Ha vinto il pre-fascismo. E non sarà il Pd a fermarlo

Paolo Flores d’Arcais



Ha vinto il pre-fascismo. Salvini e Meloni (34,26+6,45) superano da soli, la percentuale che con l’attuale legge elettorale per le politiche garantisce con altissima probabilità la maggioranza assoluta. Del resto, possono imbarcare anche ciò che si decomporrà di Forza Italia, con Berlusconi totem inoffensivo. Avranno i numeri per cambiare la Costituzione (repubblicana antifascista) che detestano. Potranno dilagare nella Corte Costituzionale e nel Csm, asservendo la magistratura.

Il pre-fascismo non è il fascismo, ovviamente, e potrebbe non diventarlo. Ma ne contiene già tutti gli ingredienti costitutivi, razzismo, sciovinismo, clericalismo, rapporto diretto viscerale acritico subordinato Capo/popolo (Capo, in latino Dux, in tedesco Führer), disprezzo per le minoranze, medioevo per i diritti civili, subalternità delle donne, odio per gli intellettuali … La cecità di editorialisti e politologi si ostina a non vedere il repentaglio.

Salvini con il voto di domenica è il mazziere del gioco, il padrone che dà le carte. Può decidere se andare subito alle elezioni o se gli convenga ancora l’alleanza con un M5S tappetino, su cui scaricare magari lo scontento per l’inevitabile finanziaria.

Era tutto scritto. Lo avevamo scritto, del resto, perché non era necessario essere Nostradamus. Il 6 marzo 2018, a risultati appena noti, scrivevamo che un governo con Salvini “per il Movimento 5 stelle sarebbe investire la vittoria in titoli tossici e preparare l’harakiri. Salvini diventerebbe il vero protagonista, per la coerenza con cui vellica l’intero armamentario di pregiudizi, capri espiatori, spurghi emotivi del cittadino malpensante, anche razzista, ma con rosario e crocefisso”. E il 23 aprile insistevamo che “se fosse andato in porto il governo Di Maio/Salvini, con quest’ultimo ministro dell’Interno e caccia ai migranti, sarebbe stata la coerenza lepenista del secondo a tenere banco e imprinting del governo presso gli elettori”.

L’11 maggio, su “La Stampa” definivo “abbastanza abominevole” il nascente governo (“abbastanza” era ironico), e il 1 giugno radicalizzavo il giudizio esaminando uno per uno i ministri leghisti (e più d’uno dei 5S). Il 1 gennaio 2019, nel “Buon Anno” ai lettori scrivevo: “Il 2019 sarà peggiore. Al governo Salvini succederà il governo Salvini 2. Per elezioni anticipate o per transumanze parlamentari. Immediatamente prima o immediatamente dopo le elezioni europee. Un governo senza il M5S, con le frantumaglie delle destre berlusconiane e meloniane. Oppure, perfino peggio, ancora con il M5S, ridotto da partner subalterno, qual è oggi, a puro zerbino, alibi dove pulirsi gli stivali del prefascismo”.

Perché ciò che era lapalissiano non lo si è voluto vedere? Perché ci si è resi ciechi di fronte al fatto che decenni di spaventosa crescita delle diseguaglianze, di sfrenato liberismo, dove “arricchitevi!” e “guai ai vinti!” sono due facce della stessa politica, avrebbe potuto avere due soli sbocchi: una politica di radicale redistribuzione in direzione egualitaria, attraverso tassazione superprogressiva e politiche di welfare spinto, oppure una politica dei capri espiatori, dei penultimi messi in conflitto con gli ultimi e risarciti con il privilegio di cartapesta delle identità vicarie (“prima gli italiani”, “migranti a casa loro”, “spara a casa tua”).

Le sinistre hanno smesso di essere i partiti dell’eguaglianza, fino a dimenticare la parola stessa e trovarla fastidiosa e financo sudicia. Del resto erano ormai ceto politico, “Casta” o “minicaste” autoreferenziali, strutturalmente parte del privilegio.

Il M5S ha presunto che si potesse essere “oltre” rispetto a destra e sinistra. Vero, se con questi termini si intendevano le forze politiche organizzate, tragicamente falso se riferito ai valori culturali e agli interessi materiali. Perciò è finito in un magma (un blog!) indistinto, fino all’indifferenza e alla collusione con l’ostilità propria della Lega, sui valori di fondo: laicità, diritti civili, eguaglianza delle donne, amore per la scienza e la cultura … Perciò il suo prevedibile e previsto harakiri (e mettiamoci l’assurdità della selezione dei loro dirigenti, per reality anziché per lotte e capacità, su cui abbiamo scritto ennesime volte).

Immaginare che un argine (parlare di alternativa è oltre il ridicolo) all’attuale dominio pre-fascista possa venire dal Pd di Zingaretti è l’ultima, e forse più pericolosa, illusione. In secondo luogo, rispetto a un anno fa, il Pd ha perso 111.545 voti. L’aumento in percentuale è solo perché meno elettori in generale si sono recati alle urne. In primo luogo, il Pd è alla radice dei problemi che hanno portato all’attuale catastrofe: il Pci aveva gravissimi difetti e tare, da Togliatti a Berlinguer, ma la metamorfosi Pci>Pds>Ds>Pd, per cui una forza di sinistra è diventata una forza della destra perbenista e benpensante (chiamiamoli col loro nome, basta parlare per il Pd di sinistra) è la causa prima e cruciale di quanto avvenuto negli ultimi trent’anni.

L’argine, la resistenza, l’alternativa, potranno perciò venire solo dalla nascita di una forza coerentemente “giustizia e libertà”. Che rispetto alle “sinistre” degli ultimi decenni, però, anche “estreme”, sia libera da ogni tentazione del multiculturalismo e del politically correct (comprese alcune versioni di ideologie femministe reazionarie), che sia antipartitocratica e contro gli attuali establishment, che sia per la scienza. Egualitaria, illuminista, laicissima.

Come possa nascere non è prevedibile, che esista in forma dispersa nel paese è probabilissimo. Ma dispersa, appunto, elettoralmente invisibile perché quasi tutta rifugiata nel non voto. A farla nascere potrà essere solo un catalizzatore oggi imponderabile, ma il brodo di coltura in cui si produca il big bang dobbiamo lavorare ad incrementarlo e arricchirlo ogni giorno, ciascuno nella sfera d’azione che riuscirà a crearsi. Qualche ipotesi in una riflessione successiva.

(28 maggio 2019)






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