Giustizia e uguaglianza in due atei del Settecento
di Elena Giorza
Jean Meslier, Il testamento. Le ultime volontà di un prete ateo, comunista e rivoluzionario del ‘700, Guaraldi Editore, Rimini 1972.
Paul-Henry Thiry d’Holbach, Sistema della natura, UTET, Torino 1978.
ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame»[1].
F. De André
«Beh, ecco, se mi posso permettere, spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande»[2].
A. Olivetti
L’Articolo 3 della Costituzione italiana detta:
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Evidente è la distinzione che si pone tra i due commi: se il primo enuncia un’uguaglianza formale, il secondo fa riferimento a un’uguaglianza in senso sostanziale. Dovere dello Stato, quindi, non è soltanto garantire un’uguaglianza di diritto, ma anche – e soprattutto – un’uguaglianza di fatto, ovvero assicurare le stesse condizioni di partenza (non di arrivo!) a tutti i cittadini, attraverso un insieme di azioni positive – “trattamenti di favore” che, al di fuori di questo contesto, sarebbero considerati discriminatori – che mirino a eliminare le barriere di carattere economico e sociale che impedirebbero l’uguaglianza stessa. Lo Stato verrà meno a questo dovere ogni volta che tratterà in modo uguale situazioni di partenza diverse e ogni volta che tratterà in modo diverso situazioni uguali.
L’importanza del secondo comma del terzo Articolo della nostra Costituzione, trova espressione nelle parole di Calamandrei per cui «una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto un’uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società. E allora voi capite da questo che la nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà; in parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere, quanto lavoro vi sta dinnanzi!»[3].
Calamandrei continua il suo Discorso sulla Costituzione (26 gennaio 1955) affermando che l’Articolo 3 costituisce una polemica nei confronti della società presente, in quanto esso «riconosce con questo che questi ostacoli ci sono, di fatto, e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la Costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani […] è una Costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società in cui può accadere che, anche quando ci sono le libertà giuridiche e politiche, siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche e dall’impossibilità per molti cittadini di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che, se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anch’essa contribuire al progresso della società»[4].
Lo Stato italiano è tenuto, non solo a non violare, ma a garantire le libertà fondamentali e i diritti dichiarati all’interno della Carta costituzionale. E se questo non accade? È interessante notare come il 5 dicembre 1946, in sede di dibattito per l’approvazione della Costituzione italiana, all’interno del Progetto di Costituzione, al secondo comma dell’Articolo 50 – che ora è il 54 – venga inserito il diritto/dovere alla resistenza: «Quando i pubblici poteri violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino». Dopo una serie di complesse vicende politiche, la proposta di inserimento del diritto alla resistenza – previsto all’interno di numerose Costituzioni, come quella tedesca, francese e portoghese – viene rifiutata, in quanto ritenuto un fatto politico non traducibile in termini giuridici e in quanto già implicito, a parere di molti, nel concetto di sovranità popolare su cui la Costituzione italiana insiste.
È nell’ambito della riflessione su queste due tematiche – da una parte il dovere dello Stato di garantire uguali condizioni di partenza; dall’altra il diritto di resistenza dei cittadini – che risulta utile prendere in considerazione due testi.
Il primo è il Sistema della natura di d’Holbach, autore ateo e materialista, esponente dell’Illuminismo francese. Questo testo venne pubblicato per la prima volta nel 1770 clandestinamente – con falso luogo di stampa, Londra – e sotto pseudonimo, per la sua natura radicale e antireligiosa. Obiettivo dell’opera non è soltanto portare avanti una netta “crociata antireligiosa” che miri a tagliare fin dalle radici l’“albero velenoso” rappresentato dalla religione (intendendo con quest’ultimo termine tutte le confessioni religiose comprese le soluzioni di compromesso quali potevano essere le religioni così dette razionali o di stampo deistico); ma soprattutto dimostrare come una concezione materialistica, atea e deterministica dell’universo potesse essere alla base di una morale “umana e di natura”, di stampo utilitaristico, indipendente da elementi metafisici e capace di regolare il rapporto tra gli individui di una società.
In questo contesto si colloca una riflessione significativa per la questione che qui si intende affrontare. Nel tentativo di dimostrare come il sistema del fatalismo – basato sull’idea che il mondo sia una catena necessaria di cause ed effetti e quindi sulla negazione del libero arbitrio dell’uomo – lungi dall’essere pericoloso sul piano morale, consenta di attribuire agli individui la responsabilità delle proprie azioni e quindi li renda passibili di punizione, d’Holbach individua un caso in cui risulterebbe, invece, inappropriato e illegittimo punire qualcuno per una colpa commessa.
Egli afferma che una società non è in diritto di punire «quelli cui non ha affatto presentato i motivi necessari per influire sulle loro volontà; non ha diritto di punire quelli che la negligenza della società ha privato dei mezzi per sussistere, esercitare la loro attività e le loro doti, lavorare per essa. È ingiusta quando punisce quelli cui non ha dato né educazione né principi onesti, non ha fatto contrarre abitudini necessarie alla conservazione della società. È ingiusta quando punisce per colpe che i bisogni della loro natura e la costituzione della società hanno reso loro necessarie. È ingiusta e insensata quando li castiga per il fatto che hanno seguito tendenze che la società stessa, l’esempio, l’opinione pubblica, le istituzioni cospirano a dar loro»[5].
In tal senso, uno Stato, qualora non sia in grado di provvedere ai bisogni fisici, alla sicurezza, alla libertà e ai diritti di tutti i suoi cittadini, qualora quindi non sia capace di assicurare l’uguaglianza delle condizioni di partenza, finirà per agire «come i padri ingiusti che castigano i figli dei difetti che essi stessi hanno fatto loro contrarre»[6] o come
coloro che contraggono la pediculosi e che si trovano necessariamente «costretti ad uccidere gli insetti da cui sono tormentati, sebbene sia la loro costituzione difettosa a produrli ad ogni istante»[7].
D’Holbach, pur ritenendo un’ingiustizia la punizione e, quindi, l’attribuzione della responsabilità di azioni malvagie a quegli uomini ai quali lo Stato non è stato capace di garantire un’uguaglianza sostanziale – rendendoli, di fatto, costretti ad agire contro la legge per rispondere ai propri bisogni – non fa il passo successivo. Non arriva, cioè, a indicare gli strumenti o le soluzioni a cui i cittadini di una società ingiusta possano e debbano ricorrere per modificare questa situazione di ineguaglianza.
A fare questo ulteriore passo è, invece, Meslier, conosciuto per il suo Testamento[8].
Jean Meslier vive tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento ed è curato delle parrocchie di due piccoli paesi della campagna francese – Etrépigny e Balaives. Ha un’esistenza comune, ma prima di morire scrive le sue memorie, un vero e proprio testamento spirituale indirizzato ai suoi parrocchiani e, più in generale, alle classi più disagiate del popolo, in cui, dimostrando in modo puntuale la falsità di tutte le religioni e denunciando i soprusi e le ingiustizie sociali causate dal potere politico degenerato e corrotto, dichiara in modo esplicito il suo ateismo e il suo materialismo e invita gli uomini a una vera e propria rivoluzione. Obiettivo di Meslier è rendere consapevole il volgo, mantenuto con ogni mezzo nell’ignoranza, del carattere artificioso delle diseguaglianze sociali e della funzione politica dell’impostura religiosa che funge da legittimazione del potere tirannico e consente l’arricchimento della casta sacerdotale e di chi detiene il potere, a spese dei più deboli. L’invito è quello di liberarsi dal giogo della schiavitù, attraverso una ribellione che ponga le basi per una società giusta ed equa.
È interessante accennare brevemente alla complicata vicenda editoriale che subisce questo testo. Il successo del Testamento lo si deve senza dubbio a Voltaire, il quale, insieme a d’Holbach e alla cerchia dei collaboratori dello stesso d’Holbach, è uno dei più importanti editori della letteratura così detta clandestina che si diffonde segretamente in Francia nella prima metà del Settecento e che per la prospettiva antireligiosa di cui si fa portavoce non avrebbe potuto superare le maglie della censura. Voltaire pubblica diversi estratti del Testamento: egli però elimina volutamente tutti i passi di carattere esplicitamente ateo o materialistico che originariamente comparivano nell’opera. In questo modo Voltaire, preoccupato della pericolosità dell’ateismo su un piano sociale e convinto dell’utilità della religione come freno morale per il popolo, trasforma forzosamente Meslier in un autore di stampo deista, sostenitore di una religiosità di tipo razionale e naturale. Ancora dopo il 1864, quanto il manoscritto del Testamento viene pubblicato interamente e nella sua stesura originaria, la riflessione su Meslier è influenzata, da una parte, dall’immagine del prete costruita ad hoc da Voltaire, dall’altra dalla convinzione che egli sia l’autore del Buon senso, un testo di carattere ateo e materialistico che d’Holbach pubblica nel 1772 anonimo e che riprende diverse tesi già presenti nel Sistema della natura, di cui si è parlato prima.
Meslier ha sete di giustizia: osserva la realtà che ha intorno, si trova circondato da un susseguirsi continuo di insopportabili ingiustizie sociali. Ne individua la causa nel patto infernale tra trono e altare che mantiene nell’ignoranza e nella indigenza la maggior parte degli uomini, attraverso leggi inique «che li costringono a diventare viziosi e malvagi facendoli nascere nella povertà e nella miseria, condizione dalla quale essi tentano di uscire ricorrendo ad ogni mezzo, lecito e illecito»[9]. Il suo scopo è di carattere pratico: « […] cercate di unirvi tutti, tanti quanti siete, voi ed i vostri simili, per scuotere definitivamente il giogo del potere tirannico dei vostri principi e dei vostri re; rovesciate ovunque questi troni ingiusti ed empi, spaccate queste teste coronate, umiliate l’orgoglio e la superbia di tutti i vostri tiranni e non tollerate mai che essi regnino su di voi»[10].
L’obiettivo è costituire una società giusta, ispirata unicamente ai principi di uguaglianza e di comunione dei beni – in polemica con l’idea di proprietà privata. Si tratterebbe di una società di eguali in cui l’unica distinzione legittima sarebbe costituita dal merito: l’autorità di chi governa dovrebbe dipendere cioè esclusivamente dalla virtù e dalla saggezza e dalla conseguente predisposizione alla conservazione e al progresso del bene comune. Meslier non specifica quali siano gli elementi che consentano di definire il criterio meritocratico – in questo la sua riflessione risulta limitata – ma problematizza una questione su cui vale la pena soffermarsi brevemente.
Per tornare alla nostra Costituzione, nel terzo comma dell’Articolo 34 si afferma: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». I mezzi per rendere effettivo questo diritto sono, come si esplicita nel quarto comma, borse di studio, assegni familiari e altre forme di sussidio attribuite sula base di concorsi. Questo Articolo, se non considerato alla luce del terzo – in particolare del secondo comma in cui vengono garantite uguali condizioni di partenza a tutti i cittadini – risulta insufficiente, inefficace e fonte di ingiustizia. Può sembrare banale, ma spesso si tende a sottovalutare lo stretto legame che deve sussistere fra merito e uguaglianza di fatto: non solo all’interno del senso comune, ma anche negli appelli – sempre più frequenti – alla meritocrazia all’interno del contesto accademico, si guarda al merito come a una dote naturale che alcuni fortunati possiedo dalla nascita e che deve essere premiata. In tal senso l’attenzione è posta sui premi o comunque sugli strumenti adatti a mettere in atto e a consentire lo sviluppo e la concretizzazione del merito.
Tale concezione, che assume il merito come un dato di fatto di partenza che deve essere sostenuto con ogni mezzo, presenta un limite evidente: non tiene conto del fatto che quegli elementi che consentono di definire una persona meritevole non sono puramente “naturali”, ma dipendono proprio dalle condizioni di partenza in cui nascono e crescono i singoli individui e che normativamente dovrebbero essere uguali per tutti, ma che descrittivamente non lo sono. Molto banalmente, un bambino che cresce tra i libri dei nonni, che viaggia, che ascolta quotidianamente i genitori dialogare di cinema, teatro, musica, arte, avrà molte più possibilità di finire nella lista dei meritevoli. E, qualora non ci riuscisse, sarebbe probabilmente supportato da insegnanti privati, ripetizioni di varie materie, in modo da ottenere un risultato sufficiente per diplomarsi nel Liceo della propria città.
Così – al di fuori di ogni retorica –, a parità di doti naturali, un adolescente nato in un ambiente meno stimolante, magari nella periferia di una qualche città, i cui genitori, lavorando dodici ore al giorno, si trovano ad affidare gran parte della sua
crescita intellettuale e culturale alle istituzioni pubbliche – a un istituto professionale per esempio –, realisticamente, avrà molte meno possibilità di finire tra i più capaci e meritevoli. Certo, qualora ci finisse, magari grazie a sforzi e sacrifici personali, verrebbe aiutato con borse di studio o altro. Ma il problema è proprio questo: coloro che sono privi di mezzi non solo devono avere il diritto di laurearsi all’università, se meritevoli; ma a loro lo Stato deve sforzarsi di garantire condizioni di partenza uguali a quelle degli altri e tali per cui essi possano diventare meritevoli. L’attenzione va posta sulla fase antecedente piuttosto che su quella successiva: va premiato il merito, ma prima di tutto va data a tutti la stessa possibilità di diventare meritevoli.
Fino a quando la convinzione che i più capaci vadano supportati con ogni mezzo non sarà accompagnata dalla consapevolezza che quella capacità è frutto di un insieme combinato di fattori – molti dei quali non naturali, ma sociali, economici, culturali – le cui condizioni di possibilità devono essere uguali per tutti, la scuola si farà carico solo di coloro che, anche senza il suo supporto, avrebbero i medesimi risultati soddisfacenti e rimarrà «un ospedale che cura i sani e respinge i malati […] uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile»[11].
NOTE
[1] F. De André, G. Bentivoglio, N. Piovani, Nella mia ora di libertà, dall’album Storia di un impiegato, 1973.
[2] R. Cecchetti, M. Peroni (a cura di), Adriano Olivetti: un secolo troppo presto, Edizioni BeccoGiallo, Padova 2011.
[3] Il discorso di Calamandrei è disponibile on line alla pagina http://www.napoliassise.it/costituzione/discorsosullacostituzione.pdf (ultima consultazione 07/05/2017).
[4] Ivi.
[5] P. Th. D’Holbach, Sistema, cit., p. 262.
[6] Ibid., pp. 264-265.
[7] Ibid., p. 265.
[8] L’edizione della traduzione italiana del Testamento a cui si fa qui riferimento – l’unica esistente – è un’antologia di passi scelti, non è quindi la traduzione dell’opera completa.
[9] J. Meslier, Testamento, cit., p. 50.
[10] Ibid., p. 246.
[11] L. Milani, Lettera a una professoressa. Scuola di Barbiana, Libreria editrice fiorentina, Firenze 1976.
(8 maggio 2017)
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