Gli interessi della Cina in Africa e le conseguenze sulla pandemia

Federico Bonadonna

Lo stretto legame tra la potenza economica asiatica e il continente più ricco di risorse naturali ha mostrato tutte le sue contraddizioni negli ultimi mesi. Il direttore generale dell’Oms, l’etiope Adhanom Ghebreyesus si è schierato immediatamente in difesa della gestione cinese dell’emergenza sanitaria. Il motivo è da ricercare negli interessi di Pechino nel continente africano.

In occasione della pandemia di Covid 19 è tornato prepotentemente alla ribalta lo stretto legame tra Cina e Africa, palesatosi con le lodi che il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha immediatamente tributato all’opaca risposta cinese all’emergenza sanitaria, cui Trump, per ritorsione, ha risposto bloccando i finanziamenti degli Stati Uniti all’agenzia Onu, estendendo così il conflitto ormai aperto con Pechino.

Per raccontare l’origine di questa storia dobbiamo però fare un passo indietro e partire da un paese, l’Etiopia, e dal leader che forse più di tutti ha creato i presupposti per la penetrazione cinese nel continente africano: Meles Zenawi.

La Cina penetra in Africa, passando per l’Etiopia

Capo partigiano contro il dittatore Mènghistu Hailé Mariàm, all’inizio degli anni Novanta, Zenawi diventa prima presidente della Repubblica, nel 1991, e poi premier, nel 1995, vincendo le prime elezioni democratiche della storia del paese con la coalizione da lui guidata, l’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front. Ruolo che ricoprirà fino alla sua prematura scomparsa, nel 2012.

Di formazione marxista-leninista, passa nell’arco della sua vita dal comunismo al liberalismo della Terza Via, all’alleanza con la Cina, guadagnandosi la definizione di «nuovo Elvis della politica etiopica» (dopo Mènghistu)[1]. Bill Clinton lo descrive come «il rappresentante più significativo della nuova generazione di leader africani post-guerra fredda»[2]. Tony Blair lo coinvolge nella Commission for Africa con l’obiettivo di raggruppare donatori internazionali a sostegno dell’Etiopia[3].

Zenawi si impone sulla scena internazionale in un lasso di tempo molto breve e per di più combattendo ben tre guerre (una contro l’Eritrea e due contro la Somalia). E da fine uomo politico qual è capisce presto cosa la povera Etiopia ha da offrire al ricco Occidente: sicurezza nel Corno d’Africa, terre fertili in cambio di moneta pregiata con cui finanziare lo sviluppo interno e un leader lungimirante alla testa dell’Unione africana.

Sono i fondi cinesi, però, a permettere a Zenawi di mantenere le distanze da quell’Occidente che preme affinché l’Etiopia realizzi riforme democratiche a tutela dei diritti umani. La sua capacità di giocare contemporaneamente su fronti quasi contrapposti, Usa e Ue da una parte, Cina e India dall’altra, è fondamentale per la nostra tesi: la risorsa più importante dell’Etiopia è stata la visione e la capacità politica di questo leader che ha trasformato Addis Abeba nella Bruxelles d’Africa, una città vetrina-politico-diplomatica, sede permanente dell’Unione africana, da cui manovrare le leve dei finanziamenti internazionali con l’obiettivo di orientare il paese al «culto dello sviluppo» per trasformarlo radicalmente.

Il fallimento degli aiuti occidentali in Africa

L’aiuto occidentale all’Africa post-coloniale tra il 1960 e il 2000 è stato stimato in 400 miliardi di dollari, ma oltre a non sortire gli effetti desiderati, questi aiuti non hanno determinato incrementi degli investimenti di capitali stranieri e l’unico, controproducente, risultato è stato quello di accrescere il debito pubblico dei paesi interessati dai finanziamenti (in realtà, il debito dei paesi africani aveva iniziato ad accumularsi sin dai primi anni Settanta).

Negli anni Novanta, poi, i paesi occidentali fanno una virata vertiginosa, obbligando l’Africa a sottostare a nuove, rigide, condizioni[4] con una conseguente perdita di autonomia che viene interpretata come un nuovo tipo di sovranità limitata di poco successiva alla decolonizzazione.

Così, alla fine di quel decennio, anche a causa degli aiuti vincolati delle istituzioni finanziarie occidentali, il debito pubblico di molti paesi africani esplode. I paesi del G8, su pressione di Tony Blair, lanciano la New Partnership for Africa’s Development che, nella retorica dell’epoca, avrebbe dovuto determinare la «rinascita africana», con un’impronta paternalista che si ricollegava alla ancora più nefasta retorica coloniale e a ben altro fardello. Un errore politico, questo, che offre il fianco alla contro-retorica anti-occidentale di matrice cino-africana che avanzava davanti agli occhi dell’Occidente incapace di capire. I leader del G8 non mantengono però gli impegni a incrementare l’assistenza per lo sviluppo e così, alla fine del millennio, a gridare lo slogan «Drop The Debt» resta solo lo star system con Bono, Youssou N’Dour e Robbie Williams (Jovanotti rivolge l’appello «Cancella il debito» all’allora presidente del consiglio Massimo D’Alema in occasione del Festival di Sanremo del 2000, tra le polemiche).

In quegli stessi anni, mentre Ue e Usa chiedono all’Africa di spalancare le porte alla globalizzazione univoca (leggasi occidentale), la Cina – bisognosa di risorse – punta invece sullo scambio alla pari.

Tra i tanti casi che si potrebbero citare famoso è quello della Guinea, che possiede la maggiore riserva mondiale di bauxite (venti milioni di tonnellate l’anno) da cui si ricava l’alluminio per le lattine delle bibite, gli hard disk, le carrozzerie delle automobili. Una ricchezza dalla cui esportazione, però, gli abitanti della Guinea non ricavano nulla, perché il minerale è esportato senza essere trasformato, dunque senza creare lavoro, valore aggiunto ed entrate fiscali significative. Se i giganti minerari come Alcoa e Alcan si sono trincerati dietro l’assenza dell’elettricità necessaria per le operazioni di raffinazione e l’Ue ha tagliato gli aiuti a causa del malgoverno e della mancanza di democrazia (trattenendo nelle casse di Bruxelles 232 milioni di euro)[5], grazie ai fondi cinesi è stata invece scavata una nuova miniera e sono state costruite una diga, una centrale idroelettrica, una ferrovia e una raffineria. Gli africani rimborsano i cinesi in materie prime come la bauxite con il tipico scambio win win dove tutti vincono, come recita il verbo del prestito cinese.

Dal Washington al Beijing consensus

Secondo Serge Michel e Michel Beuret «la presenza cinese in Africa non è solo una parabola della globalizzazione, è piuttosto il suo compimento, un sovvertimento degli equilibri internazionali, un terremoto geopolitico»[6].

Il cambio di paradigma cinese avviene nel 1978 con le riforme di Deng Xiaoping, il quale adotta il «socialismo di mercato» in luogo della pianificazione centralizzata, anche se è solo nel 2000 che, nell’indifferenza occidentale, nasce il Forum on China-Africa Cooperation. Nel primo incontro, a Pechino, alla presenza di 80 ministri provenienti da 44 Stati africani, vengono prese
ntati i cinque princìpi fondamentali del Forum: rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale; patto di non aggressione; non ingerenza negli affari interni; coesistenza pacifica; uguaglianza e reciproco vantaggio. Una rivoluzione.

L’allora presidente Jiang Zemin apre i lavori dichiarando: «La Cina è il più grande dei paesi in via di sviluppo del mondo, mentre il continente africano raggruppa il maggior numero di questi paesi»[7].

L’agenda comune tra Africa e Cina per lo sviluppo economico, nonché la condivisione di una serie di valori, tra cui il rifiuto della democrazia come precondizione per lo sviluppo e come forma ideale di governo, e un’analisi condivisa della situazione geopolitica mondiale costituiscono le solide fondamenta per una proficua cooperazione in aree cruciali come il commercio e gli investimenti, i progetti infrastrutturali, la cancellazione del debito, i flussi migratori e il coordinamento delle decisioni politiche nelle istituzioni multilaterali come l’Onu e l’Organizzazione mondiale del commercio.

L’agenda del Forum ben riassume gli obiettivi della politica estera del Partito comunista cinese e testimonia la volontà di stabilire un nuovo paradigma politico-economico per regolare le relazioni internazionali, quello che Joshua Ramo ha definito il «Beijing consensus» in riferimento, e opposizione, al famoso paradigma neoliberista del «Washington consensus»[8].

Zenawi e la carta cinese

L’Etiopia è allora tormentata da una crisi finanziaria tremenda, con un’inflazione fuori controllo, dalle conseguenze della guerra con l’Eritrea e dalla pressione occidentale che spinge per liberalizzazioni, privatizzazioni e smantellamento del potere statale. Il crollo di Meles Zenawi sembra imminente quando, dopo un decennio di successi politici, alle elezioni comunali del 2005, l’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front subisce il primo arresto elettorale e la gente scende in piazza per chiedere più democrazia. Zenawi proibisce le manifestazioni e assume il controllo di polizia ed esercito. Ad Addis Abeba esplodono le proteste. Zenawi fa arrestare i leader dell’opposizione e reprime il dissenso in un bagno di sangue. L’Ue minaccia di togliere il sostegno finanziario a quello che è un paese completamente dipendente dagli aiuti esteri. Zenawi fa votare un documento in cui il parlamento rifiuta la democrazia liberale dichiarandola inadatta all’arretratezza dell’Etiopia e introduce la «democrazia rivoluzionaria» sul modello autoritario cinese. È in questo clima infuocato che si fa spazio il nuovo ministro della salute Tedros Adhanom Ghebreyesus, futuro direttore generale dell’Oms.

Nel 2006, in Cina si svolge il terzo vertice del Forum on China-Africa Cooperation (che rappresenta due miliardi di persone, un terzo della popolazione mondiale). Il China Daily fornisce i dettagli degli scambi tra Cina e Africa, passati dai 12,3 miliardi di dollari del 2002 ai 55 miliardi del 2006[9]. Davanti a quelle cifre, l’Occidente si sveglia, anche se ormai è troppo tardi.

Sei mesi dopo i fatti di sangue di Addis Abeba, Zenawi siede alla destra di Hu Jintao come vicepresidente del Forum. Nella cerimonia di inaugurazione il presidente cinese dice: «In questi anni, la Cina ha saldamente sostenuto l’Africa nel raggiungimento della liberazione dal colonialismo e nella ricerca dello sviluppo […]. Ha realizzato infrastrutture e inviato in Africa équipe mediche e peacekeeper […]. Il nostro incontro di oggi resterà nella storia; noi, leader della Cina e dei paesi africani, nella comune ricerca di amicizia, pace, cooperazione e sviluppo, siamo oggi riuniti a Pechino per rinnovare tale amicizia, discutere delle modalità per stringere ulteriormente le relazioni tra Africa e Cina e promuovere l’unità e la cooperazione tra paesi in via di sviluppo»[10].

È l’intervento di Zenawi a elettrizzare però il mondo e a spalancare definitivamente le porte dell’Africa alla Cina: «Dobbiamo ancora conquistare l’indipendenza economica e la Cina ci aiuterà perché è un modello consolidato di sviluppo. In cambio del suo aiuto, l’Africa fornirà tutte le risorse energetiche e minerarie di cui ha bisogno»[11]. Tanti restano impressionati dal discorso di Zenawi, in cui riecheggia la partitura della conferenza di Bandung del 1955, momento storico in cui il Sud alzava la testa ponendo le basi del movimento dei paesi non allineati.

Al termine dei lavori, Jintao, Zenawi e Mubarak si accordano per un progetto di riforma dell’Onu teso a una maggiore rappresentanza e piena partecipazione dei paesi africani in seno al Consiglio di sicurezza, ricordando che il Sud del mondo è maggioritario nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e che per migliorare la democrazia planetaria deve occupare il posto che gli spetta.

Gli obiettivi della Cina in Africa

Analizzando i risultati negli ultimi vent’anni di cooperazione con l’Africa si possono individuare tre aree di interesse principale per la Cina: l’acquisizione di materie prime, l’apertura di mercati emergenti e il supporto africano nelle istituzioni internazionali[12].

Per quanto riguarda le materie prime, la Cina riceve dall’Africa più del 30 per cento del suo intero volume di importazione di petrolio, oltre a rame, uranio, coltan, oro, argento, platino e legname. Per la leadership cinese, sensibile all’ideologia maoista dell’autosufficienza, è fondamentale poter contare su una disponibilità energetica (e alimentare) continua, cioè in quantità sufficiente a un prezzo accessibile. La Cina non può permettersi una crisi energetica per ragioni economiche e di politica interna: secondo Marc Lanteigne «una brusca frenata dell’economia cinese farebbe esplodere tutte le contraddizioni sociali del paese e metterebbe in discussione la legittimità stessa del Pcc»[13]. Il Partito comunista ha infatti fondato la propria legittimità sul nazionalismo e sulla capacità di assicurare una continua e crescente prosperità materiale.

La seconda ragione che spinge la Cina in Africa è la potenzialità rappresentata dall’apertura di nuovi mercati per assorbire la sovrapproduzione del sistema economico cinese: se ci concentriamo sul petrolio, sfuggirà l’elemento essenziale di quel che i cinesi stanno facendo in Africa dove hanno investito in settori chiave, come le infrastrutture, le telecomunicazioni, il tessile, il turismo, l’industria agro-alimentare. Senza dimenticare la possibilità di aggirare la politica restrittiva delle quote commerciali. Siccome l’Occidente limita le importazioni di merci dalla Cina, gli imprenditori cinesi aprono fabbriche in Africa usando materiali e macchinari cinesi, ma personale locale: i vestiti sono ufficialmente «made in Africa» così è più facile vendere negli Usa e nella Ue.

La terza ragione è la ricerca di alleanze diplomatiche. L’importanza strategica dell’Africa sta nel suo vantaggio numerico quale più grande singolo raggruppamento di Stati (54) e nella tendenza a votare in blocco in contesti multilaterali come l’Onu e le sue agenzie. I voti africani si sono rivelati essenziali per Pechino in tante occasioni. Per esempio sono serviti a bloccare l’adesione di Taiwan all&rsqu
o;Organizzazione mondiale della sanità[14] oppure a bocciare la proposta di condanna della Cina per violazione dei diritti umani presso la relativa Commissione Onu[15]. Inoltre, il peso politico dei paesi africani è stato determinante nell’assegnazione delle Olimpiadi del 2008 a Pechino e dell’Expo 2010 a Shangai. È su questo terreno che si è mosso abilmente Meles Zenawi.

La “diplomazia simbolica” della Exim Bank

Le principali istituzioni cinesi coinvolte nell’assistenza e nei progetti di cooperazione sono il ministero del Commercio, quello degli Affari Esteri e le principali banche di Stato, la China Development Bank e la China Export-Import Bank, uno dei più importanti istituti finanziari del mondo che vanta riserve finanziarie 30 volte più grandi di quelle dei suoi diretti competitor, che gestisce la quasi totalità dei prestiti erogati nei paesi in via di sviluppo ed è diventata la più grande fonte di prestiti e finanziamenti per l’Africa sorpassando addirittura la Banca mondiale.

La «natura politica» della China Export-Import Bank (Exim Bank) consente di perseguire una forma di «diplomazia simbolica» attraverso il finanziamento di progetti prestigiosi quali edifici di pubblica utilità, stadi, monumenti e residenze faraoniche. Esempio di questa diplomazia simbolica è la nuova sede dell’Unione africana ad Addis Abeba. Costato 125 milioni di euro e poco meno di due anni di lavoro, cemento e tecnologia tutta cinese, dal 2012 l’edificio ha preso il posto di quello commissionato da Hailé Selassié nel 1958.

Exim Bank è lo strumento che ha consentito a Zenawi di liberarsi dal condizionamento occidentale. Dal 2005, cioè da quando ha accantonato il timido progetto democratico per l’Etiopia preferendo la via autoritaria, Zenawi ha inaugurato la stagione della costruzione di enormi dighe nel solco della geografia «idro-rivoluzionaria» del dittatore spagnolo Francisco Franco[16]. Per trasformare l’Etiopia nel polo regionale per l’esportazione di energia idroelettrica, Zenawi ha lanciato il progetto della «Grand Ethiopian Renaissance Dam», la diga sul Nilo Azzurro costruita da Salini-Impregilo. Per la sua realizzazione il governo ha lanciato un prestito obbligazionario da tre miliardi di dollari, ma senza l’anticipo dell’80 per cento del finanziamento da parte della Exim l’operazione sarebbe stata impossibile (anche se tutte le turbine della diga, per un valore di un miliardo e 700 milioni, sono made in China).

E così Zenawi ha rilanciato l’antico nazionalismo convincendo gli etiopici, cioè tra i contribuenti più poveri del pianeta, a un’auto-tassazione feroce per finanziare lo sviluppo.

Conclusioni

«La maggior parte dei governi occidentali stringe legami politici, la Cina invece non utilizza alcun legame politico e il nostro aiuto non è mai condizionato: noi non diciamo mai “se forniamo questo, si farà questo”». Sono parole dell’ambasciatore cinese in Etiopia[17]. Tipico esempio di non interferenza è il caso di Robert Mugabe, «paria in Occidente». Il direttore generale dell’Oms è stato molto criticato perché, nell’ottobre del 2017, ha scelto Mugabe come «ambasciatore di buona volontà» per la lotta contro le malattie non contagiose in Africa. Peccato che, come scrive Dambisa Moyo, «oltre alla Cina, sia Stati Uniti sia Regno Unito hanno avuto rapporti diplomatici con lo Zimbabwe e ancora nel 2006 i donatori avevano offerto un pacchetto di aiuti combinati di 300 milioni di dollari»[18].

Nella sua seconda fase, il regime di Zenawi ha preso ad assomigliare sempre di più a quello cinese, anche per la difficoltà di «distinguere tra Stato e partito e viceversa» come sottolinea Human Rights Watch. È il developmental authoritarianism. Durante le elezioni del 2010, con il paese ormai sotto il suo controllo e dopo aver condotto una campagna elettorale all’insegna dell’intimidazione contro l’opposizione, Zenawi dichiarerà: «Non accetteremo critiche. Se mai i donatori occidentali decideranno di andarsene, noi li ringrazieremo per quello che hanno fatto finora, ma non ci faremo mai dettare la linea da presunti amici»[19].

Il suo capolavoro politico è stato riuscire a offrire risposte alle esigenze di ogni partner internazionale: la Cina e l’Europa per gli investimenti, gli Stati Uniti per la sicurezza. L’Etiopia ha infatti una funzione di equilibrio rispetto a Eritrea, Sudan e Sud Sudan e di contrasto dell’islam radicale in Somalia e Kenya, tanto che nel 2008 la comunità internazionale ha donato all’Etiopia tre miliardi di dollari di aiuti umanitari, la cifra più alta per un paese dell’Africa sub sahariana.

Zenawi muore improvvisamente nel 2012, a soli 54 anni. Il successore – da lui già designato – è Hailemariam Desalegn, il nuovo ministro degli Esteri è Tedros Adhanom Ghebreyesus. Addis Abeba è già la città-vetrina politico-diplomatica dell’Africa.

NOTE


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[1] D. L. Donham, Marxism Modern. An Etnographic History of the Ethiopian Revolution, University of California Press, Berkeley 1999, p. 182. Con la definizione di «nuovo Elvis» penso che Donham abbia voluto tracciare un parallelo tra l’agilità, la leggerezza politica, il twist, di Menghistu nel passare da una generica avversione all’imperatore Hailé Salassie al comunismo sovietico e l’analogo approccio di Zenawi, passato da Marx a Tony Blair (e poi a Xi Jinping, ma di questo, quel volume uscito nel 1999, non poteva dare conto).

[2] S. Liberti, Land Grabbing, Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo, minimum fax, Roma 2011, p. 33.

[3] Il rapporto conclusivo della Commissione è stato redatto dallo stesso Zenawi e dal premio Nobel Joseph Stigliz il quale ricorda quando Zenawi, in contrasto con la posizione del Fmi sugli aiuti internazionali, gli disse: «Non ho combattuto per diciassette anni per farmi dettare la linea da qualche burocrate internazionale che vorrebbe impedirmi di costruire scuole e ospedali per il popolo, dopo che ho convinto i donatori a darmi soldi proprio per fare questo». In P. Gill, Famine & foreigners. Ethiopia since live aid, Oxford University Press, Oxford 2010, p. 81.

[4] Il nuovo corso neo-liberista dei primi anni Novanta conquistò le istituzioni finanziarie internazionali che iniziarono a legare la concessione di finanziamenti ai paesi africani alla realizzazione di progetti infrastrutturali da attuare con i proventi degli investimenti nel campo estrattivo: progetti stabiliti dalle stesse istituzioni finanziarie internazionali e da eseguire secondo il loro metodo. Questo genere di «aiuti vincolati» al raggiungimento di determinati risultati e legati al comportamento delle istituzioni dei paesi riceventi furono introdotti per un «senso di inquietudine all’interno delle istituzioni finanziarie internazionali per gli scarsissimi risultati ottenuti dai programmi tradizionali di “adeguamento strutturale”, di “ripresa economica” o di “riduzione della povertà” che sin dalla metà degli anni Ottanta molti paesi africani furono costretti ad adottare»; S. Gardelli, L’Africa cinese. Gli interessi asiatici nel Continente Nero, Università Bocconi Editore, Milano 2009, p. 26.

[5] S. Michel e S. Beuret, Cinafrica. Pechino alla conquista del continente nero, Il Saggiatore, Milano 2009, p. 14.

[6] Ivi, p. 23

[7] Ivi, p. 21

[8] Espressione coniata nel 1989 dall’economista J. Williamson per indicare l’insieme di politiche economiche condivise in particolare da Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti (tutte istituzioni con sede a Washington), volte a ricreare all’interno delle economie meno industrializzate le condizioni favorevoli per ottenere nel breve termine stabilità e crescita economica.

[9] S. Michel e S. Beuret, op. cit., p. 20.

[10] D. Moyo, La carità che uccide, Rizzoli, Milano 2010, p. 164.

[11] S. Michel e S. Beuret, op. cit., p. 25.

[12] «Per il Pcc, chiunque sia al potere è un alleato della Cina fintanto che garantisce l’accesso alle proprie risorse naturali e ai propri mercati». S. Gardelli, L’Africa cinese. Gli interessi asiatici nel Continente Nero, Università Bocconi Editore, Milano 2009.

[13] M. Lanteigne, The Chinese Party State in the XXI Century: adaptation and the reinvention of legittimacy, Routhledge, London 2008, p. 162.

[14] La Repubblica popolare cinese considera l’isola di Taiwan parte del proprio territorio. Taiwan non è riconosciuta da Usa, Russia, Uk, Canada e dagli Stati Ue perché qualsiasi stato stabilisca relazioni con Pechino accetta il principio per cui esiste «una sola Cina», non due. La questione di Taiwan è una prova della capacità della Rpc di imporre la propria agenda sulla scena internazionale. «I paesi africani rappresentano oltre un quarto degli Stati membri delle Nazioni Unite. […] L’Africa ha svolto un ruolo importante nella lotta diplomatica tra la Rpc e la Repubblica cinese nelle Nazioni Unite. I paesi africani garantirono 26 dei 76 voti totali a sostegno della Rpc che servirono a togliere il seggio a Taiwan nel 1971, il che portò Mao Zedong a sostenere "sono i nostri fratelli africani che ci hanno portato all’Onu"»; L. Hanauer, L. J. Morris, Chinese Engagement in Africa: Drivers, Reactions, and Implications for U.S. Policy, p. 6, bit.ly/315T1wG.

[15] «I voti africani nelle Nazioni Unite hanno anche la funzione di proteggere Pechino dalle critiche alle sue politiche sui diritti umani. Le proposte delle nazioni occidentali di censurare la Cina al Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani per i suoi precedenti in materia sono fallite in numerose occasioni a causa del sostegno dei paesi africani»; ibidem.

[16] L’epilogo di Zenawi non è stato come quello di Mussolini. Semmai ricorda più quello del caudillo Francisco Franco morto nel suo letto. Ivan Cuesta-Fernandez, PhD in African Studies, sostiene che, con le infrastrutture che si stanno diffondendo in tutta l’Etiopia, la propaganda di regime trova un terreno particolarmente fertile. La mobilitazione politica sul tema delle infrastrutture ha raggiunto vette supreme con quello che Cuesta Fernandez definisce «il mammut», ovvero la Grand Ethiopian Renaissance Dam, il più grande complesso idroelettrico dell’Africa. Un vero e proprio monumento – reale e simbolico – che Zenawi in prima persona intese erigere al concetto di sviluppo, perché la sua propaganda per il cambiamento era fatta di cemento e sogni, un cuneo immaginario e concreto che doveva entrare nelle coscienze di tutti gli etiopici. La diga del millennio è il fenomeno macroscopico su cui si fonda la comparazione tra Franco e Zenawi. I. Cuesta-Fernandez, «¿Por qué Etiopía puede permitirse exportar electricidad (y Ghana no)?», Economía Exterior, n. 67, 2013-2014.

[17] P. Gill, op. cit., p. 249.

[18] D. Moyo, op. cit., p. 70.

[19] S. Liberti, op. cit., p. 34.

(6 luglio 2020)




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