GIORGIO BOCCA: Lettera aperta (di auguri e rabbia) a Luciano Violante
Giorgio Bocca
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, da MicroMega 1/1998
Di lettere al compagno Violante ne ho già scritte parecchie sotto forma di articoli e credo che ne scriverò ancora, data la sua propensione a riproporre il trasformismo italiano. Dunque, onorevole presidente della Camera, eccomi qui a scriverLe senza alcuna speranza di cambiarLe la testa, l’intonazione della voce e il sorriso.
Insediandosi alla presidenza della Camera Lei ha proposto una revisione del fascismo di Salò, ci ha esortato a «capire quei giovani» e ora, mentre è in corso una campagna di diffamazione e di restaurazione verso la giustizia, ci dice che un’amnistia per Tangentopoli Le sembra utile e necessaria in tempi stretti, non più di due anni.
Non credo che con queste sortite Lei renda un servigio al suo partito, che prima si chiamava Pci e ora si chiama Pds. Perché sembrano confermare l’ecumenismo che arriva dalla Terza internazionale: ciò che è illecito se commesso dagli altri diventa lecito se commesso da noi. Che tradotto in politica recente dai comunisti emiliani era: «Il comunismo è il capitalismo diretto da noi».
Oggi si ritrova in una confidenza di Massimo D’Alema: «Noi saremo i democristiani del Duemila», il nuovo partito moderato e mediatore.
Che devo dirLe, sarò un azionista, un giustizialista ma questo ecumenismo mi fa cadere in depressione, mi fa pensare che non saremo mai un paese normale, che saremo sempre un paese pretesco. Lei ha detto che la Resistenza e la sua cultura sono fallite perché non sono diventate patrimonio nazionale. Ma si dimentica di dire che la cosa avvenne anche per precipuo merito del suo partito e di Palmiro Togliatti che della Terza internazionale era un alto dirigente, il giurista che Stalin apprezzava per l’abilità con cui rivestiva una dittatura spietata di orpelli umanistici e democratici. In nome della Realpolitik e dell’ecumene, la rivoluzione liberale o progressista della Resistenza – sì proprio quella che aveva espresso in ogni vecchio partito, comunista compreso, degli uomini nuovi che in qualche modo ripetevano la fioritura giacobina: comunisti, cattolici, repubblicani, liberali, socialisti che volevano cambiare il vecchio Stato e portarvi la comune speranza democratica della Resistenza, la comune voglia di giustizia e libertà – venne bloccata, congelata dall’alto, con la svolta di Salerno, l’articolo 7, l’amnistia ai fascisti di Salò. Il tutto lodato, magnificato come saggezza e lungimiranza politica.
Il risultato mi pare sia stato l’anomalia italiana, la sua democrazia imperfetta, zoppa, la sua diversità dalle altre democrazie europee, la lunga serie di mediazioni e di compromessi che oggi puntualmente si ripropongono. Quel grande marxista che era Palmiro Togliatti era convinto, come Lei onorevole Violante, che la giustizia reazionaria, i fascisti, i clericali, una volta toccati dalla benevolenza e dal perdono del suo partito, sarebbero diventati elettori grati e fedeli. E invece quelli capirono benissimo dove quell’ecumene andava a parare, e la magistratura reazionaria cercò perfino di invalidare il referendum contro la monarchia, assolse tutti i fascisti che le capitavano, benedì l’amnistia e poi decapitò il movimento contadino come al tempo de «la boje» o dei moti siciliani. Insomma, ricominciò a fare il suo mestiere, a praticare la sua «normalizzazione», come si vorrebbe rifacesse ora, con l’avallo degli ecumenisti.
Il revisionismo filofascista, che sta spuntando da mille fontanili, sta diffondendo l’immagine di una Resistenza feroce e vendicativa, la resistenza di Porzus e del «triangolo rosso», apparentata alle foibe e ai gulag. La verità è che non si conosce nella storia una rivoluzione o una guerra civile con dei vincitori così ragionevoli, così responsabili o così ingenui da accettare che ritornassero subito nella circolazione politica i torturatori, i seviziatori, i fucilatori al servizio dei nazisti, per ricostituire un partito neofascista che è durato fino a due o tre anni fa, fino a che a Fiuggi lo hanno fatto fregolianamente scomparire. Oggi si dice che l’indulto ai brigatisti non sarebbe accettato perché offensivo per i parenti delle vittime, che si contano in un centinaio. Allora non ci si preoccupò dei parenti delle vittime che si contavano a decine di migliaia.
Ma l’aspetto, onorevole Violante, che più mi ha dato fastidio nella sua apertura ai neofascisti nostrani è stato il suo appello, che più ipocrita non si può, a «capire i ragazzi di Salò». Un appello che in pratica annulla il giudizio della storia, tutti parificando.
Cercar di capire? Ma sono cinquant’anni che noi non ecumenisti cerchiamo di farlo, percorrendo tutte le ramificazioni della psicologia umana: quelli che andarono a Salò perché ignoravano la storia, compresa quella del fascismo, quelli che per l’onore, per il mussolinismo, perché orfani di fascisti, per un ritorno al diciannovismo, per il Duce tradito, anche quelli che erano più nazisti che fascisti. Ma cercar di capire i moventi e le pulsioni personali o di gruppo non significa cancellare, stravolgere quella che fu la storia di Salò in quei venti mesi, la storia di uno Stato fantoccio, tenuto in piedi dagli occupanti nazisti, e subìto per sopravvivere o alimentato dalla speranza che i tedeschi vincessero, che cioè si attuasse il mondo della rigenerazione razziale, dei popoli eletti pronti a praticare una nuova schiavitù mondiale.
Anche noi della montagna eravamo giovani e ignoranti e mossi dai più svariati motivi personali e dalle casualità, ma una cosa ci era molto chiara: se vincevano i nazisti finivamo impiccati o in fuga verso remoti rifugi. Non ci venga a dire, onorevole Violante, che i «ragazzi di Salò» queste cose non le sapevano. Le sapevano così bene che ancora oggi il presidente della loro associazione rifiuta di accettare la svolta di Fiuggi.
E veniamo alla seconda sortita: la proposta di amnistia. Il procuratore capo Borrelli in un’intervista ha definito Lei, presidente Violante, un ecumenico, e si è capito a che cosa alludeva: alla sua lunga metodica marcia verso la presidenza della Repubblica, che parte dall’idea togliattiana e ora dalemiana che «senza i voti dei moderati o della destra la sinistra non arriva al governo». Idea che richiama i teoremi trasformisti e opportunisti già detti, come «il comunismo è il capitalismo diretto da noi» e ora «la democrazia è il grande inciucio sotto la nostra supervisione».
A noi pare vero esattamente il contrario. La proposta di amnistia, mentre si discuteva sull’arresto di Previti, sul processo ad Andreotti, sulla corruzione della giustizia ancora in atto da parte dei sopravvissuti alla partitocrazia, ripete la svolta dell’immediato dopoguerra, è un altro blocco, un altro stop alla ripresa di rivoluzione democratica tentata dalla magistratura.
Quando scrissi che Mani Pulite ripeteva in qualche modo la rivoluzione democratica della Resistenza, il compagno D’Alema e il compagnissimo Salvi ne furono sdegnati come per un sacrilegio. Ma mi pare che le cose stiano esattamente così: ancora una volta la minoranza laica, democratica, progressista ha cercato di approfittare di una crisi del vecchio Stato – allora la sconfitta militare, oggi la bancarotta partitocratica – per fare quello che in Inghilterra e in Francia venne fatto dalle rivoluzioni borghesi: praticare una giustizia, una legge eguale per tutti, uscire finalmente fuori dalla giustizia a due piani, implacabile con gli umili, discrezionale per i potenti.
Che il tentativo comportasse e comporti i suoi rischi era evidente. Non occorre essere un collaboratore stretto del supersegretario D’Alema, con accesso al bunker di via Botteghe oscure, dove si ritrova il fior fiore del machiavellismo contemporaneo, per sapere che anche oggi «una legge eguale per tutti» non è interamente compatibile con un capitalismo che non disdegna i buoni affari malavitosi, che ha scelto la globalizzazione per ritrovare completa libertà di manovra; non è neppure una scoperta trascendentale quella del rapporto di forze, un rapporto di uno a uno, per cui la riforma dello Stato può essere fatta solo dall’«inciucio» generale.
Ma c’è chi come noi, oggi come nell’immediato dopoguerra, resta convinto che dalle grandi mediazioni non esca nulla di sostanzialmente nuovo, si ripetano sempre i compromessi paralizzanti del conformismo italico, la ricerca sistematica della via indolore, che va bene per tutti.
Noi siamo preoccupati, onorevole presidente, perché non crediamo che le sue uscite siano estemporanee, e frutto di un’ambizione personale alla quale il suo partito è costretto a lasciar libero corso. Noi temiamo che le sue sortite avvengano con il consenso del suo partito, o almeno del gruppo dirigente che aspira a farne «i democristiani del Duemila».
La nostra ambizione con la nascita dell’Ulivo era diversa: di ricostituire in qualche modo una sinistra resistenziale, superiore ai partiti, più attenta al bene comune che alla distribuzione dei cadreghini. E ci è parso, ci pare che il successo del governo dell’Ulivo abbia risposto a questa speranza di una riforma sostanziale, a cominciare dall’antica e mancata attuazione di una legge eguale per tutti. Ma la proposta di amnistia per Tangentopoli, anche se non avrà seguito, è un blocco, un siluro, una smentita di questa speranza. È, piaccia o meno, un’offerta indecente: fidatevi di noi, confermateci al potere, che sapremo noi difendervi, proteggervi, perché secondo il vecchio ecumene la vera democrazia rinnovata è quella diretta da noi. La proposta non è solo impudente, onorevole Violante, ma anche autolesionista.
Se Lei ha fatto le sue sortite per diventare presidente della Repubblica temo che abbia sbagliato. Lei mi ricorda quegli aspiranti alla direzione dei grandi giornali che esageravano nel corteggiamento dei padroni, non perdevano occasione per schierarsi in difesa dei loro interessi, cercavano di frequentare le loro case, i loro luoghi di vacanza e quasi tutti poi venivano «trombati», perché i padroni i direttori se li sceglievano poi a loro intuito.
Penso, e mi corregga se sbaglio, che il suo progetto si basi sulla mancanza fra i moderati, nella destra, di candidati accettabili. E allora, se di sinistra deve essere, che sia uno che può promettere alla destra vita comoda e quell’impunità che è fra i suoi massimi desideri. Come presidente super partes della Camera Lei pensa di poter essere quell’uomo. Noi speriamo vivamente che si sbagli.
(27 agosto 2020)
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