GIORGIO BOCCA: L’arca
Dal vitello della coscia ai cicciarelli, dal Castelmagno ai caprini di Roccaverano, dal lardo di Colonnata al provolone del Monaco al Bertelmat della Val d’Ossola: una passeggiata gastronomica, condotta sul filo della memoria personale e della storia d’Italia, tra le prelibatezze ‘a rischio’ del Belpaese.
di Giorgio Bocca, da MicroMega 4/2000
Carlo Petrini, l’inventore dello Slow Food, mi ha portato in visita alla costruenda università del vino a Pollenzo, nella grande cascina di re Carlo Alberto. Dicono che i Savoia avessero in testa solo la regola della cipolla, da sfogliare come i possedimenti altrui, ma per un piemontese uno che ha sacrificato la tenuta di Pollenzo – campi, laghi, fiumi, alberi ai piedi delle Langhe – all’unità d’Italia è un uomo eccezionale, magari un po’ matto. Un luogo magico dove tutti arrivano come api ai fiori, anche Alarico con i suoi goti, anche Napoleone con la sua stracciata armata d’Italia, e sono guai per chi pensa di lavorarci, di ricostruire, gratti il terreno e compare il lastricato di una strada romana, Petrini smette di occuparsi di vignaioli e corre a discutere con quelli delle Belle arti. Adesso Petrini ha inventato l’Arca dei presidi, le associazioni di produttori e di commercianti che vogliono salvare gli alimenti che stanno scomparendo, sia perché a lavorare con la schiena chinata sono sempre meno, sia perché ci si mette anche l’Europa dei burocrati a legiferare in modo assurdo, come se la terra d’Europa e i suoi mari e fiumi fossero tutti la stessa cosa, da Dunquerque a Pachino, e i cicciarelli di Novi ligure – piccoli pesci argentei cilindrici – fossero la stessa cosa delle aringhe dei mari del Nord. Petrini organizza congressi, invita ministri, mobilita scienziati, fa arrivare centoventimila persone al salone torinese del gusto con D’Alema e Scalfaro all’assaggio del Castelmagno e ora si occupa dei distretti, ultima trincea contro il modernismo distruttore cui lancia un proclama segnato da uno humour langarolo: «L’uomo salva dall’estinzione il gorilla delle montagne, il panda tibetano, il leopardo delle nevi. Facciamo qualcosa anche per il caciocavallo podolico».
Lo seguo sulle gazzette, qualche volta lo incontro a un tavolo di osteria del lungo Tanaro, magari a Cervere dove i giacimenti di rane di porri, di bote della Stura sono ancora egregiamente coltivati, ma sono un commensale e un lettore di tipo speciale, coinvolto, memore di emozioni giovanili, anche belliche, unito al territorio fra Cuneo e Asti da mille vene, da mille terminazioni nervose. Quando arrivo da queste parti native mi sembra di respirare meglio e perché non dovrebbe essere così, se le piante, gli animali respirano meglio nell’aria di casa? Prendiamo il primo distretto di un elenco dell’Arca, rivista che si pubblica a Bra in via Mendicità istruita, un nome del Piemonte sociale, salesiano. Il vitello della coscia per cominciare, razza piemontese, la fiera del Bue Grasso di Carru. Non avrei barattato il servizio sul Bue Grasso con nessun altro: secondo giovedì di dicembre quando le Langhe, mare di colline, sono bianche di neve con le cascine disegnate a misura di bue, tanta terra quanta due buoi riuscivano ad arare in una giornata, più le vigne si intende, quelle a «sori» esposte al sole, defilate dai valloni che salgono dal Tanaro con i loro fiati gelidi. Si arriva a Carru la sera prima. Carru, dove mio padre biellese aveva seguito suo padre all’ufficio dei pesi e misure, che era poi l’ufficio del dazio con la sua pesa orizzontale dei carri. Ecco perché quando arrivò Luigi Einaudi nelle Langhe, appena nominato presidente della Repubblica, mi sembrò di festeggiare uno della famiglia. La sveglia era per le cinque del mattino per il rito della trippa bollita, lo stanzone dell’osteria già pieno di allevatori che apparivano con le loro mantelline nere nei vapori invernali, tutti con il loro «tucau», il bastone che serviva a tastare le carni delle bestie. Minestra fumante di trippa e dolcetto di Dogliani e chi l’avrebbe mai detto che oggi una figlia è arrivata lì a San Fereolo o Friol o Fereol, martire cristiano venerato in Occitania, e le hanno dato il premio della vanga. La piazza si riempiva di buoi giganteschi, c’erano sicuri quelli di Paoluccio di Sant’Antoni non so quante volte vincitore. E tornavano le storie e i miti che stupivano noi cittadini, dei vitelli della coscia nutriti a uova e tajarin. Ma era davvero incredibile? Non ero stato svegliato un mattino del dicembre ’44, appena arrivato nelle Langhe dalla montagna con le bande di Giustizia e libertà, da una contadina che ci chiedeva se volessimo per colazione salsicce fritte e tajarin dopo mesi di castagne e patate bollite? Il vitello della coscia per noi cittadini era un po’ come quello d’oro dell’Esodo, così diverso dalla miseria contadina da apparire come un idolo, d’oro. I vecchi dicevano che era un miracolo di tremila anni prima, un incrocio fra le nostre bestie e zebù asiatici. E si rideva increduli. Ma perché? Il mondo antico non era già a suo modo «globale», la via della seta non andava da Venezia a Pechino, non era alla base dell’economia di Bisanzio? Ma la versione ufficiale era che alla fine dell’Ottocento in un villaggio di nome Guarene era nato un vitello miracoloso, o mostruoso che è un po’ la stessa cosa, con un sedere a groppa di cavallo, natiche potentissime che per alcuni anni erano parse demoniache e nessuno osava mangiare quei vitelli. Ma qual è oggi il piemontese che non assaggia di quella groppa le insalate di carne cruda condite con aglio e olio in ricette diverse segrete, una confidatami da Giorgio l’erede di Felicin di Monforte, semplicissima, quasi incredibile: qualche cucchiaio di acqua per farla più leggera e sciolta. I vitelli della coscia non sono in pericolo di estinzione, gli allevamenti della razza piemontese sono ancora quindicimila, ma sono sempre meno i figli che continuano il lavoro dei padri, scomparsi i malgari che salivano in montagna a San Giovanni il 24 giugno e scendevano a San Michele il 29 novembre.
Con i cicciarelli ho un rapporto diverso, un po’ clandestino. Li mangiai per la prima volta a Varigotti, a una cena partigiana poco dopo la battaglia di Genova per il congresso del Msi. Sull’onda dei cicciarelli fritti come piccole anguille e del Vermentino si fecero discorsi da galera come «è l’ora di tornare in montagna» e non ci fu tempo di occuparsi dei cicciarelli come oggi se ne occupa il presidio di Noli, che è alle prese con i burocrati europei i quali pensano che la pesca leggera mediterranea sia la stessa cosa di quella praticata nei mari della Manica o del Belgio o dell’Olanda, dove i pescherecci vanno con le reti a strascico che arano il fondale, per cui bisogna tenerli a debita distanza dalle coste. Ma la pesca leggera dei cicciarelli e di altri pesci azzurri si fa dentro cinquanta metri, perché i pesci stanno nascosti nella sabbia e bisogna scoprirli con l’oblò, «u spegiu» – lo specchio – e pescarli con la sciabica che è una rete arrivata con gli arabi, leggerissima, che accarezza appena il fondo e va tesa e ritirata a mano. Paragonarla a una rete a strascico è una stupidaggine, ma ai burocrati di Bruxelles lo stupido non fa paura. Un tempo le donne della montagna scendevano alla spiaggia di Noli con i loro cesti di castagno, facevano il carico e a spalle lo portavano a Carru, Dogliani, Fossano, Alba, nei paesi di Langa dove anche oggi ci sono mercati del pesce, dell’olio, delle acciughe, sconosciuti nel resto del Piemonte. Adesso i cicciarelli quando
arrivano arrivano in camioncino.
I giacimenti dei formaggi rari mi hanno rallegrato la vita in pace e in guerra. Il Castelmagno in primis, anche per ricordarmi come eravamo poveri in fatto di consumismo. In casa nostra, casa di una maestra elementare, arrivavano solo tome. Magari erano dei Raschera della Valle Stura o Pesio, ma per noi erano solo tome. Il Castelmagno lo comperavano i ricchi. Un formaggio da re. Fu un parroco della Val Maira che faceva lo scriptor alla corte di Carlo Magno a portargli ad Aquisgrana una forma di Castelmagno e a insegnargli che la parte migliore era quella appena sotto la crosta color ruggine. Adesso che è di moda l’Occitania il Castelmagno va chiamato con la lingua d’oc: Chastelmah. Ho invidiato con tutto il cuore un mio amico di nome Spini che al suo primo impiego fu nominato segretario comunale di Castelmagno. Tutto l’inverno a sciare, bloccato dalle nevicate e a mangiare il formaggio che ha il profumo dei pascoli alti e una pasta delicatissima, bianca nei primi mesi e poi infiorata di muffe verdognole. Maturato solo nelle cantine con il pavimento di terra e porte e finestre rivolte chi sa perché a nord. E i tomini del Melle in Val Varaita, inventati nel secolo scorso da due contadine che si facevano arrivare il latte intiero dalla Val Bronda per tomini soffici. Ma attenzione ai commercianti: il Presidio dovrebbe impedire il commercio dei falsi, tomini secchi e insipidi venduti a basso prezzo ai turisti della domenica. Grandi formaggi anche nelle Langhe, l’Escarun di Ocellii e i caprini di Roccaverano, difficili da trovare per uno che sta a Milano, perché in fatto di formaggi la frontiera del Ticino non è ancora scomparsa, la separazione fra il regno di Sardegna e la Lombardia è rimasta forte, trovare formaggi piemontesi nelle salumerie lombarde è raro, la Lombardia resta il regno dei gorgonzola, delle crescenze e dei casera della Valtellina, dei taleggi. Scomparso quel superformaggio che era il lodigiano, il grana con la lacrima verde, che scoprivi come uno smeraldo nella pasta giallognola. Un giorno il salumaio principe Abbiati alzò le braccia sconsolato per confessarmi che l’ultimo casellante aveva chiuso bottega.
Il lardo di Colonnata l’ho scoperto da quando vado al mare a Lerici. Per merito di Venanzio che ha la trattoria sulla piazza del villaggio che sta dentro le cave di marmo, lo raggiungi per una strada che passa fra cubi immani di marmo tagliato. La leggenda che circonda ogni alimento raro dice che Michelangelo veniva qui a scegliersi i blocchi di marmo e ogni volta se ne andava con una provvista del famoso lardo che i cavatori mangiavano a cubetti, non a foglie sottili come quelle che Venanzio mette sui crostini quando sfida grandi cuochi come Ducasse o grandi ristoratori come Siro Maccione, che come Michelangelo se ne va a New York con la sua provvista di lardo.
Il segreto del lardo di Colonnata è molto semplice per chi lo fa, una verità rivelata per quelli del posto che dicono: «a Colonnata il lardo viene meglio». Ogni produttore ha i suoi segreti, a cominciare dal marmo per la conca che va scelto nei canaloni più alti, secco e vetroso. La conca va cavata con precisione assoluta per incastrarci il lardo che viene dalle valli emiliane del Felino. Segreto anche il sale marino, il migliore costa trentamila lire il chilo, segreti i posti dove raccogliere il rosmarino il ginepro il timo il mirto e l’aglio, che ha la proprietà di rendere il marmo più morbido o più compatto allo scalpello, di preciso non si sa ma tutti gli scalpellini si portano in tasca una testa d’aglio. La salamoia deve coprire di almeno due dita il pezzo di lardo. Insidiato anche lui, manco a dirlo, dalla burocrazia europea la quale un bel giorno decise che quel tipo di fabbricazione non rispettava le norme igieniche e un mattino i nostri ossequienti poliziotti arrivarono a Colonnata, bussarono alle porte e chiedevano: voi fate il lardo? Sembrava di essere tornati ai tempi in cui si dava la caccia all’anarchico, nel 1894 ci furono nella zona delle cave settecento arresti e seicento processi. Subito quelli di Colonnata fecero fare degli esami del loro lardo e risultò che era purissimo. C’è chi il lardo lo compra nel Senese dove si è salvata la cinta, il suino metà bianco e metà nero che pascola sulle colline di Siena, sempre lì, come nel Buon governo di Ambrogio Lorenzetti, la cinta che pascola nei boschi di leccio o di quercia dove ottime sono le ghiande.
In Italia ci sono come ad Agerola come a Modica dei «monti lattari», è stato il formaggio nei millenni a segnare il territorio. Ad Agerola e nelle montagne dietro la costiera sorrentina fanno il provolone del Monaco. E questa non è leggenda ma storia vera, i malgari Parlato e Guida, trasferitisi da Napoli ad Agerola per fabbricare formaggio, usavano trasportare a Napoli il loro provolone per barca, dalla piccola rada di Seiano. Uno dei Parlato per proteggersi dall’umido del mattino indossava un grande mantello simile al saio di un monaco. E gli scugnizzi che attendevano a Napoli di scaricare il formaggio vedendolo gridavano «arriva il Monaco» e rimase il nome, il provolone del Monaco.
Agrumi rari in mezzo a formaggi rari: per esempio il «femminello» del Gargano, il «limone più antico d’Italia». E gli aranci che seguivano i nostri emigranti nelle Americhe, «Good all the year round». Sul Gargano nel raggio di cinque chilometri si passa dai fichi d’india ai castagni, e come in Sicilia, in Sardegna, in Calabria, campi ricavati dalle pietraie e ancora «mastri di muri a secco», le siepi di sassi che proteggono i frutteti.
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