GIORGIO BOCCA: I nemici della Resistenza preparano un fascismo soft

Giorgio Bocca


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, da MicroMega 4/2001

La storiografia contemporanea è piena di pidocchi revisionisti che pretendono di cambiare gli accaduti, le memorie, la toponomastica, i libri di testo, in base a tesi demenziali: che la guerra di Resistenza non ci fu o fu una sua parodia, che non fu guerra di popolo risorgimentale ma guerra civile decisa dai comunisti, anzi da Mosca.

Un concerto sguaiato, sconclusionato, in apparenza. Ci sono i consiglieri comunali forzisti di Bologna che vogliono cancellare dallo statuto della città ogni riferimento alla Resistenza, c’è il sindaco di Monza che finanzia i viaggi scolastici ai lager nazisti a patto che si accompagnino a quelli alle foibe del comunismo istriano, e gli altri che cancellano le intestazioni di una via a Togliatti o al XXV aprile. E ci sono gli storici che sostengono che l’8 settembre del ’43, inizio della guerra partigiana, fu la morte della nazione.

È di moda Salò: il giornalismo moderato scrive che in quell’angolo crepuscolare del lago di Garda si radunarono gli ultimi italiani che conservavano il senso dell’onore. «Nessuno ci andava per lucrare», si è scritto, «e il Duce si intristiva guardando questi suoi ragazzi». Non c’è fondo alla libidine della menzogna. Decine di migliaia di ufficiali del disciolto esercito e di burocrati ministeriali aderirono alla repubblica collaborazionista per «il ventisette degli stipendi», metà Cinecittà si trasferì a Venezia per continuare a produrre a spese dello Stato film che non arrivavano nei cinematografi, una moltitudine di travet risalì la penisola per raggiungere i ministeri di Bergamo, di Milano, di Verona, riscuotendo anche l’indennità di trasferimento e di «sede disagiata». Poveri ragazzi delle brigate nere e delle altre compagnie di ventura che intristivano il Mussolini abbandonato a villa Feltrinelli di Gargnano!

E comunque basta con le inimicizie che lacerano la patria, siamo tutti fratelli. Ci sono però differenze che non è facile dimenticare.

Quei patrioti di Salò per che combattevano? Per vincere la guerra al fianco dei nazisti delle camere a gas e del dominio razzista sul mondo, della distruzione di ogni libertà. Quelle libertà che furono invece i partiti della Resistenza a riportare in Italia anche a vantaggio degli altri. I morti, diceva Pavese, sono tutti eguali, partigiani e repubblichini giacciono tutti dimenticati fra i filari delle vigne. Ma non sono eguali le loro storie, la storia degli uni era il ritorno alla libertà, quella degli altri la sua pietra tombale.

La pietà è un’altra cosa, è un sentimento umano sugli errori e le debolezze dell’uomo, ma la pietà sulle idee non ha senso, non si può aver pietà di idee e di pratiche che sono fuori dal genere umano, non si può revisionare l’orrore che c’è stato, si può al massimo dimenticarlo.

Allora ci si chiede: come mai la guerra partigiana, che è cosa di mezzo secolo fa, rappresenta per la nostra destra liberista una memoria intollerabile, un nemico da estirpare ad ogni costo, un boccone avvelenato da trangugiare, una realtà da sottrarre alla pubblica opinione volente o nolente, perché niente di quella memoria e di quella storia rimanga intatto? Dunque si insultino il filosofo Bobbio, il giurista Galante Garrone e quanti altri rappresentano l’eredità azionista, si dica che Gobetti era un criptocomunista e che Carlo Rosselli era un ideologo confuso e velleitario. Concerto rozzo e stonato, quello revisionista, ma non casuale.

«Questi innesti di revisionismo storiografico», annota lo storico Massimo Legnani, «servono alla destra. Si colpisce l’antifascismo e la Resistenza perché avevano in sé il programma positivo di rimettere in discussione gli assetti postrisorgimentali non solo fascisti ma anche liberali».

Non si tratta di far pulizia nelle retoriche memorie che danno fastidio alle generazioni che sono seguite, ma di cancellare dei valori fondamentali per la democrazia e di ostacolo al privatismo. A cominciare dalla guerra di popolo, cioè da una guerra che non ignorava le classi ma le superava, fatta da persone, da cittadini, di censo e di opinioni diversi che però riuscivano a superare le fazioni. Ovviamente non ne nacque il regno dell’eguaglianza, della giustizia sociale, della legge eguale per tutti, ma ceti sin lì emarginati e considerati di serie inferiore, come gli operai e i contadini, entrarono a pieno titolo a far parte della nazione, il lavoro venne considerato un diritto politico e nacquero delle larghe alleanze trasversali che ressero alla guerra fredda.

Il privatismo del turbocapitalismo e i suoi servi hanno in certo modo rivalutato la Resistenza come la base di una democrazia e di una Costituzione da abbattere per poter instaurare la dittatura morbida del mercato, per arrivare alla democrazia autoritaria in cui la separazione e l’autonomia dei poteri vengono cancellate dalle omologazioni del capitale.

La campagna revisionista è la conseguenza della revisione della legalità repubblicana, della storia repubblicana.

In un recente raduno del nuovo regime, il sardonico Francesco Cossiga ha liquidato nel silenzio-assenso dei presenti Norberto Bobbio come un fascista. Al nuovo regime che nasce fa comodo chiunque dia delle picconate all’Italia laica e resistenziale. Al nuovo regime attento soprattutto alla libertà del soldo, al potere dei soldi, fa gioco anche questo picconare a vanvera sulla politica e sulla storia, questo falsificare la storia.

Un neofascista sdoganato dalla destra, il presidente della regione Lazio Storace, ha aperto una campagna contro i libri di testo scolastici perché imposti dall’egemonia comunista. Un forte interesse dei comunisti a usare gramscianamente la superiorità culturale ci fu, ma dentro un’Italia – governata dai moderati – che nella guerra fredda era un miracolo di tolleranza e di convivenza.

Credo di esserne buon testimone come autore – borghese, liberalsocialista, quanto a dire il più lontano dal comunismo reale – di una biografia di Togliatti scritta con l’aiuto di intellettuali comunisti, da Paolo Spriano agli storici dell’Istituto Gramsci, i Gerratana, i Colombo, e dei leader del partito come Longo e Secchia. Strana dittatura paracomunista quella descritta dai revisionisti. Il governo era un feudo inamovibile democristiano, esercito polizia giornali radio erano nelle sue mani persino negli anni di piombo, persino nella Padova di Potere operaio e del professor Negri, dove i democristiani restavano tranquillamente padroni di tutte le facoltà forti da cui uscivano gli imprenditori, gli amministratori, i professionisti.

Il revisionismo, come prodotto di una volontà politica che come una pubblicità sleale non vuole disvelarsi, colpisce tutto ciò che può essere una certezza, un sicuro punto di riferimento fuori dal potere del denaro. Questa mancanza di convincimenti seri, di opinioni autentiche, di tensione civile, spande sull’intera società qualcosa di opaco, di osceno. Scrive Marco Revelli che è in corso una regressione, un disagio della civiltà: la destra soffia sul fuoco del rancore, alimenta l’inquietudine, organizza il dissenso, ma non c’è una sinistra che sappia riparare, recuperare, proteggere.

Il nuovo regime sa, come la pubblicità ingannevole che è la sua cultura, che la mancanza di chiarezza gioca a suo favore. Il sistema informativo che obbedisce ai suoi ordini e intuisce i suoi desideri ama il dubbio perman
ente, le doppie verità, i retroscena mai svelati, l’andirivieni di accuse e controaccuse che vanno regolarmente a spegnersi contro il muro del più forte, nella impunità che è il suo privilegio. L’aereo abbattuto a Ustica, quello omicida del Cermis, le trame nere, i campi magnetici, l’uranio impoverito: parole, parole che si elidono e al momento della resa dei conti le assoluzioni, i finti processi.

Il sistema non è quello immaginato dalle Brigate rosse, lo Stato imperialista delle multinazionali, non c’è nessun dottor Stranamore a dirigerlo, ma c’è qualcosa che gli dà unità di intenti e di azioni e sono i grandi interessi coincidenti. Non è il falco George Bush presidente degli Stati Uniti a rifiutare il patto di Kyoto per la difesa dell’ambiente, è l’associazione spontanea delle grandi corporation, l’aritmetica elementare di chi non vuol sborsare un dollaro.

Nessun demoniaco personaggio guida il revisionismo, ma i suoi promotori sanno che la pubblicità, la falsa propaganda consentono di superare ogni contraddizione. Così si fingono difensori di tutto ciò che combattono: la giustizia, la legge, la lotta alla criminalità, il buoncostume. Sono per la legge e l’ordine ma riciclano il denaro sporco e contrattano i voti con i mafiosi, sono virtuosi morigerati e hanno fatto della loro informazione un bordello, vogliono una scuola democratica per tutti e cercano di uccidere quella pubblica a favore di quella privata, di classe.

Il nuovo regime basato sui consumi, sulla loro pubblicità e sul consenso che li deve circondare non ha bisogno di essere radicale e apertamente violento. Va meglio la violazione sistematica della legalità grazie alla corruzione e al sofisma avvocatesco, va meglio il finto ossequio alle regole. Mantenerne l’apparenza è molto più pericoloso per la democrazia che una violazione scoperta.

(27 agosto 2020)





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