Giornalisti senza ordine

MicroMega

Sono un «tesserato» dell’Ordine dei giornalisti dal 1982, anno in cui passai un esame di abilitazione privo di qualsiasi rapporto con le conoscenze necessarie per svolgere la mia professione. Nei 24 anni trascorsi da quando ho iniziato a fare questo mestiere – e anche molto prima che lo facessi io – più volte nel mio paese è stata offesa la libertà di stampa, la qualità e l’affidabilità dell’informazione. Le minacce più serie sono venute dall’intreccio tra politica, affari e mass media; dai conflitti d’interessi; dal duopolio o monopolio televisivo; e insieme dal servilismo, dalle collusioni e complicità che periodicamente si manifestano tra giornalisti e politici, tra giornalisti e potentati economici, o semplicemente tra i giornalisti e le loro fonti quando le notizie diventano merce di scambio per favori reciproci, al servizio di agende occulte e inconfessabili. È un male antico la sottomissione di una parte del giornalismo italiano a logiche di potere, di partito, di mafie, di cordate. Il ruolo dei mass media per far crescere una società civile informata e consapevole dei suoi diritti, decade ogni volta che i giornalisti servono interessi «altri» da quelli del loro pubblico. In nessuna occasione ho visto l’Ordine contrastare questi pericoli, mettersi di traverso alle trame e alle «cupole», svolgere un compito libertario, moralizzatore o di semplice disciplina deontologica. Non ricordo che l’Ordine si sia distinto per la sua efficacia nel difendere giornali aggrediti e intimiditi dal potere politico, o scalati da cordate finanziarie che volevano usarli come strumenti di pressione. Non mi risulta che l’Ordine abbia scatenato campagne coraggiose contro la lottizzazione della Rai, o contro l’ascesa del monopolio di Berlusconi nella tv commerciale. Sforzando la mia memoria non riesco a trovare un solo episodio di «mala-informazione» – notizie false, palesemente partigiane, comprate e vendute – che sia stato rivelato e punito con severità dall’Ordine.
Una parte della mia attività lavorativa si è svolta negli Stati Uniti, dove ho avuto anche l’opportunità di insegnare al master di giornalismo dell’università di Berkeley in California. Negli Stati Uniti non esiste un Ordine dei giornalisti. L’accesso dei giovani a questo mestiere risponde a normali logiche professionali: un mercato del lavoro esigente e competitivo seleziona su basi meritocratiche, premia i più bravi. Le università fanno a gara per fornire corsi di formazione di alto livello anche in questo campo. I mass media americani reclutano più facilmente i giovani, e la qualità del prodotto ci guadagna. La tradizionale indipendenza dei giornalisti americani ha le sue origini in un forte senso del prestigio di questo mestiere, della sua autorevolezza, della sua funzione di guardiano verso i «poteri costituiti» in una società democratica. L’aggressività dispiegata normalmente dai cronisti americani in una conferenza stampa – davanti al presidente degli Stati Uniti o al presidente della Microsoft – è una merce assai rara in Italia dove il potente di turno viene trattato con un riguardo che a volte sfiora l’ossequio. Anche il giornalismo americano ha i suoi alti e i suoi bassi. Da questo punto di vista gli ultimi anni non sono stati il periodo più felice negli Stati Uniti. In particolare dall’11 settembre 2001 in poi, è accaduto che un male inteso patriottismo, una interpretazione miope dell’interesse nazionale, abbiano spinto alcuni ad abbassare la guardia verso il governo, a non esercitare vigilanza e spirito critico verso le verità ufficiali. Questi sono problemi dibattuti apertamente tra i nostri colleghi americani, soprattutto dopo l’esito disastroso della guerra in Iraq, ma non sono problemi che sarebbero risolti dall’esistenza di un Ordine, di cui nessuno sente la mancanza o invoca l’introduzione.
L’unica funzione reale dell’Ordine dei giornalisti in Italia è quella di creare una ulteriore barriera artificiosa all’ingresso nella nostra professione. Si separa chi ha il privilegio di star dentro da chi sta fuori, gli insider dagli outsider. Questa barriera è costruita attraverso un esame di accesso e altri requisiti che non misurano la competenza o la professionalità, né esercitano un qualsivoglia filtro di controllo sull’etica, la correttezza, l’indipendenza di giudizio. L’ostacolo al libero esercizio della professione crea una rigidità ulteriore sul mercato, che si aggiunge ad altre rigidità già diffuse in Italia nei rapporti di lavoro. Per i giovani italiani è più difficile diventare giornalisti. Questo provoca dei danni collaterali di cui non soffrono solo i giovani ma l’intero sistema dell’informazione. La difficoltà di accesso accentua l’invecchiamento generazionale del nostro settore: di qui una lentezza nello sfruttare le potenzialità delle nuove tecnologie, nello sviluppare i nuovi media, nell’usare i nuovi linguaggi e nell’esplorare i nuovi interessi del pubblico. Ciò contribuisce a sua volta al declino della penetrazione dei mass media tra i giovani come pubblico. Le redazioni dominate da cinquantenni e sessantenni non sono necessariamente le più adatte per parlare alle generazioni dei loro figli o nipoti. Si evoca spesso, come se fosse ineluttabile, un «declino demografico» dei giornali, senza analizzare se questa perdita di lettori non sia dovuta almeno in parte alla composizione demografica di chi i giornali li fa.
Gli ostacoli al libero mercato sono quasi sempre dannosi, impongono costi alla collettività che non sono soltanto economici. Le barriere alla competizione sono certamente deleterie in Italia dove il mercato e la concorrenza sono concetti molto più discussi che sperimentati. Dalle banche alle assicurazioni, dai trasporti all’energia, dai servizi municipali ai notai e ai farmacisti, non c’è un solo caso in cui l’esistenza di monopoli, oligopoli, lobby e corporazioni abbia portato dei benefici alla collettività. La corporazione dei giornalisti non fa eccezione. I privilegi, anche quando sono piccoli, sono sempre privilegi: diminuiscono la credibilità morale e l’autorità di chi ne trae profitto. Quando i giornalisti devono denunciare politici incompetenti e arroganti, amministratori corrotti, burocrati inefficienti, imprenditori rapaci, sportivi disonesti, qualcuno può sempre pensare «da che pulpito viene la predica». La cultura delle regole, lo Stato di diritto, la società aperta, si difendono non con i sermoni ma con i comportamenti.
L’Ordine dei giornalisti merita una sepoltura veloce e senza rimpianti. La sua soppressione non guarirà di per sé l’antico vizio di una parte del giornalismo italiano di lavorare «in ginocchio». Non scompariranno per miracolo il servilismo, l’opportunismo, la faziosità, la pigrizia o la viltà. Ma se non altro senza l’Ordine diventerà un po’ meno difficile praticare questo mestiere per quei giovani che hanno grinta, talento, idee da far valere.
Di certo c’è bisogno di associazioni che difendano la libertà di stampa. Amnesty International e Reporters senza frontiere mi sembrano più qualificate.

da MicroMega 6/2006

(28 aprile 2008)



MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.