Il cammino dall’illimitato universo bruniano agli infiniti universi del Word Ensemble (come del resto è ben espresso dalla lettera dell’enunciato di Leslie) non equivale all’espulsione di Dio dalla natura – proprio come Giordano Bruno non è affatto il precursore dell’ateismo volgare di certo «libero pensiero». Viene invece colpita la concezione «provvidenzialistica» che Polkinghorne difende. Così, l’alternativa «cosmologica» si presta a svelare da una parte le ambiguità di almeno una religione positiva, dall’altra gli stessi presupposti impliciti dell’ateismo di maniera (al quale peraltro «sfugge […] il proprio luogo e fondamento teologico»! – vedi quanto osservato in E. Jünger, Al muro del tempo, p. 279). Né si pensi che la libertà filosofica (di nuovo, da non confondere con il libero [?] pensiero) invocata da Bruno comporti la cancellazione politica della religione.
Il relativismo cosmologico del Nolano e la sua concezione «eroica», esaltata e non intimorita dall’immensità dell’Universo, riducono a puro fenomeno storico le religioni positive, cristianesimo incluso. È pur vero che nello Spaccio de la bestia trionfante (1584) Bruno aveva delineato l’elogio dell’antico Egitto ove sarebbe fiorita l’unica religione razionale, lamentando la corruzione del mondo dovuta alle religioni successive che avevano causato decadenza dei costumi e discordia politica (vedi, per esempio, G. Bruno, Dialoghi…, pp. 636-637). Eppure, questa sorta di «controriformatore egiziano» (come lo ha chiamato Frances Yates) che preferisce le pratiche magiche a quelle del culto e che non esita a farsi beffe dei miracoli raccontati nel Vangelo, compiuti da chi «può camminar sopra l’onde del mare […] senza bagnarsi gli piedi» (ivi, p. 651), ritiene che le religioni positive possano essere utili strumenti di governo delle moltitudini. E forse fu questa la sua «eresia» peggiore, pensare che un capo di Stato – il doge di una repubblica, un re, o magari il papa stesso – potesse realizzare politicamente quella che volgarmente si chiama l’idea della doppia verità: la filosofia per pochi iniziati e le «favole» della religione per i troppi incapaci di retta comprensione.
9. Dovremmo avere il coraggio di prendere sul serio la modesta proposta bruniana. Essa mantiene quella che io penso essere la strutturale incompatibilità tra filosofia e religione – pur riconoscendo alla religio la sua innegabile funzione sociale. Non si vede ragione, infatti, perché si debba fare un nuovo idolo dello smantellamento di tutti gli idoli, del relativismo un nuovo assoluto, della «verità» bruniana una cosa per tutti. (È ovvio che nulla è più lontano dal pensiero del Nolano che l’ideologia progressista a cui più volte è stato associato in certa retorica anticlericale; dovrebbe essere altrettanto ovvio che la libertà filosofica nel senso chiarito nel paragrafo 7 nulla ha a che vedere con la stessa religione della democrazia, tanto più invocata quanto più gli ideali democratici vengono di fatto disattesi nelle stesse «società aperte» dell’Occidente). Si pensi, per esempio, alla proposta di Richard Rorty («La priorità della democrazia…», pp. 23-50) che per evitare qualsiasi conflitto tra democrazia e filosofia propone di «indebolire» la filosofia stessa. Personalmente ritengo che una filosofia debole sia come una filosofia religiosa, cioè una dispersione della filosofia. Quanto all’incompatibilità di Socrate con le assemblee democratiche o di Bertrand Russell con i difensori istituzionali dei «valori comuni» sia lecito il riferimento a P. Adamo-G. Giorello («Il giudice McGeehan…», pp. 96-104).
Sgombrato il campo dagli equivoci dei «buoni sentimenti» dei sostenitori della sovranità della democrazia sul pensiero, occorre ancora riflettere sul conflitto tra filosofia e grandi religioni. La religione è qualcosa che unisce, la filosofia inevitabilmente divide. Non c’è valore comune che tenga: qualunque esso sia, verrà smantellato. Vale anche per l’uso apologetico della stessa scienza. Nessun argomento del pesce, ma eroico furore della fenice.
Attenzione, pesce e fenice sono due immagini di Cristo sin dall’età paleocristiana; personalmente, preferisco al pesce (nel senso del paragrafo 4) – cioè all’animale «pensante» che si ritrova a sguazzare in un enorme stagno creato a suo uso e consumo dalla «provvidenza» – l’uccello che fa il nido nel fuoco che lo distrugge. La filosofia è questo stesso autobruciarsi: solo che nel mito pagano come nella rilettura cristiana la fenice si «accende con certezza», mentre la filosofia «con dubio de riveder il sole» (G. Bruno, Dialoghi…, p. 851).
10. Bruno ci ha così insegnato quanto sia «pericolosa» ogni avventura conoscitiva: la filosofia, non meno dell’impresa scientifica, è sempre esposta al rischio dello scacco, se non della (auto)distruzione. Anche per noi, in quanto uomini di scienza, l’unica speranza (non certezza) è quella di rinascere dalle proprie ceneri, cioè, fuor di metafora, di imparare dai nostri errori, riconoscendo la fallibilità delle nostre più ardite speculazioni e (soprattutto) l’ambiguità dello stesso successo tecnologico. Giordano spese parte della sua esistenza a studiare gli «incantesimi» con cui il mago avrebbe potuto aumentare il suo controllo sulle cose e i «vincoli» con cui avrebbe potuto legare a sé le menti degli altri uomini. Oggi, abbiamo altri mezzi: dai grandi apparati tecnici che sfruttano le diverse forme di energia all’ingegneria genetica che sta realizzando, di fatto, la riproducibilità artificiale del vivente, dalle autostrade informatiche che riscrivono la geografia e trasformano le modalità della comunicazione e della comprensione ai processi globalizzanti della nuova economia. E tuttavia, dobbiamo guardarci dal celebrare le magnifiche sorti e progressive. Sarebbe come se concludessimo dal fatto che ci sentiamo ben saldi su questa Terra mentre contempliamo la volta stellata, che siamo fermi e al centro del cosmo. Dal tempo di Bruno (almeno) sappiamo che non è così. E qualche secolo di scienza ha mandato in pezzi la pretesa «egocentrica» di un mondo al nostro servizio.
È superfluo aggiungere come la convinzione di molte anime belle che il volo della fenice do
vrebbe sottostare ai vincoli della «democrazia» non sia altro che una variante casalinga dell’argomento del pesce. L’Inquisizione, almeno, aveva un suo tetro splendore. I suoi eredi laici non sono che pallidi servi del totalitarismo democratico.
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11. L’uniformità delle coscienze (e nella coscienza del singolo) che la religio garantisce può quindi rappresentare ancora oggi una buona medicina per tutti coloro a cui risulta intollerabile convivere più o meno a lungo con il dubbio bruniano. La religione ben si confà alla polis (per esempio, chi oggi soggiace al mito del disincanto del mondo tende per compensazione a far propria la mitologia democratica). Riconosciuto questo, mi piace terminare ancora con l’eretico di Nola, questa volta dall’opera latina: è «assurdo prendere per buona una tesi perché un gran numero di persone la giudica vera, quasi che il numero dei sapienti dovesse superare, oppure uguagliare, o almeno avvicinarsi alla moltitudine infinita degli stolti». Sicché «trattando di filosofia», diceva Bruno, «tutte le cose saranno per me ugualmente dubbie: non solo le affermazioni più ardue e lontane dal senso comune, ma anche quelle che sembrano sin troppo certe ed evidenti, dovunque e comunque saranno oggetto di controversia» (G. Bruno, in M. Ciliberto [a cura di], Giordano Bruno, p. 794; vedi anche quanto osservato da M. Ciliberto in G. Bruno, Dialoghi…, pp. XLIV-XLV).
OPERE CITATE
P. Adamo-G. Giorello, (1999), «Il giudice McGeehan, naturalmente», MicroMega, n. 4.
G. Aquilecchia, (1995), «I massimi sistemi di Galileo e La Cena di Bruno», Letture galileiane, n. 3.
F. Bertola, (1999), «La pluralità dei mondi», in C.M. Martini et Al., Orizzonti e limiti della scienza, Milano: Cortina.
G. Bruno, (2000), Dialoghi filosofici italiani, a cura di M. Ciliberto, Milano: Mondadori.
M. Ciliberto (a cura di), (1995), Giordano Bruno, con traduzioni di N. Tirinnanzi dalle opere latine di G. Bruno, Roma: Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato.
G. Coyne, (1999), «Riciclati dalle stelle», in C.M. Martini et Al., Orizzonti e limiti della scienza, Milano: Cortina.
M. Donà, (1993), «La divina individualità», Theoria, n. 1.
G. Galilei, (1890-1909), Opere, 19 voll., a cura di A. Favaro, Firenze: Barbera.
H. Gatti, (1999), Giordano Bruno and Renaissance Science, Ithaca-London: Cornell University Press.
G.C. Ghirardi, (1997), Un’occhiata alle carte di Dio, Milano: il Saggiatore.
M. Hack, (1999), Sette variazioni sul cielo, Milano: Cortina.
E. Jünger, (2000), Al muro del tempo, Milano: Adelphi.
T. Kuhn, (2000), Dogma contro critica, Milano: Cortina.
J. Leslie, (1989), Universes, London: Routledge.
J. Leslie (a cura di), (1990), Physical Cosmology and Philosophy, New York: MacMillan.
A. Linde, (1990), Inflation and Quantum Cosmology, San Diego-London: Academic Press.
A. Linde, (1990), Particle Physics and Inflationary Cosmology, Chur: Harwood.
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