IoRestoaCasa e leggo un classico: ‘Gli abiti nuovi del presidente Mao’ di Simon Leys presentato da Simone Pieranni
Simone Pieranni
Gli abiti nuovi del presidente Mao di Simon Leys, uscito in Francia nel 1971, apparve in Italia solo nel 1977, pubblicato da una piccola casa editrice anarchica, Edizioni Antistato. Nel libro Leys demolisce Mao e il maoismo proprio nel periodo di maggior successo della rivoluzione comunista cinese in Occidente: Leys non risparmia nulla al Grande Timoniere e finisce per descrivere il Partito comunista come una specie di gang criminale. Proprio per questa sua inappuntabile distruzione del «mito» maoista, attraverso la sua grande conoscenza della lingua cinese e la possibilità di osservare il periplo della Rivoluzione culturale da Hong Kong, Leys fu osteggiato e il suo libro faticò a trovare editore e pubblico. Eppure, ancora oggi, Gli abiti nuovi del presidente Mao permette di aprire uno squarcio su due universi affascinanti e complessi. Il primo è quello abitato dalla Rivoluzione culturale, dalla leadership di Mao e dalla Cina in generale, la sua complessità, le sue possibili interpretazioni, i suoi tanti misteri. E questo vale ancora oggi, mentre il paese, dopo trasformazioni epocali, si va affermando sempre più come potenza economica e geopolitica globale. Il secondo è quello relativo alla vita di Simon Leys, nome d’arte di un intellettuale a tutto tondo, capace di scrivere le pagine più fulgide, gustose e profonde della Cina d’allora.
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Partendo dall’universo della Rivoluzione culturale, un evento che generalmente si circoscrive tra il 1966 e il 1976 (ma che ufficialmente per il Partito termina nel 1969), si può affermare che l’importanza di quegli anni, benché oggi quasi taciuti dalla dirigenza al potere, sia ancora presente nell’inconscio della vita politica cinese. Basti pensare che l’attuale presidente Xi Jinping a 16 anni venne mandato nella provincia dell’Hebei a lavorare tra i contadini. Era il 1969: il padre, funzionario del Partito della prima ora, era stato epurato come tanti altri durante la Grande rivoluzione culturale proletaria. Dopo sette anni e dopo diversi tentativi, Xi Jinping riuscì a entrare nel Partito comunista, finendo per scalarne le posizioni e conquistandone infine la vetta nel novembre del 2012. Di recente è stato pubblicato un suo discorso pronunciato nel 2013, nel quale ribadiva la posizione ufficiale su quegli eventi che tanto hanno influenzato anche la sua vita: la Rivoluzione culturale, ha detto Xi, fu «un grande errore». Prima di lui era toccato esporre il medesimo giudizio su quegli eventi a tutti i leader del paese, a cominciare da Deng Xiaoping. Naturalmente il Partito stesso si era espresso in modo ufficiale, con la «Risoluzione su alcune questioni della storia del nostro Partito, dalla fondazione della Repubblica popolare cinese», approvata dal Comitato centrale del Pcc il 27 giugno 1981 e nella quale si definì «decennio perduto» il periodo che va dal 1966 al 1976.
Il Partito aveva bisogno di quella condanna: salvò «il pensiero di Mao Zedong» (ancora oggi tra i princìpi del Partito comunista) annullandone allo stesso tempo gli effetti economici e gli eccessi (sancendo ad esempio un limite al mandato presidenziale), attraverso le riforme e l’apertura al mercato globale: si trattava di alleviare il paese dalla fame, dalle difficoltà economiche e di distrarlo da un periodo devastante da un punto di vista sociale. Quelli della Rivoluzione culturale erano stati anni di luan, caos, disordine, confusione; un sentimento che è rimasto insito in ogni cinese e che ogni cinese – ancora oggi – vuole evitare.
Poi, però, il Partito ha via via trascinato nell’oblio l’evento: troppe le cicatrici, troppi gli interrogativi, troppe le vittime e i carnefici. Ma più di tutto, sulla dimenticanza forzata ha influito l’arrivo al potere di funzionari che avevano sofferto – in un modo o nell’altro – durante quel periodo. Negli ultimi tempi la classe politica del Partito è formata proprio dai protagonisti di quegli anni: ex guardie rosse, fomentate dal «bombardare il quartier generale» di Mao Zedong, che prima si massacrarono tra loro e che poi, nel fiore dei propri anni, si ritrovarono in campagna a essere rieducati dai contadini, quando Mao, con il sostegno dell’esercito, riportò l’ordine in una società completamente frantumata, nella quale erano state abolite le scuole e dove ogni riferimento alla cultura, all’intelletto era diventato un pericolo, un rischio per la propria vita.
E così, mentre il mito di Mao tra fine anni Sessanta e anni Settanta influenzava tante persone in Europa, Simon Leys dal suo avamposto di Hong Kong, privilegiato per prossimità geografica in un momento in cui era molto complicato entrare in Cina, raccontava in presa diretta gli eventi della Rivoluzione culturale, presentandola in un’ottica del tutto diversa rispetto alla vulgata «rivoluzionaria» in atto in Europa, e precisando fin dall’incipit del libro che quella che si chiamava «Rivoluzione culturale» con la cultura non aveva proprio niente a che fare: «La Rivoluzione culturale», scrive nelle prime righe del libro Leys, «non ha niente di rivoluzionario se non il nome e niente di culturale se non il suo pretesto tattico».
Un «pretesto tattico» – raccontato mirabilmente da Leys – dal quale sarebbe partito tutto il terremoto successivo, ovvero le accuse di Mao Zedong contro un libretto nel quale era implicita una critica alla sua leadership. Mao – però – andò oltre, lanciando strali contro «riformismi» ed elementi di destra all’interno del Partito. Il Pcc tentò di relegare questa polemica all’interno del mondo accademico e delle lettere, ma Mao tenne duro finché nel maggio del 1966 le sue posizioni diventarono quelle di tutto il Partito. La Grande rivoluzione culturale proletaria era cominciata ufficialmente.
Di tutto quel processo diabolico e devastante per la società cinese, i cui segni sono ancora evidenti oggi, Leys descrive ogni singolo passaggio in presa diretta, presentando l’evento che scaldò i cuori di una generazione politica in Occidente, come una resa dei conti all’interno del Partito comunista, a seguito dell’esclusione di Mao dal vertice del potere del Pcc, dopo il famoso congresso di Lushan, quando la politica del «Grande balzo in avanti» venne condannata dal Partito.
Mao, come racconta Leys, si ritirò parzialmente ma cominciò da allora a preparare la sua tela, la sua trappola alla dirigenza del Partito, che considerava «riformista» e pericolosa per la sopravvivenza della rivoluzione comunista. La sua prima mossa fu quella di mettere una sua pedina in quell’ingranaggio, attraverso il posizionamento del fedele alleato Lin Biao alla Difesa, ovvero al comando dell’esercito. Leys racconta la genesi di quanto accaduto in Cina, descrive i passaggi politici attraverso i quali Mao Zedong finì per recuperare in pieno il controllo del Partito, dando vita al suo culto totale della personalità. Mao spinse i giovani dell’epoca a farsi guardie rosse, a concepire come unica verità il suo verbo (il «Libretto rosso»), ad abbattere i «vecchiumi», Confucio e tutto il retaggio borghese ancora presente, secondo lui, nel Partito, portando alla condanna e in molti casi alla morte, tanti funzionari, intellettuali, professori. Ma ben presto i gruppi in difesa della Rivoluzione divennero tanti, in lotta tra loro: gli scontri tra le fazioni divennero quotidiani, i morti aumentavano. Dopo aver ottenuto quanto voleva, tornare al centro della politica e al comando del Partito, Mao – come spiega Leys, con
costanti rimandi alla storia millenaria della Cina – scelse di abbandonare quei giovani, scagliandogli contro l’esercito e mandandoli a «rieducarsi» nelle campagne.
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Proprio per questa critica feroce contro Mao e per un atteggiamento che parve conservatore (benché in realtà Leys riconoscesse a Mao alcuni meriti precedenti alla Rivoluzione culturale), all’epoca, quando non criticato, Gli abiti nuovi del presidente Mao venne completamente ignorato. Molti anni dopo sappiamo che quanto raccontato da Leys aveva del fondamento; il libro era in grado di cogliere alcuni elementi essenziali di quello scontro politico in corso, tanto da azzerare il peso storico di molte altre cronache fornite in quel periodo, ben più ottimiste. Come Simon Leys scriverà anni dopo, nel 1989, «le informazioni che ho riferito, per quanto spiacevoli e ripugnanti fossero, non avevano nulla di confidenziale, nemmeno di originale. Era facile radunarle, non era necessario dar loro la caccia». Secondo Leys, in quegli anni, gli fu sufficiente «ascoltare attentamente i discorsi di qualche amico cinese intelligente e colto, leggere due quotidiani cinesi a colazione». Naturalmente c’è molto di più; in particolare c’è la grande capacità dell’autore di ricollegare fatti, di citare fonti in lingua cinese e di orchestrare il racconto con grande capacità narrativa.
Gli abiti nuovi del Presidente Mao descrive quanto stava succedendo in Cina giorno dopo giorno, come una sorta di diario, e nonostante questo elemento – di per sé parziale, perché istantaneo e prodotto al momento – riesce a fornire un quadro completo e straordinariamente attuale delle tanto decantate «caratteristiche cinesi» ed è in grado di farlo attraverso uno stile del tutto particolare, che mischia cronaca a riflessione e che risente senza dubbio della peculiarità del suo autore, un artista nel vero senso della parola, capace di raccontare fatti macabri e lotte politiche inserendole in un contesto dove si respira il passo della Storia. Leys conosceva bene la Cina e la cultura cinese ed era uno sperimentatore. Gli abiti nuovi del presidente Mao può essere considerato una non fiction novel: un saggio scritto con le tecniche letterarie della fiction. E non a caso Leys fu un grande studioso di George Orwell, che considerava il fondatore di un genere letterario ibrido – ben rappresentato da Omaggio alla Catalogna – a cui si riferisce di continuo.
Il fatto è che Leys stesso, ed eccoci al secondo universo aperto da questo libro, è un personaggio intimamente connesso con la sua produzione e la cui vita è essa stessa un romanzo. Gli abiti nuovi del presidente Mao non sarebbe stato possibile senza l’esistenza peculiare del suo autore, il cui vero nome era Pierre Ryckmans, nato a Bruxelles nel 1935 e morto in Australia nel 2014. Secondo i suoi biografi, Leys non si interessò alla Cina fino a quando «non inciampò nell’opportunità di partecipare a un viaggio in Cina nel 1955». Affascinato, decise di dedicarsi allo studio della pittura e dell’arte cinese, imparando la lingua e perfezionandosi alle università di Taiwan e Singapore. Ricordando quel periodo, Leys ha più volte specificato che il suo vero interesse è sempre stato per la cultura cinese, più che per la politica. Si recò poi una seconda volta in Cina, nel 1972, per sei mesi, con il ruolo di attaché culturale presso l’ambasciata belga.
Anche per questo motivo aveva deciso di pubblicare i propri scritti sulla Cina con uno pseudonimo. E la scelta del nom de plume indica una peculiarità. Se infatti sul nome «Simon» esistono differenti versioni circa l’origine della scelta (queste e tante altre storie sono presenti in una recente biografia dell’intellettuale belga, Simon Leys: Navigator Between Worlds, di Philippe Paquet, edito da La Trobe University Press nel 2017) sul cognome non ci sono dubbi: una delle figure che Leys ha sempre sottolineato di apprezzare in relazione alla Cina è quella di Victor Segalen, altro poliedrico intellettuale vissuto tra fine Ottocento e inizio Novecento. Uno dei libri di Segalen si intitola proprio René Leys e mette in scena «il tentativo, votato fin dall’inizio al fallimento, di penetrare nel cuore della Città proibita, nello spazio riservato esclusivamente all’Imperatore» (i libri di Segalen sulla Cina sono pubblicati in Italia da ObarraO edizioni). Quello che Simon Leys ha fatto per tutta la sua vita: da Hong Kong ha provato a «interpretare iscrizioni inesistenti, scritte con l’inchiostro invisibile su carta bianca», una citazione di Lu Xun, visionario e complesso intellettuale cinese del XX secolo, che Leys utilizzò per spiegare le complessità e le problematiche dei tentativi di leggere la politica cinese.
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