GIORGIO BOCCA: Basta con l’anti-antifascismo
di Giorgio Bocca, da MicroMega 1/04
Un tale che si definisce il portavoce della comunità ebraica di Milano ha sostenuto in un’intervista a Sette, ebdomadario del Corriere della Sera, la seguente tesi: la rapida conversione dal fascismo all’antifascismo di molti giovani alla caduta del regime non convince, è stata troppo rapida, è mancato il «travaglio storico». È più convincente il ritorno alla democrazia dei neofascisti: ci hanno messo sessant’anni per maturare salde e serie convinzioni democratiche.
Prima deduzione: anche gli ebrei possono essere dei perfetti cretini, per cui venti mesi di guerra partigiana non sono un travaglio storico e sessant’anni di rimasticamento fascista invece sì. Seconda deduzione: dietro l’apparente cretinismo c’è la solita, storica, strategica manovra della destra autoritaria di voltare gabbana per arrivare a un nuovo unanimismo. Capuccetto rosso applicato alla politica, il lupo che si traveste da agnello.
La conversione a trecentosessanta gradi di Gianfranco Fini è una di quelle acrobazie che solo i grandi cinici antidemocratici sanno compiere proprio perché privi di coscienza e responsabilità democratiche: fare dei trattati della carta straccia, affrontare le apostasie più audaci e vergognose, come mostrano le storie dei fascismi.
La conversione del neofascismo italiano all’antifascismo è stata una delle pagine più indecenti della politica italiana e l’indifferenza con cui è stata accolta dalla pubblica opinione è la misura del disfacimento civile e politico del paese, il suo navigare nel vuoto.
A confermare questo senso del vuoto ci pensa anche la sinistra migliorista: in una trasmissione televisiva Massimo D’Alema ha confermato la sua vocazione al suicidio affermando che non esiste un regime e che viviamo in un ottimo Stato di diritto. Uno dei leader dell’opposizione, uno che passa per una fine testa politica, si è dato la zappa sui piedi, avendo prima di questa stupefacente dichiarazione spiegato che il governo Berlusconi non ha fatto altro che occuparsi degli interessi personali del suo padrone, si è impegnato a fondo nella guerra alla magistratura, ha ottenuto privilegi anticostituzionali e si è impadronito dell’informazione televisiva.
Se non è regime questo! Se non si capisce che l’informazione televisiva condizionata dalla pubblicità commerciale è una dittatura morbida, pervasiva, asfissiante, che piega tutto e tutti al pensiero unico, alle persuasioni più o meno occulte che hanno consegnato il potere alla cupola berlusconiana, se non si capisce che l’accettazione del modello neoconservatore è la fine di una sinistra reale, se si continua a dire che il solo metodo infallibile per la rivincita consiste nel calare le brache, si va all’unanimismo di sapore craxiano, tutti ad Hammamet per rendere omaggio all’uomo che ha distrutto il Partito socialista della repubblica democratica così come il socialista Mussolini aveva distrutto quello del regno.
Ecco perché l’antifascismo torna ad essere il nemico del sistema, dell’ordine, del nuovo nazionalismo guerriero, ecco perché a sessant’anni di distanza riparte la «marcia contro la Vandea», la crociata antipartigiana che il Mussolini di Salò affidò al segretario del partito Pavolini e al maresciallo Graziani. Quella si concluse nel ridicolo con Pavolini in fuga dal Canavese dopo essere stato ferito alle natiche; questa si trascina vergognosamente secondo i temi e i metodi della diffamazione, dei ricatti affidati ai cortigiani pronti a ogni bassezza. Nel fascismo la crociata era diretta da una struttura burocratica poliziesca, da un ministero della Cultura popolare che organizzava i linciaggi, suggeriva i temi, forniva il materiale di accusa e di diffamazione. Oggi la struttura burocratica ministeriale è stata sostituita da un sistema apparentemente più elastico, più articolato, ma in realtà altrettanto e forse più rigido, imperniato come è sul potere pubblicitario, sui soldi che appoggiano, moltiplicano, suscitano un inesauribile astio ripetitivo, di cui conosciamo le quotidiane offese all’antifascismo partigiano combattente e all’antifascismo politico.
È la ripetizione della partita impari che si svolse negli anni Venti, delle complicità, degli aiuti che il fascismo ebbe dalle istituzioni e in genere dai poteri costituiti. In parte diretta dall’alto, in parte accompagnata spontaneamente dai molti che per vivere hanno bisogno di un padrone.
La crociata contro l’antifascismo ricorda uno spettacolo pirotecnico: si alza nel cielo un razzo luminoso e poco dopo un altro e poi tanti da far della notte il giorno, fin che in breve tutti si spengono, ma la tregua è breve, ecco ripartirne un altro, ecco riprendere quello che i pugili chiamano il lavoro ai fianchi, il progressivo picconaggio. «Calunniate, calunniate qualcosa resterà», «la calunnia è un venticello». Ripetere, ripetere, non stancarsi di ripetere, recuperare dall’immondezzaio argomenti di sessanta, cento anni fa e riproporli come freschi di giornata.
Le infami accuse agli antifascisti politici: erano delle finte vittime, il Duce li mandava in vacanza sulle isole, tutti al mare di Ventotene o alla salubre collina di Eboli. Finte vittime, gente che elemosinava dal fascismo sussidi e perdoni, il «filosofo dei miei stivali Bobbio», come lo chiamava Craxi, il criptocomunista Vittorio Foa, che fingeva di ignorare lo stalinismo, gli infidi azionisti e gli assassini comunisti. E ancora, il divide et impera infamissimo per cui nella Resistenza a comunisti e azionisti toccava il plotone di esecuzione e a cattolici o liberali la prigione. E di nuovo l’ignobile gioco dei morti. Nel Ventennio il lugubre apparire in ogni federazione dei sacrari dei martiri delle rivoluzione, e il completo silenzio sulle migliaia di vittime dello squadrismo, il silenzio su una repressione che aveva ucciso, ferito, messo a tacere operai e contadini, uomini liberi che difendevano i loro diritti.
Il turpe gioco sui morti trasferito alla guerra partigiana: bisogna rispettare i caduti, anche i caduti di Salò, combattevano per degli ideali. Una confusa retorica, un fascio di tutte le erbe, una falsificazione della storia. Nessuno che ricordi come andarono esattamente le cose nella Repubblica di Salò e nelle sue forze armate: prima la corruzione affidata al maresciallo Graziani che compera ufficiali e sottufficiali del disciolto esercito regio, poi il fallimento della formazione di un esercito fascista, due sole rapide insignificanti puntate al fronte contro gli Alleati in venti mesi, tutta l’attività concentrata sulla repressione antipartigiana. E soprattutto la falsità retorica: non si tratta del rispetto dei morti, ma del giudizio di quando erano vivi, del fatto che stavano dalla parte sbagliata, dalla parte dei razzismo sterminatore. E in aggiunta la speculazione sulla ferocia partigiana, la falsa storia sulla resa dei conti dopo il 25 aprile dell’insurrezione, il fare una giustizia partigiana e vendetta di popolo, vecchi conti con lo squadrismo, vecchi conti popolari con il regime.
E far finta di non capire che i rapporti fra politica e storia sono strettissimi, che non si può scrivere una storia asettica, scientifica, che anche scrivendo di storia si assumono delle responsabilità politiche. Per esempio sostenere, come gli allievi di De Felice, che la Resistenza fu minoritaria e che prevalse la «zona grigia» di quanti stavano alla finestra è una versione conse
rvatrice, da «pace dei vescovi» gestita dalle superiori autorità. È anche una storia falsa, perché è del tutto evidente che una guerra partigiana non sarebbe stata possibile senza il pieno appoggio della popolazione, perché risulta, da tutte le cronache dei militi di Salò, quale fosse il rifiuto e l’inimicizia che li circondava, le porte e le finestre sbarrate, il silenzio degli abitanti. È del pari una falsa storia, una storia faziosa e diffamatrice, quella che non distingue fra guerra grossa e guerriglia, la prima esclusiva degli eserciti regolari armati di carri armati e cannoni, la seconda delle bande ribelli fornita solo di fucili e bombe a mano, due guerre di tipo diverso che solo in alcune occasioni si sovrapposero, come nelle liberazioni delle grandi repubbliche partigiane o nelle battaglie per il controllo dei valichi alpini.
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