GIORGIO BOCCA: La sinistra delle regole
Chiedere oggi che cosa sia la sinistra è una domanda politicamente imbarazzante se non scorretta. Chiedersi che cosa sia questa mitica sinistra in un’Europa in cui i suoi tradizionali partiti socialisti e comunisti sembrano acquisiti ai teoremi e ai miti del neoliberismo più irresponsabile socialmente, in cui senza vergogna, almeno intellettuale, ripete i ragionamenti sulle superiori necessità economiche contro le quali combatté per più di un secolo, sembra sempre più spesso inutile quando non ridicolo. A volte vien voglia di tornare a quelle definizioni da biologia ottocentesca del tipo «si è rivoluzionari da giovani e conservatori da vecchi». Ecco tutto.
Meno banalmente si è tentati di definire la sinistra in modi psicologici o moralistici: è uno stato d’animo, è una misteriosa mescolanza di memorie, di geni e di caratteri nativi, una sorta di affinità elettiva. Bobbio ha cercato di ancorarla a un minimo concreto dicendo che la sostanza della sinistra, del socialismo è l’eguaglianza, non quella totale delle colonie dei gesuiti o delle utopie, ma l’eguaglianza delle possibilità, che sembra un modo un po’ gobettiano, un po’ elitario di rimandare il tutto alle intelligenze e ai caratteri individuali che della diseguaglianza sono le cause perpetue. Più modestamente o forse da quell’incerto e tiepido uomo di sinistra che sono direi che la distinzione fra sinistra e destra oggi, nel trionfo del capitalismo mondialista, può essere questa: non perdere l’attenzione per i diritti e i bisogni degli uomini in carne e ossa, non cedere alle necessità superiori della tecnica e dello sviluppo, non accettare il trionfalismo e le retoriche delle rivoluzioni scientifiche e tecnologiche, non separare le decisioni, i progetti dai prevedibili effetti che avranno. Questa proprio mi sembra la debolezza maggiore della democrazia liberista americana e della socialdemocrazia europea: questo accettare e rincorrere e incoraggiare le mutazioni nel modo di produrre e di distribuire senza chiedersi che effetti avranno sugli uomini, sulla loro vita. A volte la sinistra europea sembra compiacersi delle ragioni o non ragioni della destra, sembra scoprire con eccitazione le necessità superiori per cui essere di sinistra in simili frangenti è molto difficile, quasi impossibile. Una sinistra pronta a tutte le autocritiche che dà per scontato che il capitalismo sia un sicuro vincente, che non si accorge – come si accorgono i capitalisti – che esso sta diventando sempre più un «capitalismo difficile» che i suoi gestori non riescono più a controllare in una globalità dove uno sternuto in un paese dell’Estremo Oriente si ripercuote in tutti i continenti, dove gli avventurieri e i grandi speculatori possono combinare guai che fanno tremare le banche nazionali. Un capitalismo mondiale senza freni che, anche se può sembrare retorico, ci può condurre all’autodistruzione del pianeta. Che succederà, si chiedono gli esperti, quando la Cina sarà industrializzata e riverserà i suoi veleni, i suoi fumi nel Pacifico? Chi resisterà alla motorizzazione universale? Domande drammatiche per risposte evasive.
C’è molta pigrizia, molta arrendevolezza nella sinistra. Si direbbe che passi il tempo più a leccare le proprie ferite, a riconoscere le proprie sconfitte che a pensare alla riscossa. Che si può fare, si chiede, se il fordismo è morto e la fabbrica diffusa ha ucciso «il diamante del lavoro», la compattezza del proletariato di fabbrica? Che si può fare contro le segmentazioni specialistiche che dividono il mondo del lavoro, della ricerca, della scienza in settori non comunicanti fra di loro? E come condannare i ritorni agli sfruttamenti del passato che ora vanno sotto il nome di flessibilità se comunque essi danno lavoro? È difficile oggi essere di sinistra, le eguaglianze e uniformità consumistiche possono ingannare. Non vestiamo, mangiamo, viaggiamo tutti quasi allo stesso modo? Non ci curiamo, divertiamo, congiungiamo in modi simili? L’uguaglianza possibile non è forse stata raggiunta? E invece la diseguaglianza continua e aumenta, appare come una legge fisica inderogabile che si diffonde come per vasi comunicanti, che scopre e impone nuove forme. La casta degli informatici, dei cittadini di Internet, di quelli che si distinguono facendo seguire al loro nome quelle formule di tipo algebrico che definiscono il sito, appartiene a un nuovo mondo apparentemente di libero accesso, oltre ogni separazione e frontiera: ma a fare un po’ di conti si tratta di una minoranza che possiede mezzi di comunicazione e di conoscenza formidabili all’interno di una maggioranza che ne resta priva. In tale situazione una sinistra che abbia ancora il coraggio dell’utopia sembra perdente in partenza. Come proporre riforme radicali come quella di sopprimere l’eredità economica quando in tutti i paesi dove si è tentato il comunismo o ancora lo si costruisce si è tornati all’indietro agli antichi, fondamentali rapporti familiari? Il mondo attuale appare come un sovrapporsi per ora confuso e imprevedibile di innovazioni e di conservazioni, un vai e vieni in cui gli scopritori, gli innovatori procedono trionfanti mentre la risacca gli toglie la terra sotto i piedi, in cui uno Stalin seguace di Lenin deve nel corso della guerra tornare ai vecchi indiscutibili valori della religione patriottica, deve richiamare in servizio i pope dalle mitrie sfavillanti.
Chiedere oggi che cosa debba fare la sinistra sembra difficile se non impossibile. E forse ci sono solo risposte prudenti come: sopravvivere, resistere al regno di Behemot, il biblico simbolo dell’anarchia, del grande disordine sotto il cielo. La sinistra, specie quella europea che sembra essere andata a scuola dalla Thatcher, che accetta come modelli la flessibilità americana e il globalismo economico dovrebbe scegliere fra deregulation e regulation. E convincersi che la prima è la scelta connaturata alla destra irresponsabile, la quale non vuole ostacoli nella sua marcia alla massimizzazione dei profitti e alla cancellazione degli Stati sociali, e che la sua sopravvivenza oggi sta nel ritorno alle regole, nel ritorno a un minimo di ordine, di freno, di progetto nello scatenarsi degli «spiriti animali» del neocapitalismo che nel fallimento del comunismo vede l’autorizzazione a un’espansione continua, divorante, caotica.
Un capitalismo, un liberismo che sembrano aver perso l’idea del bene comune, delle mediazioni fra forti e deboli, fra vincenti e perdenti; ostili a ogni tipo di ordine come ad ostacoli alla loro espansione. Non a caso nemici di tutte le forme dell’ordine sociale come il fisco, la giustizia, la trasparenza, la netta divisione fra società legale e società malavitosa, la difesa dell’ambiente, la difesa della storia. Non a caso gli argomenti della deregulation più o meno camuffati battono sempre sull’avversione ai baluardi dell’ordine: le cose vanno male, ripete la destra, perché c’è troppa fiscalità, troppa invadente e arrogante giustizia, un’esagerata antieconomica difesa dell’ambiente, un conformismo storico che non tiene conto dell’altra parte, dell’altra voce. A guardarle nel concreto tutte queste richieste di deregulation sono rivendicazioni dei ricchi e dei potenti a fare quel che vogliono, quando vogliono, a continuare a farlo. Nel fisco come nella giustizia chi ha denaro e buoni avvocati finisce sempre per vincere. Per rendersene conto basta la lettura dei quotidiani. Non passa giorno senza che una giustizia addomesticabile non cancelli le accuse e le condanne dei grandi corrotti e corruttori
: riabilitati quelli che specularono indegnamente sulla sanità pubblica, sugli appalti, sui falsi in bilancio. E commenti spudorati: ha prevalso la giustizia, smentito il pool di Mani Pulite, sconfitto il partito delle manette. In questi anni la grande alleanza trasversale dei potenti, padrona di tutti o quasi i mezzi di informazione, ha lavorato di concerto, spingendo avanti ora l’uno ora l’altro dei suoi grandi calibri, pagando e premiando la diffamazione. Una sinistra debole e spesso pusilla ha pensato che l’unico modo per opporsi a questa offensiva fosse quello di secondarla, di concederle delle vie di sfogo, senza capire che la reazione conservatrice, da noi ma credo in tutto il mondo, non si accontenta mai delle mezze misure, che la sua vittoria non si traduce in mediazione ma in imposizione autoritaria. Non ha pensato che l’arrendevolezza sarebbe presto diventata un segnale del cambiar del vento, che in tutta Italia in tutti i palazzi di giustizia molti giudici avrebbero seguito il nuovo corso con una serie di sentenze «riparatrici».
In tutti i campi la deregulation conservatrice ha messo con le spalle al muro la sinistra che non ha il coraggio della chiarezza e dell’ordine. La rigenerazione dello Stato nelle province mafiose è stata elusa, insabbiata dietro gli exploit polizieschi, dietro gli arresti clamorosi e teatrali dei boss, cioè della parte minore e primitiva della mafia diffusa, della mafia che si estende a gran parte della borghesia parassitaria. Riina e Bagarella finivano nelle carceri di alta sicurezza e la borghesia mafiosa tornava nei palazzi del potere, trovava nuovi partiti nazionali pronti a coprirla, nuovi killer e diffamatori pronti a dare dell’assassino a Caselli. Bastano pochi soldi al vecchio potere per trovare gente per i bassi servizi, basta pagare la rivista di un comunista storico, assumerne i figli in una televisione, bastano le briciole rimaste sulla tavola padronale.
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