GIORGIO BOCCA: Milan, Texas

Giorgio Bocca


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La parabola della Milano che conta, dai ‘salotti buoni’ dei grandi industriali al trionfo del terziario e della civiltà dell’immagine. L’orgoglio delle umili comparse del berlusconismo e il declino della cultura fanno della metropoli lombarda un pezzo d’America.
, da MicroMega 5/91

La Milano in cui arrivai nel 1954 era ancora la Milano del capitalismo italiano nazionalista e oligopolista formatosi con la rivoluzione industriale del principio del secolo, la città dei Pirelli, dei Crespi, dei Feltrinelli, della Edison, della Montecatini e delle banche che li avevano finanziati, in testa la Banca commerciale italiana di Mattioli. Dietro questo capitalismo non c’era il vuoto, c’era la pianura padana, la più ricca regione d’Italia e d’Europa, c’erano reti industriali e commerciali già fiorenti alla metà dell’Ottocento, ma la sua grande fortuna stava nello stretto rapporto con il governo nazionalista, con le sue protezioni, con le sue guerre coloniali ed europee.

La prima guerra mondiale, in particolare, era stata la grande stagione della sua crescita e dei suoi profitti giganteschi. Era la prima guerra di massa, bisognava vestire, armare, trasportare, alimentare, curare milioni di uomini in arme. D’improvviso la produzione dei tessili, degli elettrici, dei chimici, dei metalmeccanici si impennò senza controlli da parte del cliente-Stato. I monumenti di questo grande periodo della industria milanese e lombarda sono ancora oggi visibili. Casa Crespi, dei cotonieri Crespi, in corso Venezia non è la casa di una famiglia ricca, è una reggia con scaloni e sale di ricevimento, raccolta di ceramiche, argenti, quadri che poteva permettersi solo una famiglia dai cespiti regali.

Il rapporto oligopolistico-nazionalistico continuò per tutto il ventennio fascista e anche nella repubblica di Salò. Solo quando le sorti della guerra apparvero decise questo capitalismo governativo si risolse a ritirare i suoi uomini dalla collaborazione governativa, come «l’infido Pirelli», e ad affidare a Franco Marinotti, l’amministratore della Snia, il compito di trovare una convivenza temporanea con un fascismo tornato alle velleità socialiste delle origini. La politica di Marinotti e della grande industria padana che gli stava alle spalle è ben riassunta nella relazione che il ministro della Cultura popolare Mezzasoma fa al Mussolini di Salò che ha appena varato il decreto diciannovista della socializzazione: «Mi ha detto Marinotti: anche io sono per la socializzazione e per la sua pronta attuazione. Ritengo anzi che bisogna accelerare i tempi estendendola rapidamente a tutte le aziende industriali perché non può esservi dubbio che la guerra in corso porterà a un generale slittamento verso sinistra. I capitalisti intelligenti dovranno capire che di fronte al pericolo bolscevico la nazionalizzazione non rappresenta solo il pericolo minore ma una logica e fattiva risoluzione della questione sociale».

Insomma, come il comunismo emiliano avrebbe proposto nel dopoguerra la sua soluzione sociale, «il comunismo è il capitalismo diretto da noi», così gli industriali lombardi e padani guidati da Marinotti proponevano «la socializzazione è lo statalismo industriale diretto da noi». Gli fa eco da Torino quella volpe di Vittorio Valletta che vede «nel programma sociale del fascismo non solo la salvaguardia per una ordinata convivenza ma anche la possibilità di affermare la personalità e l’iniziativa dell’individuo». A Milano come a Torino la direttiva industriale è unica: dire sì alla socializzazione, lodarla, ma renderla impossibile anche con l’aiuto dell’ufficio tedesco per i rapporti industriali in cui il grande capitalismo germanico ha piazzato i suoi uomini.

Ma c’è qualcosa di sincero, di duraturo nella convivenza fra grande industria nordista e fascismo al tramonto , ed è la simbiosi che dalla fondazione dell’Italia unita si è formata fra grande industria e Stato, il ruolo sostanzialmente subalterno dello Stato rispetto al grande capitale, per cui è lo Stato che deve funzionare da cliente pochissimo esigente, da curatore delle industrie private fallimentari, da finanziatore delle imprese redditive. Certamente questa grande industria non ostacola anzi favorisce la decisione del fascismo morente di rendere più forte, più stabile la funzione subalterna dello Stato rafforzando l’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale che è il grande convalescenziario del nostro sistema industriale, e l’Imi, la banca statale per il finanziamento industriale. Con questa storia alle spalle la grande borghesia capitalistica di Milano passa senza danno alcuno alla democrazia e alla repubblica affidando la transizione indolore a uomini come Merzagora e Falk che hanno posizioni preminenti nella Resistenza. La fine di uno Stato militare, espansionistico, nazionalistico, cliente poderoso e benevolo, pone la grande industria milanese e lombarda nella necessità di ridisegnare la sua strategia; e la sua scelta cade su un conservatorismo pessimista all’ombra del grande capitalismo americano. Mentre a Torino la Fiat di Valletta e a Ivrea la Olivetti di Adriano Olivetti si orientano da subito verso un mercato di massa e verso la produzione di prodotti di massa, il capitalismo milanese degli elettrici, dei chimici, dei tessili mira alla conservazione dello status quo sostituendo allo Stato nazionalistico e militaristico defunto l’ alleanza con gli Stati Uniti, da cui con il piano Marshall otterrà il rifinanziamento delle sue industrie, sia di quelle distrutte dalla guerra sia di quelle obsolete. Gli strumenti di questa politica conservatrice sono: il controllo totale della finanza, cioè delle banche e della Borsa; della stampa, con il Corriere della Sera che diventa l’ organo indiscutibile del moderatismo italiano, e l’appoggio di un governo che affida ai liberali la ricostruzione del paese, la quale avviene in tempi e modi ammirevoli ma salvaguardando i grandi interessi: non si cambia la moneta, non si ha dunque il mezzo per imporre una tassazione dei profitti di guerra, non si affronta il tema urbanistico e della speculazione sui suoli, si lascia a dirigere le grandi banche la massoneria tecnocratica legata a filo doppio alle grandi imprese, si lascia ai potentati economici di fare il bello e il cattivo tempo nel mercato di capitali.

Questa borghesia capitalistica è così sicura del fatto suo, così certa del controllo della Milano policentrica che si mostra assai più liberale che non la Torino monarchica attorno alla Fiat. Dopo un anno o due di dura restaurazione essa permette agli ex partigiani, agli antifascisti, ai giova­ ni di belle e progressiste speranze arrivati dalla provincia di entrare nei giornali, nei teatri, nelle orchestre, nelle scuole, nelle professioni umanistiche a patto che non eccedano nelle loro proposte di innovazioni sociali e che accettino la convivenza delle tre anime della città: la testa capitalistica di Piazza degli Affari e dei grandi palazzi delle banche e delle assicurazioni, con il loro immane peso di colonne granitiche; il cuore socialdemocratico del municipio, dei suoi sindaci amici dei Martinitt e della Umanitaria; e la cultura radicale o giansenista che resta viva nelle grandi famiglie eredi dei Beccaria, del Verri, del Manzoni.

I giovani di belle speranze e di idee progressiste venivano persino ricevuti nelle case di quell’ Olimpo capitalistico, servivano a tenere i rapporti con tutto il mondo variopinto che andava fiorendo attorno ai castelli e ai ponti levatoi sollevati del grande capitale. Potevano gustare tartine e champagne, corteggiare mogli e figlie ma non fare domande. I punti di riferimento di questi giovani fortunati ma educati erano gli articoli che Ernesto Rossi andava pubblicando sul Mondo di Pannunzio; da essi potevano sapere che il cavalier Bruno della Centrale aveva appena fatto un aumento di capitale per cui lui e pochi altri avevano potuto acquistare a tremila lire le azioni che in Borsa erano quotate a quattromila; oppure venivano informati sulle mosse
del potentissimo ingegner Valerio della Edison di cui in Borsa si diceva «non ha ancora alzato il telefono e sappiamo già quello che vuole». Di lui Ernesto Rossi aveva scritto: «Nelle cinquantadue pagine della sua relazione alla assemblea degli azionisti non c’è una sola notizia sui conti della società. Pagine e pagine sull’ andamento idrologico, sulla politica estera, sui provvedimenti legislativi, sulla geologia dei bacini montani ma non una sola riga su come lui e pochi altri hanno deciso di ripartire gli utili e le riserve».

Il rapporto di questo capitalismo con la politica e con l’informazione era preminente, egemonico ma non pervasivo. I suoi esponenti erano decisa­ mente, fortemente governativi ma non mandavano loro uomini nella direzione della Democrazia cristiana, non partecipavano in modo visibile alle elezioni, non facevano affari con i partiti. La gestione economica affidata ai liberali li sottraeva a combinazioni e condizionamenti diretti con i partiti. E, forse bruciati dalla esperienza fascista o in parte continuando un distacco già visibile durante il fascismo, tenevano gli uomini politici lontani dalla loro vita sociale e familiare, se la facevano poco con ministri e deputati. Così con la stampa e la radio: davano la linea anticomunista e filogovernativa selezionando una serie di direttori e di giornalisti che potevano vantare di «non aver mai ricevuto alcun ordine dai padroni» per il semplice fatto che li anticipavano. E la regola era stata subito resa ben chiara con il licenziamento dalla direzione del Corriere della Sera dell’antifascista Borsa, troppo indipendente, cui era seguita con Emmanuel la lunga serie dei direttori ossequienti.

Certo nell’interno dei giornali, nelle redazioni i potenti non si facevano mai vedere: solo ad alcune grandi firme del Corriere era concesso, due volte l’anno, di essere ricevuti in casa Crespi o nella villa Il Biffo, dalle parti di Merate, o nel palazzo di corso Venezia. I giornalisti si accorge­ vano, ma in modo episodico, che il patto di sudditanza era inviolabile solo quando uno di essi, inconsapevole, citava in una cronaca nera o scandalistica qualche amico o parente di Crespi e allora la punizione era dura, inappellabile e irragionevole come si addice ai grandi poteri che non sono disposti a discutere di giustizia con i loro dipendenti. Le riunioni del consiglio di amministrazione delle grandi imprese stavano fra la cerimonia e la burletta. Seduti al tavolo della presidenza gli stessi che si trovavano in tutte le assemblee del grande capitale, Valerio, Pesenti, Falk, Bruno, Agnelli, tutti con facce lunghe e pallide, come in un coro di vescovi medioevali. Gli azionisti erano i grandi assenti, nella sala c’erano solo i plauditores, quelli che si alzavano per dire «sotto la guida del nostro geniale presidente…». Più qualche specialista, i quattro o cinque ricattatori di alto bordo, espertissimi di finanza, che andavano alla tribuna per far capire con allusioni sottili che conoscevano i punti deboli della relazione presidenziale, e allora la cerimonia veniva sospesa perché durante la pausa lo specialista fosse messo a tacere con un pacchetto di banconote.

Sotto la ricchezza di serie A legata all’industria veniva tollerata la ric­ chezza più scoperta, meno racée, dei ricchi del terziario, gli editori Rizzoli e Mondadori, il petroliere Moratti, i commercianti Carraro, i finanzieri d’assalto Virgillito e Brusadelli. Costoro, non accettati nel «salotto buono» del capitalismo, che dal consiglio della Bastogi si era trasferito in Mediobanca, potevano consolarsi con i circenses, con le presidenze del Milan o dell’Inter e con il cinematografo. Il vero, per non dire unico avversario del «salotto buono» era Enrico Mattei, un uomo secco, virile, nazionalista e populista, onesto e corruttore, uno che usava la politica per farsi largo, ma anche per fare e per fare bene nella vita pubblica.

Mattei era figlio di un carabiniere ed era arrivato a Milano dalla provincia marchigiana, da Matelica. La guerra partigiana gli aveva dato l’occasione per diventare un uomo di punta della Democrazia cristiana e per fare amicizia con i Falk e con Vanoni. Così nel’ 45, grazie a Vanoni e a De Gasperi, aveva salvato dalla liquidazione l’Eni, che il «salotto buono» avrebbe voluto sacrificare in ossequio alla politica di comoda subalternità agli americani, nel caso alle sette sorelle del petrolio. Su questa linea sia i grandi ricchi milanesi sia i liberali al governo come Soleri o il governatore della Banca d’Italia Einaudi erano perfettamente d’accordo: non ricominciamo con le avventure nazionalistiche, stiamo zitti e buoni dentro le nicchie che il capitalismo americano ci concede.

Alla resa dei conti si arrivò a cavallo degli anni Sessanta. Intanto il fronte padronale si era spezzato, al gruppo dei grandi conservatori composto dagli elettrici, dai chimici, dai siderurgici si era man mano contrapposto il gruppo che puntava sullo sviluppo dell’auto, della gomma, del petrolio e anche delle autostrade che interessavano il cementiere Pesenti. Mattei era il campione spavaldo del gruppo innovatore, l’uomo che poteva competere con i conservatori anche nella capacità corruttrice, che aveva abbastanza soldi per crearsi in parlamento una lobby potente. Lo scontro ebbe punte furibonde, la stampa padronale sottopose Mattei e l’Eni a una valanga di diffamazioni e di accuse che Mattei raccolse e stampò in sei volumi.

E intanto arrivava il centro-sinistra, l’ Antonio Giolitti ministro del Teso­ ro veniva accolto a fischi e a urli dai conservatori milanesi come se fosse il più pericoloso dei sovversivi; e Il Giorno, fondato da Gaetano Baldacci ma subito rilevato da Italo Pietra, entrava nella mischia, funzionava da deterrent, per ogni accusa a Mattei ne restituiva moltiplicate ai signori del «salotto buono». Ma come sempre accade nel mondo capitalistico, prima o poi i padroni del vapore trovano il modo per mettersi d’accordo su nuove ripartizioni della tavola economica. Morto Mattei in un incidente aereo da alcuni attribuito a terroristi dell’Oas, gli estremisti dell’Algeria francese, da altri ai petrolieri del Texas, arrivato alla presidenza dell’Eni Eugenio Cefis, Il Giorno rinfoderava le sue armi, i signori del «salotto buono» si occupavano, male purtroppo, di reinvestire i fiumi di denaro ottenuti con la nazionalizzazione dell’industria elettrica. Intanto si erano affacciati alla ribalta milanese i «giovani leoni del neocapitalismo», i Bassetti, gli Olcese, gli Zucchi che con Carlo Ripa di Meana davano vita al club Turati per l’incontro della imprenditoria emergente con gli economisti e i sociologi socialisti.

In Italia ci sono grandi città che possono mutare esteriormente ma che restano eguali nelle loro strutture portanti: Roma può espandersi a macchia d’olio ma resta la città del Vaticano e del governo, Genova può assistere al declino del porto ma resta sostanzialmente la città delle partecipazioni statali, con il vescovo principe che riunisce la grande borghesia attorno ai feudi statali dell’Ansaldo, dell’Italsider, dell’ltalimpianti; Torino da oltre mezzo secolo è Fiat e tutto ruota attorno alla grande azienda; Venezia è lenta, continua e foraggiata decadenza. Milano è l’unica grande città italiana che come le città americane cambia nel giro di un decennio.

La Milano del «salotto buono» era a suo modo omogenea e ottimista: i grandi potentati industriali, le grandi famiglie godevano di enormi privilegi oligopolistici, di enormi rendite di posizione, ma potendo disporre di una borghesia delle professioni e della piccola e media industria di livello euro peo gestivano le aziende in modo dignitoso, le centrali elettri
che della Edison funzionavano a dovere, alla Montecatini si faceva dignitosa ricerca, i tessili tenevano testa alla concorrenza europea. Sicura di sé, questa alta ricchezza aveva lasciato fiorire la Milano delle professioni tecniche e liberali che si era spontaneamente costituita in un suo Olimpo, il Tout Milan che si dava convegno alla premiazione per il «compasso d’ oro». E il duello fra il «salotto buono» e l’Eni di Mattei (dietro cui c’erano poi il sindacato e la sinistra socialista) aveva allargato la selezione dei talenti, creato nuovi giornali, nuovi centri di cultura.

Ma a metà degli anni Sessanta, con il nuovo patto fra gli sconfitti, fra un «salotto buono» che ha perso la sua egemonia e gli innovatori che devono vedersela con la concorrenza europea e mondiale ora che le barriere protezionistiche si vanno man mano smantellando, la città ha come un ripiegamento su se stessa, in fila una serie di anni grigi in cui si succedono le abdicazioni anche simboliche del vecchio potere (i Pirelli che devono cedere il loro grattacielo in piazza della Repubblica, la Montedison, nata dalla fusione fra la Edison e la Montecatini, che inizia il suo lungo periodo di decadenza, la deindustrializzazione di mitiche cittadelle operaie come Sesto San Giovanni) e deve sopportare la lunga faticosa digestione della grande immigrazione dal Meridione. Sono gli anni di una Milano grigia, dove la gente non ha più il coraggio di uscire la sera, dove i ristoranti si dotano di porte blindate, dove si diffonde anche a livelli popolari la ossessione del fine-settimana inteso non come svago in località più salubri ma come fuga dal grigiore e dalla paura. E non è un caso che Milano, questa Milano, sia la città più ferita, più tormentata dalle convulsioni sociali che a partire dal Sessantotto continueranno per tutti gli anni di piombo e che avranno in Giangiacomo Feltrinelli, della grande famiglia che ha costruito mezza Milano, il simbolo di un establishment lacerato.

La Milano attuale, la Milano del terziario si forma pian piano in questi anni convulsi; e mentre le altre grandi città, Roma, Torino, Genova, Venezia, Napoli continuano a coltivare le loro monoculture e i loro irresolubili problemi, Milano riprende quota, torna ad essere l’unica città europea, non tanto a livello culturale, urbanistico, artistico, ma come città di affari, città di ricchezza, città in cui ci sono colonie internazionali consistenti e operanti, circa cinquantamila stranie ri, in massima parte europei, che stanno a Milan o non per turismo o per svago ma per lavorare, per fare soldi. Questa nuova Milano è il risultato di una sconfitta definitiva, la sconfitta del grande padronato industriale, e di una forte, violenta crescita del terziario, della televisione, della pubblicità e della moda.

La sconfitta del grande padronato industriale è quasi ignominiosa per i milanesi: gli odiati torinesi diventano i padroni delle roccaforti industriali. La Fiat alza il suo vessillo sull’Alfa Romeo e sulla Bianchi, è la padrona della Rinascente, in piazza del Duomo, fa bottino anche negli alimentari. Milano riesce a fare blocco in un rifiuto formale dei nuovi padroni: le cerimonie Fiat un po’ impacciate, le apparizioni degli Agnelli e di Romiti vengono snobbate, ciò che resta del Tout Milan non si conce­ de, ma una cosa è certa, il «salotto buono» milanese è morto, la Giulia Maria Crespi coltiva il riso integrale alla Zelata, i Falk se la cavano per il rotto della cuffia con i sussidi europei, la Pirelli non ce la fa a reggere il confronto della Michelin o della Goodyear.

Sale e si espande il terziario, Silvio Berlusconi crea dal nulla una industria della televisione che nel giro di pochi anni dà lavoro a decine di migliaia di persone e che funziona da moltiplicatore della industria pubblicitaria con tutto ciò che ne segue in sponsorizzazioni, promozioni. Televisione, pubblicità e moda sostituiscono tessili, gomma, metalmeccanici e non solo per ragioni economiche ma per rispondere a una esigenza sociale, ai nuovi desideri del pubblico. Nel tramonto di Dio e delle grandi ideologie è l’immagine che domina l’attesa sociale, è nella immagine che uomini che non credono più nell’aldilà e nelle grandi utopie sociali cercano consolazioni e illusioni.

La moda in questo è esplicita: essa non produce vestiti per gli usi normali degli uomini, per coprirsi, per darsi uno status-symbol, per seguire le stagioni. No, essa produce immagine, griffe, abiti che non servono per gli usi comuni ma per far partecipare la gente comune al mondo immaginario delle donne che possono arrivare a una festa con i seni allo scoperto, spacchi vertiginosi, schiene nude, insomma l’immaginazione, madre dell’immagine. Chi viaggia nei tram o nella metropolitana di questa Milano terziarizzata ha l’impressione di vivere in una città platonica sulle cui pareti, nelle cui vetrine campeggiano i modelli platonici di bellezza, eleganza, seduzione sotto i quali sfila, convinta di essere simile, una umanità grigia e brutta. Fra i due mondi non vi è nessuna corrispondenza reale, il mondo della immagine non è un modello di possibile imitazione, nessun essere umano reale può pensare di diventare un personaggio di Beautiful o di vestire come le indossatrici di Armani o di Versace; ma si abitua ad immaginarli, si abitua a pensarli come un popolo di alieni che dominano la teppa, che non si possono copiare ma a cui bisogna obbedire. Nasce in questa Milano terziarizzata anche una nuova forma di compenso, di salario. Nel mondo della televisione, della moda, della pubblicità un numero crescente di persone viene pagato non solo con il denaro ma con la partecipazione, con l’illusione (credibile) di far parte degli eletti, dei divi. Dico illusione credibile, funzionante perché è lo stesso meccanismo che ha tenuto in piedi per secoli le corti, i loro spettacoli, i loro cerimoniali.

Chi vuole farsi una idea di questo salario della partecipazione vada a un gala della Fininvest del tipo «un autunno tutto d’oro». Lo ricevono guardie in divisa azzurra, a metà fra il poliziotto e l’aviatore, che si sentono dentro lo spettacolo, ti danno un passi da appendere al bavero, ti indicano il settore dove troverai posto o il camerino dove ti truccheranno. Ti accompagnano fanciulle in gonnelline cortissime, calze di rete, penne di struzzo sul sedere che si sentono felici di passare fra la nota soubrette, il noto cantante; il finto pubblico è composto da pubblicitari che sono lì per fare da claque a uno spettacolo che si tradurrà in introiti pubblicitari di cui gli spetteranno le briciole ma di cui parlano come se fossero loro, come se il giro vorticoso dei miliardi fosse un giro loro. Negli studios, nelle redazioni ci sono migliaia di persone pagate come un usciere, come un impiegato del registro, ma vesti te secondo l’immagine degli stilisti, secondo le mode degli yuppies, tutti partecipi a poco prezzo della gran macchina che produce sogni e immagini.

In questa Milano terziaria la società di classe ha ceduto il campo alla società dell’immagine, il cui teorico è senza dubbio Silvio Berlusconi. Andai otto anni fa a fargli una intervista, quando stava facendo crescere le sue televisioni. Mi disse subito: «Noi ci siamo visti due anni fa. Lei venne da me e mi trattò come un avventuriero, come quelli che fanno il gioco delle tre carte. No, mi lasci dire, il tono del suo articolo era apparentemente cortese, ma si capiva come la pensava: questo è uno dei tanti magliari che circolano nel nostro paese. Letto il suo articolo io mi dissi: ecco, uno può lavorare per venti anni, fare delle citt&
agrave; satelliti, guadagnarsi la fiducia dei banchieri ma se non ha una immagine è nessuno. Così io ho deciso di darmi una immagine».

Ecco, nella Milano del terziario appaiono, si vedono, si mostrano solo quelli che hanno una immagine, anche nell’orrido, anche nel losco. Ma se l’immagine fa affari, se l’immagine produce denaro ci si buttano dentro tutti, anche i grandi imprenditori, anche i politici. Donde la grande mutazione della informazione in cui i nuovi ricchi, i nuovi padroni sono entrati pesantemente perché l’immagine che gliene deriva può permetter loro grandi manovre finanziarie e affaristiche. E i politici hanno capito che, per via della immagine, devono essere presenti: ed ecco il grande flirt degli stilisti e dei televisivi con i socialisti.

E meglio o peggio la Milano del terziario spettacolare rispetto alla Mila­ no del «salotto buono»? Difficile dirlo! Per moltitudini di umili che nel terziario partecipano, si illudono, sognano questa Milano è certamente migliore. Lo è anche per quelli delle grigie periferie che nelle sue vetrine, nelle sue immagini ritrovano un centro di interesse, curiosità, identificazione, ragione per cui il centro di Milano con le sue boutique è tornato ad essere ogni sabato e domenica il luogo delle grandi invasioni, delle grandi visite degli umili. Non è molto, ma è qualcosa in cui si riconoscono. Quanto allo spessore culturale, siamo decisamente al peggio. L’editoria si è degradata ai libri-oggetto, ai libri-immagine, i giornali fiancheggiano la televisione, i club culturali sono scomparsi. Sì, Milano è davvero la città più americana d’Italia.
(27 agosto 2020)





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