Gli “equilibrismi” dell’arte cinese. Sulla mostra londinese “Art of change. New direction for China”

Luisa Lorenza Corna

Alla Hayward Gallery di Londra, fino al 9 dicembre, sono esposti i lavori di un gruppo di artisti cinesi contemporanei che riflettono sui concetti di caducità e trasformazione. Ma quale rapporto vi è con le contraddizioni dello sviluppo del paese negli ultimi trent’anni?



Il flusso dei visitatori si arresta regolarmente davanti all’opera Just a Blink of an Eye di Xu Zhen esposta alla mostra Art of change, new direction for China alla Hayward Gallery di Londra fino al nove dicembre di quest’anno. In mezzo alla sala, un uomo con un solo piede appoggiato a terra e la schiena inarcata, pare lì per cadere all’indietro. Tale è lo squilibrio da indurre subito a pensare ad una finzione, ma, appena ci si avvicina, un lieve movimento degli arti e delle palpebre revoca in dubbio l’ipotesi iniziale. Ed è proprio la vista di qualcosa che si muove ad arrestare l’itinerario del pubblico, che progressivamente si accosta all’opera, per capire, appunto, se si tratti di una performance umana o di una sua verosimile simulazione. L’uomo ricurvo di Xu Zhen appare però troppo umano nei movimenti per poter essere “falso”, e al contempo troppo sbilanciato nelle postura per essere considerato reale. Nella patria della contraffazione – la Cina è infatti il luogo di provenienza dei tre quarti dei prodotti falsi importanti in Europa – anche l’arte esplora il labile confine tra vero e falso, e lo estende alla natura umana.

Come il titolo Art of change, new direction for China suggerisce, la mostra riunisce i lavori di artisti cinesi contemporanei che esplorano i concetti di caducità e trasformazione. Il tema di certo non è casuale, e rivela il tentativo dei curatori di inscrivere la produzione artistica all’interno, appunto, delle trasformazioni politico-economiche che hanno investito il paese negli ultimi trent’anni. Peccato rimanga, quella della contestualizzazione, una scelta curatoriale non perseguita fino in fondo. La metafora del “cambiamento” viene infatti utilizzata troppo genericamente, senza alcun approfondimento che permetta di cogliere la natura qualitativa di questo processo, confermando così involontariamente un’immagine della Cina già comune e consolidata. La volontà di ancorare la mostra alla storia è confermata dalla presenza di un archivio nel quale sono raccolti 130 eventi significativi dal 1979 ad oggi, e dall’inclusione di informazioni biografiche relative agli artisti e autori delle opere esposte. Tuttavia, un archivio ridotto ad una serie di sconnessi “eventi chiave” poco aiuta a cogliere nel dettaglio la specificità della transizione che si vorrebbe indagare. E mentre la storia recente viene, anche se sommariamente, de-archiviata, tutto ciò che precede il 1979, anno in cui, con Deng Xiaoping, inizia il processo di riforma e apertura al mercato, è riassunto in un breve paragrafo che insiste sulla natura repressiva della repubblica cinese.

Il ’79 è anche l’anno dell’inaugurazione – e subitanea chiusura – della mostra Star art exhibition, considerata l’evento inaugurale dell’arte contemporanea cinese. Quello alla fine degli anni settanta, è stato, senza dubbio, un momento significativo per l’intera produzione artistica del paese, ma la mostra insiste sull’effetto immediato e liberatorio delle riforme politico-economiche seguite alla morte di Mao, senza entrare nel merito delle trasformazioni che queste stesse riforme hanno provocato a lungo termine sul “sistema” dell’arte. Negli ultimi anni infatti, la “chinese art” sembra essere diventato un brand onnipresente, che contribuisce a promuovere un’immagine positiva e progressista del nuovo capitalismo cinese (come conferma anche la mostra China power station alla Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli di Torino del 2010).

Sebbene poco esplorate nella cornice curatoriale, queste contraddizioni emergono, in forme diverse, nelle opere degli artisti in mostra. Tra i partecipanti, per esempio, figura MadeIn company, organizzazione artistica che opera come un’agenzia pubblicitaria, dove un artista direttore (Xu Zhen) realizza la migliore proposta tra quelle avanzate da un gruppo di collaboratori creativi. Xu Zhen impianta così nel mondo dell’arte una struttura che replica fedelmente le gerarchie e le costrizioni del lavoro contemporaneo. L’operazione è cinica, ma allo stesso tempo ci fa domandare se la dissoluzione dell’arte dentro l’industria creativa non sia un processo già compiuto. L’utilizzo della sigla made in, normalmente associata all’industria manifatturiera, per il business postfordista di un agenzia pubblicitaria, è peraltro il segno di un capitalismo onnivoro, di cui il sistema-arte è elemento integrante.

La “forma” del lavoro è centrale anche nell’opera-performance Circulation-sowing and harvesting [circolazione-semina e raccolta], dove Wang Jianwei collabora con un contadino alla piantagione di un campo di grano geneticamente modificato, documentandone fotograficamente i passaggi. L’opera risale agli anni ’90, periodo in cui l’artista si dedica all’osservazione delle fasi che compongono i processi sociali e lavorativi, e ne mette in discussione gli esiti predefiniti. Nel titolo del lavoro esposto, infatti, l’inversione della sequenza degli stadi di produzione del grano sembra alludere all’imprevedibilità che caratterizza il corso degli eventi. Sempre di Wang Jianwei è Surplus Value, tavolo da ping pong reso impraticabile dalla forma a zig zag del piano. Ogni lancio termina infatti in una delle rientranze dopo pochi rimbalzi, senza riuscire a raggiungere l’avversario. Attraverso la progettazione di un spazio che impedisce al gioco di espletarsi, Wang Jianwei sferra così un attacco metaforico al finalismo che guida le azioni umane.

Liang Shaoji esibisce invece il ciclo vitale-produttivo dei bachi da seta in Nature Series no 98, tema a cui si dedica sin dagli inizi della sua carriera artistica. All’interno di una sala buia, è collocata una struttura cilindrica a più livelli, che ospitano colonie di bachi a diverse fasi del loro sviluppo. La produzione del bozzolo ha tempi troppo lunghi affinché si possa cogliere qualche evoluzione durante una visita alla mostra, ma la registrazione amplificata del lavorio dei bachi udibile in cuffia ne rivela l’attività continua (Listening to the Silkworm). Fuori dalla sala adibita alla zootecnia, una serie di oggetti avvolti da una trama filamentosa formano un’installazione spettrale. È come se i bachi, ribellatisi al ciclo della coltivazione, avessero invaso uno spazio umano, rendendolo inagibile attraverso il filo di seta (Window, Nature Series no 10).

Poco lontano dall’operosità dei bachi di Shaoji, una donna dorme rannicchiata su una mensola gigante, fissata alla parete della galleria. Si tratta di Sleeping, una delle performance in cui Yingmei Duan indaga attività senza sforzo visibile come quella sognante, alla luce del concetto cinese “wei wu wei”, traducibile in “azione senza azione”. Se credevamo di trovarci di fronte ad un momento di inoperatività dovremo ricrederci. Shaoji ci ricorda che la Cina è un paese che produce anche mentre dorme.

(4 dicembre 2012)



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