Hijab, così il Museo Egizio alimenta gli stereotipi

MicroMega

Il Museo Egizio risponde alla di MicroMega al suo direttore, spiegando che la scelta di utilizzare sul manifesto della campagna per gli arabi residenti a Torino una “coppia in cui la donna è velata” è dovuta alla necessità di individuare una immagine “iconica” del target della campagna. Una decisione che non fa che alimentare, anziché contribuire a disinnescarlo, lo stereotipo che schiaccia il mondo arabo sull’islam.

Buongiorno,
La ringraziamo per la sua che ci offre l’occasione di motivare la nostra scelta.
La campagna “Fortunato chi parla arabo” è stata realizzata in collaborazione con Etnocom, un’agenzia specializzata in comunicazione etnica a cui abbiamo affidato un’analisi del target prima di definire la costruzione del messaggio e dell’immagine promozionale.
Ciò che si evince dalle rilevazioni è che oggi in Italia risiedono regolarmente circa 650.000 persone provenienti dal Maghreb, considerando Egitto, Marocco, Algeria e Tunisia; anche questi target della nostra campagna.
Ci siamo primariamente rivolti agli arabofoni risiedenti a Torino e Provincia ma con i canali web abbiamo naturalmente allargato i destinatari della campagna.
Di questo potenziale target più del 95% è di fede e di cultura islamica/musulmana: dovendo raffigurare la famiglia tipo araba residente in Italia, è emersa la necessità di fare una rappresentazione comune nella quale questo 95% di target potenziale si potesse identificare.
Siamo d’accordo che non tutte le donne musulmane indossano il hijab, ma dovendo scegliere un’immagine iconica e soprattutto riferita allo specifico target della nostra campagna abbiamo scelto una coppia in cui la donna è velata.
Dal punto vista culturale, comunque il hijab (anche per i non praticanti e che quindi non lo indossano), è un elemento chiaro che riconduce alla cultura araba e quindi arabofona.
Ringraziandola per l’attenzione e per le belle parole che ci ha scritto, Le porgiamo i nostri migliori saluti.

Paola Matossi L’Orsa
Responsabile dell’Ufficio Comunicazione & Marketing e Relazioni Esterne del Museo Egizio

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La risposta del Museo Egizio di Torino non fa che confermare il timore che avanzavo nella mia al direttore: “dovendo scegliere un’immagine iconica” del target della campagna – che, lo ribadiamo, non sono i musulmani ma gli “arabofoni risiedenti a Torino e provincia” – è stato scelto un simbolo religioso straordinariamente carico di significato e fortemente legato all’islam (soprattutto quello più conservatore), sia nella realtà sia nell’immaginario collettivo (che è quello che gioca un ruolo centrale nella scelta delle immagini in una campagna pubblicitaria), non solo dunque accettando passivamente ma alimentando lo stereotipo che schiaccia l’“arabo” sul musulmano. Anzi, meglio, l’“araba” sulla musulmana: si è infatti scelta, spiega la responsabile comunicazione del Museo, “una coppia in cui la donna è velata”, affidando sostanzialmente proprio al velo il compito di individuare il target, mentre l’uomo ritratto nel manifesto è completamente privo di qualunque segno che lo riconduca alla cultura araba nello specifico, a meno di non voler considerare tali i tratti somatici vagamente mediterranei.

Quella del Museo è stata una pigra “scorciatoia”, dettata da un’agenzia di comunicazione che ha assunto acriticamente uno stereotipo e lo ha applicato senza porsi il problema in senso lato “politico” che questa scelta – come ogni scelta di comunicazione – comporta. Scorciatoie che i pubblicitari prendono spesso e volentieri, e che infatti sono sovente oggetto di critica.

Il fatto che quello stereotipo rispecchi largamente la grande maggioranza della popolazione di lingua araba residente in Italia non cambia il fatto che assumerlo significa rafforzarlo, ignorando il valore simbolico e il significato che il velo – anche al di là della scelta delle singole donne, che possono portarlo per i motivi più diversi – si porta appresso. Il tentativo in atto è esattamente quello di svuotare di significato il velo, riducendolo a puro elemento dell’abbigliamento tipico della “cultura araba”, ignorando che esso è indossato (a volte per scelta, molto spesso per imposizione) da molte musulmane nel mondo (e anche in Italia) che con la cultura araba non hanno niente a che fare, e riducendolo dunque a un “pezzo di stoffa”. Ma il velo non è un semplice pezzo di stoffa. Trattarlo come se lo fosse sarebbe, oltre che scorretto, anche offensivo nei confronti di chi lo porta, come sarebbe offensivo nei confronti dei cristiani affermare che la croce è un semplice elemento decorativo appeso alle pareti.

Anche il fatto che la risposta sia stata affidata all’Ufficio comunicazione e marketing la dice lunga: è un modo per sottrarre a questa scelta il suo valore politico, riducendola a una mera decisione “tecnica” operata da dei “professionisti della comunicazione”. Professionisti che però non hanno capito – o fanno finta di non capire – che con la comunicazione, oggi più che mai, si fa politica, persino quando si tratta di pubblicità di prodotti commerciali, figuriamoci quando in ballo ci sono enti di promozione culturale.

L’oggetto della mia critica non era – val la pena chiarirlo perché in alcuni commenti alla lettera affiorava questo equivoco – il diritto delle singole donne a indossare il velo, ma la scelta comunicativa di una istituzione culturale che decide consapevolmente di assumere lo stereotipo araba=musulmana-col-velo e, con ciò facendo, di alimentarlo, invece di contribuire a disinnescarlo. Una scelta che, non intenzionalmente ma non meno colpevolmente, si traduce in indifferenza nei confronti di tutte quelle donne che quotidianamente, sia nei paesi in cui il velo è obbligatorio (come in Iran) sia in Europa a causa della enorme pressione che molte di loro subiscono in famiglia o nelle loro comunità, portano avanti una battaglia di emancipazione. Nel porsi il nobile intento di far sentire accolte le donne che portano il velo, questa scelta rischia di far sentire più sole, per esempio, tutte quelle ragazze che stanno combattendo contro l’imposizione dell’hijab da parte della propria famiglia, invece di incoraggiarle. Non c’è alcun dubbio, infatti, che ci siano molte donne – specie in Occidente e specie nelle classi sociali più alte – che indossano l’hijab in maniera del tutto libera. Ciò non toglie che si tratta di simbolo altamente controverso, sia in Europa sia nei paesi a maggioranza musulmana, il cui nesso con la condizione di subordinazione della donna e con l’esigenza di “modestia” che le viene richiesta non può essere cancellato con un colpo di spugna. Significati che hanno sempre accompagnato il velo in tutte le culture in cui è stato usato: «L’uomo non deve coprirsi il capo», scrive Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (11, 3-10), «poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per
questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli». Un segno di “dipendenza” e modestia che una donna può anche scegliere liberamente, ma che non si può ridurre a un semplice pezzo di stoffa.

Cinzia Sciuto

(19 febbraio 2018)





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