Gli insegnanti, la rivoluzione digitale e un recente libro di Alessandro Baricco

Carlo Scognamiglio

Poiché vita reale e comunicazione digitale sono oggi inscindibili e nel digitale vive una parte importante del nostro sistema simbolico, gli insegnanti dovrebbero superare tanto la visione “apocalittica” quanto quella “integrata” riguardo all’uso della tecnologia nella didattica. Tra i compiti della scuola, quindi, anche quello di una vera e propria alfabetizzazione digitale per decifrare il nuovo orizzonte d’esistenza.

1. C’è una questione, nel dibattito culturale italiano, che necessita di ulteriori approfondimenti. Non certo orfana della giusta attenzione da parte degli studiosi, credo tuttavia che vada interrogata con un approccio meno tecnico. Mi riferisco al rapporto tra istruzione e tecnologie digitali. Non ho esordito evocando la necessità di un supplemento d’inchiesta in ambito esclusivamente pedagogico, perché mi vado sempre più persuadendo dell’impatto sociale della questione, che quindi pretende un più ampio ambiente di osservazione. Ci sono livelli di indagine stratificati, in questo caso. Ci sono le aspettative delle famiglie, delle aziende, degli studenti stessi. Ci sono poi le relazioni mediche e le programmazioni didattiche. Esiste il tema politico e la questione psicologica. Come dire? L’assoluta pervasività della tecnologia digitale nel nostro esistere è tale da aver terremotato l’intero impianto culturale degli stili di vita, e in generale della nostra civiltà.

Alcune precisazioni sono obbligatorie. Se parliamo di tecno-logia non ci riferiamo soltanto allo strumento e ai diversi mediatori elettronici di cui ci siamo circondati. Intendiamo infatti per “tecnologia” il sistema degli strumenti (hardware e software) che anno dopo anno semplificano le nostre azioni, ma anche il ragionamento – o discorso (λόγος) – sulla tecnica. Ciò significa che non possiamo scindere i mezzi dal loro impatto (simbolico, pratico e valoriale) sulla cultura. Le cose cambiano. Bisogna capire come, e anche perché.

Proviamo in primo luogo a inquadrare il tema da un punto di vista ontologico. Nicolai Hartmann, un pensatore tedesco del Novecento non sufficientemente valorizzato, ha dedicato una parte significativa del proprio libro intitolato Il problema dell’essere spirituale all’analisi ontologica degli artefatti, da lui categorizzati come “spirito obbiettivato”[1]. Ciò che è prodotto dall’uomo è sempre il frutto di una protrazione storica, ma diventa a sua volta fattore d’innesco per nuovi processi. Ogni atto creativo e produttivo è l’esito di un’esigenza, una combinazione simbolica, una visione del reale, che caratterizza un determinato stadio evolutivo dell’essere sociale (ma anche di un singolo produttore). La materia viene manipolata fino a raggiungere forme e proprietà definite, costituendosi come artefatto, sia esso un bicchiere o uno smartphone. Tale oggetto è dunque spirito obbiettivato, afferma Hartmann, il che vuol dire che il suo significato e il suo valore sono ontologicamente dati solo in presenza di un soggetto capace di attribuirgli un senso, cioè di riconoscerli. E questo gioco del soggetto produttore-interprete determina importanti modificazioni culturali nel tempo storico, alterando la soggettività stessa[2].

Ecco perché la qualità e la quantità di artefatti che ci circondano non possono essere liquidati a meri strumenti, a neutra materialità. Le cose sono significative solo all’interno di un rapporto di riconoscimento, interpretazione, o uso. Ma in quel rapporto non sono più soltanto cose, diventano processi.

In un suo libro del 2018 (The Game[3]), Alessandro Baricco propone un’interpretazione storica della rivoluzione digitale, che non è affatto priva di interesse. In buona sostanza, Baricco ricostruisce la storia della progressiva digitalizzazione del nostro tempo in una chiave nuova, individuando – tra gli anni Ottanta e Novanta, in particolare – una sorta di nucleo esplosivo della società industriale avanzata, costituito da una manciata di giovani brillanti, con una formazione prevalentemente scientifica, sicuramente curiosi e ludicamente atteggiati alla rivoluzione. Stiamo parlando dei vari Bezos, Jobs e compagnia cantante. Si tratta, secondo Baricco, di riconoscere in quel gruppo di pionieri la capacità di innescare un’ondata di rifiuto della cultura lineare, autoritaria e – nei suoi esiti storici – catastrofica, che aveva caratterizzato il Novecento. In fondo, il secolo breve aveva prodotto il totalitarismo dei regimi illiberali e quello dei consumi di massa, una società asfittica e moralista. L’oppressione generazionale e le guerre atomiche. Quel gruppetto di “nerd”, come verrebbero definiti oggi, individuarono la via di fuga, l’evasione, in un semplice “game”. L’invenzione di videogiochi è stata infatti la prima mossa di questa lunga battaglia contro le paludate gerarchie novecentesche. I primi videogame, sostiene Baricco, se paragonati ad altre forme di divertimento dei nostri tipici luoghi di ritrovo, come il vecchio calcio-balilla, presentavano in nuce i caratteri della rivoluzione digitale: un corpo che si muove poco, occhi inchiodati a uno schermo e gratificanti stimoli uditivi, uniti alla massima concentrazione individuale: ecco l’atteggiamento antropologico del futuro. Oggi la Rete è sostanzialmente questo: una liberazione, per un pezzo della nostra vita, dal peso del corpo. Una quantità impressionante di gesti e comportamenti diventano muti, statici, inodori, ma velocissimamente compiuti attraverso internet. Richiedono la massima attenzione, isolamento dagli stimoli esterni, ma sono esperienze sempre gratificanti sul piano sensoriale.

Anche il passaggio evolutivo da comunicazione frontale a telefonata-SMS-emoticon, è un processo di progressivo alleggerimento del carico fisico delle cose. Qualcosa si perde sempre, come nel passaggio tra i 33 giri (che non a caso oggi tornano di moda) e i file in formato MP3. Ma al netto di qualche qualità dispersa, le dimensioni di praticità e divertimento rendono immediatamente acquisito un nuovo sistema di vita e di pensiero.

E da lì in poi è stato un susseguirsi di ideazioni innovative e di tool, in buona parte realmente utili, oltre che divertenti. La promessa è sempre stata quella di sbrigare faccende noiose (come organizzare un viaggio in agenzia o cercare un riferimento bibliografico), con agilità e soddisfazione, come è ben esemplificato dall’invenzione del sistema touch screen. Si tratta di una radicale gamification di ogni aspetto della vita quotidiana. Baricco è dettagliato nella ricostruzione, mentre io qui procedo velocemente, ma il suo ragionamento è interessante e brillante. Cuore del gioco, momento dopo momento, è stato quello di decapitare la struttura gerarchica della società novecentesca, esibendo l’inutilità, per così dire, delle grandi mediazioni sociali. La sfida quotidiana degli innovatori digitali è ancora oggi quella di dimostrare che il singolo (ma al tempo stesso l’intelligenza collettiva) può fare a meno di molte posizioni sociali fino a quel momento a lui esterne e in diverso modo autoritarie. Così scompare il postino, e poi l’agente di viaggi, il critico letterario, l’agente immobiliare, il maestro di chitarra e quant’altro: posso fare tutto da solo appoggiandomi ai dati in Rete, ai tutorial, ai forum. L’intelligenza collettiva assiste l’individuo con maggiore pazienza e benevolenza dell’esperto. Si giunge così agevolmente alle estremizzazioni dell’auto-diagnosi medica o al logoramento della mediazione politica. Tralasciamo ogni considerazione di valore sulla dinamica in oggetto. È accaduto, non c’è dubbio. Sta accadendo. Effettivamente sono state gabbate alcune intollerabili rendite di posizio
ne, ma con esse si è dischiuso un pericoloso abisso culturale. Baricco ne sottolinea gli aspetti positivi, visto che sono fin troppi a ricordarne soltanto le macerie. Ma la questione è la presa di coscienza. O ci rendiamo conto che questo processo è avvenuto, con tutte le mutazioni culturali e antropologiche che ha prodotto, e cerchiamo di studiarlo in modo serio, oppure ogni nostro tentativo di intervenire nei processi sociali, a partire dall’insegnamento, risulterà goffo e irrilevante.

2. Ne deriva infatti un dilemma che, in modo o più o meno consapevole, si situa alla base di due differenti approcci all’uso delle tecnologie nella didattica da parte di molti insegnanti. Alcuni di essi hanno entusiasticamente abbracciato, nel corso degli anni, ogni possibile ricorso a mediatori digitali. Qualche anno fa erano per lo più i supporti audiovisivi a egemonizzare il campo della tecnologia in classe. Poi sono arrivati i PC, le LIM, i tablet, i tool per la didattica inclusiva e quant’altro, fino al registro elettronico. L’entusiasmo per questa inserzione, o a volte sostituzione dei vecchi strumenti con i nuovi, è in fondo giustificata da un’implicita consapevolezza dell’apporto culturale forte dei nuovi mezzi, nel loro intrecciarsi alle vite umane, alla cultura storica. Tenere la scuola fuori dalle trasformazioni significherebbe condannarla all’ininfluenza. Gli allievi finirebbero per percepire in modo sempre più radicale una distanza eccessiva tra l’orizzonte di senso del proprio esistere quotidiano e quello proposto dalla scuola.

Occorre dire che altri docenti tentano invece – nei limiti del possibile – di resistere ostinatamente alla veloce immissione di strumenti per la didattica, ideati per semplificare o sostituire rituali, metodi e procedure tipiche della vita scolastica tradizionale. L’idea di fondo – ereditata dai filosofi francofortesi – non è affatto ingenua: le tecnologie digitali non sono, né possono essere, neutrali, perché sono gestite in una logica proprietaria e orientata al profitto, da aziende multinazionali, che si pongono come unico scopo d’esistenza l’educazione al consumo. Da questo punto di vista, la scuola costituirebbe un punto di resistenza e di costruzione di coscienza critica. In tale obiettivo il ricorso alle tecnologie digitali potrebbe apparire un ostacolo culturale: la sua naturale tendenza al funzionalismo e alla semplificazione produrrebbero un contrasto con la nostra tradizione pedagogica, scandita da tempi distesi e meditazione critica. Con una formula Baricco sembra definire correttamente i caratteri intellettuali delle nuove élite che dominano con sicurezza i prodotti della rivoluzione digitale: “alla disciplina dello studio si è sostituita la capacità di collegare punti, il privilegio del sapere si è sciolto in quello del fare e lo sforzo di pensare profondo si è rovesciato nel piacere di pensare veloce”[4].

Uno dei frutti avvelenati dello sviluppo tecnologico, non solo recente, è senz’altro l’estremizzazione della funzione strumentale, che ci ha quasi condotto a sovrapporre i concetti di “pensiero” e di “problem solving”. Evidentemente non sono la stessa cosa. Tuttavia, per quanto possa generare una certa, legittima ripugnanza, questa strutturale modifica del patrimonio intellettuale necessario per non essere spinti in fondo alla gerarchia sociale, deve essere tenuta in considerazione. Siamo capaci di integrare la tradizione meditativa dello studio tradizionale con la velocità e la creatività necessarie ai nuovi processi relazionali e produttivi? Oppure siamo bloccati nella necessità di dover scegliere in modo drastico tra il vecchio e il nuovo?

Probabilmente entrambi gli approcci (apocalittici e integrati, direbbe Umberto Eco) meritano un ripensamento attraverso la presa di coscienza che non ci troviamo più in due universi separabili: quello della vita reale e quello della dimensione virtuale. Un simile distanziamento si poteva forse registrare vent’anni fa, quando il digitale non aveva raggiunto una capacità d’integrazione dei diversi media talmente sviluppata da rendere del tutto privi di significato i concetti di “online” e “offline”. Come Luciano Floridi ha ben illustrato, la dimensione della codificazione digitale, unita alle sempre più sviluppate tecnologie di IA, sono esse stesse ad essere onlife[5]. Forse non ci rendiamo abbastanza conto di quanti gli oggetti, nella strada, nei mezzi pubblici, nelle case in cui viviamo, nelle nostre stesse tasche, siano costantemente impegnati a produrre, elaborare e condividere informazioni in Rete. C’è dunque una totale commistione tra il cosiddetto piano della vita reale e quello della comunicazione digitale. Neanche è corretto parlare di influenza reciproca. I due orizzonti, oggi, sono psichicamente e fattivamente inscindibili: “la pervasività della comunicazione tecnologicamente mediata, dunque, contribuisce ad abbattere la barriera tra “virtuale” (online) e “reale” (face to face) nelle pratiche quotidiane e favorisce una sostanziale indistinzione sul piano percettivo tra gli eventi comunicativi che si producono attraverso la mediazione tecnologica e gli eventi comunicativi propri delle attività in presenza. Si entra ed esce con assoluta tranquillità dai diversi contesti (online e offline)”[6].

Quell’alleggerimento dal corpo, di cui sopra, non implica la sostituzione di un mondo fisico con un mondo virtuale. Gli “strumenti” potenziano le possibilità del corpo. Se il corpo non si muove, i pensieri e le percezioni acquisiscono fisicità. Ne sono un esempio applicativo di notevole interesse la realtà aumentata (AR) e la realtà virtuale (RV). Attraverso quest’ultima tecnologia, in particolare, è possibile, pur rimanendo completamente immobili, comodamente seduti in poltrona, esplorare porzioni di mondo altrimenti inaccessibili, percepire sensazioni nuove, e quindi generarne. In un programma per RV progettato di recente, è possibile entrare in un quadro di Dalì, esplorarlo in una dimensione tridimensionale e multisensoriale. Siamo fermi, ma il cervello percepisce le medesime sensazioni derivanti da un corpo realmente in movimento. Ovviamente, basta chiudere gli occhi per estraniarsi da questa esperienza. Gli orizzonti anche didattici di una tale applicazione sono potenzialmente infiniti.

Appare poco sensato ribadire l’importanza della digitalizzazione dell’insegnamento in vista di un miglioramento dei profitti. È per altre ragioni infatti che quella svolta dev’essere ponderata come scelta non più procrastinabile in una società travolta dalla rivoluzione digitale. Come gli stessi esperti del settore segnalano, non esiste alcuno studio scientifico capace di porre in rapporto il ricorso al digitale con un miglioramento degli apprendimenti[7]. Ciò a cui dobbiamo prestare attenzione adesso è invece l’aspetto socio-culturale della questione, che identifica il momento didattico con una vera e propria alfabetizzazione digitale, che non ha a che fare con il coding, ma con la decifrazione e l’uso di simboli, gesti e termini concepiti in questo nuovo orizzonte d’esistenza. Gli studenti hanno bisogno di apprendere a comunicare seguendo codici e canali eterogenei, ma anche di indentificare, gerarchizzare, riorganizzare, e dunque interpretare, le informazioni in cui si imbattono, e questo deve avvenire a scuola, perché ha a che fare con la costruzion
e di orizzonti di senso.

Vi sono inoltre le nuove esigenze pedagogiche emerse dalla considerazione dell’inclusione come valore fondante del nostro essere una comunità. Non v’è dubbio infatti che, in sede di programmazione e di organizzazione del lavoro, il ricorso alle tecnologie digitali favorisce in modo articolato le esigenze differenziate delle diverse strutture cognitive, aiutando ciascuno a trovare i canali d’esperienza più congeniali, ad esempio imparando a mediare i medesimi contenuti attraverso formati eterogenei. È vero che il medium è il messaggio, ma moltiplicando i sistemi di trasmissione non si farà altro che arricchire il contenuto, invece che banalizzarlo. Spieghiamoci meglio. Se per un verso abbiamo tutta una serie di strumenti hardware e software pensati espressamente per accompagnare i processi di apprendimento di studenti con difficoltà sensoriali, motorie o cognitive, la relazione tra tecnologie digitali e didattica inclusiva è più complessa. Non è serio né pensabile immaginare una didattica individualizzata per ciascun allievo in classi che possono giungere a contare anche trenta studenti. Personalizzare l’insegnamento significa invece moltiplicare i canali comunicativi, e non i percorsi di apprendimento. La didattica “aperta” è quindi quella articolata, che consente a ciascun allievo, secondo le sue peculiarità, di scegliere gli strumenti di lavoro a lui più idonei per raggiungere i traguardi di programmazione. Da questo punto di vista, anche la cooperazione tra studenti può far emergere inedite e interessanti sinergie.

3. C’è un altro aspetto più profondo in tale questione, ed è messo in evidenza da Pier Giuseppe Rossi, il quale ribalta in certo senso l’allarme lanciato nel 1994 dal Giovanni Sartori, con il suo “homo videns”, in cui segnalava la progressiva scomparsa della capacità d’astrazione, come prima conseguenza della costante relazione tra l’uomo e lo schermo[8]. In realtà, osserva Rivoltella, il touch screen, come altre modalità legate agli ambienti digitali, che uniscono udito, tatto e vista in una costante spazializzazione dei processi, hanno rimodellato il concetto stesso di pensiero, dando a esso una struttura quasi “corporea”:

Il digitale generalizza e rende più diffuso il processo del pensare in formato corporeo in quanto crea uno spazio cognitivo in cui i concetti sono visualizzati. Essi divengono oggetti che è possibile modificare nello schermo con processi senso-motori: avvicinarli, allontanarli, collegarli, manipolarli. I mondi aumentati, più che virtualizzare il reale, danno corpo ai concetti astratti e permettono di muoversi con le idee e concetti nello stesso modo con cui si opera con gli oggetti reali. Il digitale, pertanto, opera in due direzioni:

  • dà corpo ai concetti astratti;
  • costruisce uno spazio cognitivo in cui i concetti astratti prendono forma e sono manipolabili con attività senso-motorie, ovvero permette di utilizzare le mani e il corpo per gestire oggetti “astratti” (conoscere/agire).

Lavorare nel digitale può essere assimilato a muoversi in uno spazio, in cui l’oggetto “concreto” e il concetto “astratto” hanno simili rappresentazioni e identica fisicità[9]

Anche su questo aspetto, il libro di Baricco offre uno spunto degno di approfondimento. Il Web, in fondo, non ha fatto altro che assecondare una dinamica naturale e spontanea del pensiero. Il disordine. La linearità e la consequenzialità, che ci sforziamo di insegnare a scuola, sull’onda lunga della nostra tradizione logica, non sono così naturali come sembrano. Dobbiamo mantenere un forte autocontrollo per rimanere concentrati e sviluppare un ragionamento rigoroso. Per sua natura, il pensiero è costantemente ondivago, stimolato da eventi interni (emozioni) o esterni (distrazioni). Se questo è vero la digitalizzazione non modifica il nostro sistema cognitivo, ma lo asseconda, per questo risulta facile, intuitiva, appetibile, smart. Lo sforzo da fare è invece quello di riuscire a ristrutturare questo swinging, apprendere a costruire delle connessioni logiche e ordinate, usando il digitale in modo lineare. Sembra un controsenso, ma in realtà è proprio il cuore della più alta ambizione educativa, in questo momento storico, perché nel digitale vive una parte importante del nostro sistema simbolico.

Dunque: i regni dell’apprendimento informale e di quello non formale, comprese le innumerevoli esperienze a disposizione della Rete, sono privi di struttura. Sono completamente disaggregati. Il movimento in Rete, l’oscillazione continua tra applicazioni e i molti usi possibili del Web, costituisce quello che Baricco definisce “post-esperienza”, che non presenta alcuna stabilità, è puro movimento, e non può che generare perdita di controllo. Noi creiamo senso, e attribuiamo significato alle cose, non più soltanto attraverso le grandi esperienze che segnano le nostre esistenze, ma anche e soprattutto nel flusso della post-esperienza:

ma il prezzo è una instabilità di fondo, un’impermanenza inevitabile. È per questo che il Game, contro ogni previsione, si rivela essere un habitat difficile, faticoso e selettivo. Oddio, c’è sempre a disposizione l’opzione 1, premere sulle icone giuste e risolversi la vita: limitarsi a prenotare on line il ristorante. Ma in realtà nessuno si ferma davvero lì, e tutti, ognuno a modo suo, tentano la strada della post-esperienza: tutti hanno fame di anima. Solo che lì il gioco si fa duro, qualcuno riscivola indietro, qualcuno scatta avanti, si creano delle disuguaglianze, e infine si assiste a ciò che l’insurrezione non aveva previsto, cioè al fatto che non tutti sono uguali davanti al Game, alcuni giocano meglio altri peggio, e quelli che giocavano meglio finiscono per condizionare il tavolo da gioco, a rigirarlo come fa comodo a loro, a diventarne in certo modo i sorveglianti, o almeno i primi player, diventando qualcosa che possiamo tranquillamente chiamare col suo nome, per quanto adesso ci sembri sorprendente: diventano un’ élite. [10]

Ed è proprio in virtù della nascita di questo scarto di potenzialità, e realizzantesi rapporto di dominio, che la scuola ha l’obbligo morale (richiamandosi in fondo allo spirito della nostra stessa Costituzione) di farsi carico di un onere difficile: inseguire il cambiamento e fornire alle nuove generazioni strumenti culturali sufficientemente solidi da sorreggere le nuove strutture per la costruzione di senso e di identità. L’alternativa, vede bene Baricco, è che nella consapevolezza dell’essere immersi in un gioco in cui si perde sempre, possa insinuarsi grado a grado una pulsione regressiva, verso la società rigida, lineare, discriminatoria, dalla quale siamo usciti in modo piuttosto rocambolesco. È il peggiore passatismo identitario, che sta risorgendo in Europa e negli Stati Uniti.

Soltanto chi possiede una solida cultura di base, con forti categorie interpretative, sarebbe forse in grado di muoversi nell’infinita messe di informazioni che alimentano la Rete, senza necessità di una guida costante per discriminare e ordinare quanto si apprende. Se questo è vero bisogna capire se la cultura scolastica della nostra tradizione è – da sola e per tutte le classi sociali – in grado di sostenere lo studente nel processo di costruzione della propria struttura interpretativa del mondo, oppure se – coi suoi metodi e linguaggi – rischia di essere marginalizzata nell’orizzonte di senso degli adolescenti. Credo che la struttura forte non appartenga alla sfera dell’apprendimento, perché ne deve essere l’esito. Se l’allievo possedesse una struttura culturale robusta, non avrebbe bisogno della scuola. Quella della profondità, dunque, è una prerogativa che deve senz’altro caratterizzare il momento della progettazione didattica. Alcune formule di insegnamento maggiormente consonanti con le più recenti evoluzioni cognitive, si fondano sul principio del micro-learning, cioè la segmentazione delle unità d’apprendimento in brevi e controllabili momenti d’apprendimento. Ma è evidente che un simile approccio può funzionare soltanto se la programmazione è assai complessa e ben strutturata. Come nelle applicazioni dei nostri smartphone alcuni semplici movimenti sottintendono software estremamente sofisticati, allo stesso modo il momento didattico dovrebbe avere un’intuitività estrinseca sovrapposta a una programmazione ampia e meditata. È il processo della “semplessità” attraverso cui si trasferisce una proprietà tipica delle innovazioni digitali, e tra le più penetranti nei nostri sistemi di pensiero, anche nella prassi didattica ordinaria.

Allora la questione cruciale concerne l’individuazione e lo studio di quelli che vengono chiamati “aggregatori”, cioè software complessi, piattaforme o semplici applicazioni, che favoriscono un lavoro sistematico su criteri e processi di aggregazione e gerarchizzazione delle informazioni. Senza dimenticare che in quell’organizzare, nasce e vive poi l’ermeneutica, l’attribuzione di significato.

Non è vero dunque, come talvolta si asserisce semplificando eccessivamente il tema, che l’insegnante debba superare il ruolo del “trasmissore” di contenuti, per mutarsi in tutor. Certamente il protagonismo nello studente nella costruzione delle proprie letture e aggregazioni concettuali va stimolato, ma l’insegnante deve in primo luogo offrire dei modelli, deve “aggregare” in prima persona, sollecitando però processi di sistematizzazione divergenti.
NOTE

[1] N. Hartmann, Das Problem des geistigen Seins, tr. it. di A. Marini, Il problema dell’essere spirituale, La Nuova Italia, Firenze 1971

[2] Per un approfondimento della questione rinvio a: C. Scognamiglio, Ontologia dei processi di trasformazione e di produzione. Saggio su Nicolai Hartmann, «Il Cannocchiale», 2007, 1; C. Scognamiglio, History and Tradition in Nicolai Hartmann’s Theory of Spiritual Being, in G. Hartung – M. Wunsch (Hrsg.v.), Von der Systemphilosophie zur Systematischen Philosophie – Nicolai Hartmann, De Gruyter, Berlin 2012, pp. 317-330

[3] A. Baricco, The Game, Einaudi, Torino 2018.

[4] A. Baricco, The Game, cit., p. 222.

[5] L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Cortina, Milano 2017.

[6] A. Marinelli, G. Celata, La televisione al tempo di internet, Guerini e Associati, Milano 2012, p. 31.

[7] Cfr. P.C. Rivoltella, P.G. Rossi, Tecnologie e didattica nella società informazionale. Una cornice concettuale, in Id., Tecnologie per l’educazione, Pearson, Milano-Torino 2019, pp. 1-20.

[8] G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari 1994.

[9] P. G. Rossi, La didattica al tempo del digitale, in P.C. Rivoltella-P.G. Rossi (a cura di), Tecnologie per l’educazione, cit., pp. 21-32: 27.

[10] A. Baricco, The Game, cit., p. 168.

(9 settembre 2019)


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