I curdi e il nuovo (dis)ordine mondiale
Fernando D'Aniello
L’azione militare intrapresa dal presidente turco Erdoğan contro la Siria nordorientale rappresenta molto bene lo stato attuale delle relazioni internazionali. E spinge a interrogarsi su quanto il fatale 2001 e la guerra unilaterale degli Stati Uniti abbiano contribuito a marginalizzare, per usare un eufemismo, le regole e il diritto internazionale.
Ma se Trump decide che la Siria non rientra più nello ‘spazio’ d’interesse americano, il ritiro può avere una sua logica e non c’è spazio per alleati fidati ma, in questo nuovo big game, fondamentalmente inutili (il discorso di Trump sulla Normandia significa esattamente questo): la fallita risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di condanna dell’intervento turco per veto congiunto di Russia e Stati Uniti sembra evidenziare proprio questa convergenza di interessi fra Trump e Putin. Del resto, Trump crede di poter tener a bada la Turchia con la leva economica: la crisi degli ultimi tempi potrebbe essere solo un’avvisaglia e Trump ha chiaramente detto ad Ankara che il via libera non significa né carta bianca né, tantomeno, una ritirata strategica o, peggio, un segno di debolezza statunitense (anche l’opposizione repubblicana a Trump potrebbe usare esattamente questo argomento).
Il presidente Erdoğan vuole adesso completare quanto realizzato negli ultimi anni sul fronte siriano nordoccidentale: penetrare in Siria per oltre 30 chilometri e tagliare ogni possibile collegamento tra le forze curde siriane e i loro alleati in Turchia, per Ankara tutti ‘terroristi’. Tuttavia, come viene documentato in queste ore, altri terroristi, questa volta dello Stato islamico, vengono liberati e schierati dalle truppe turche.
I curdi siriani avevano provato a trattare, cedendo persino su una presenza curda di minore impatto (circa cinque chilometri). Non è servito. Perché l’obiettivo del presidente turco è anche quello di risolvere la grana interna dei rifugiati siriani che sta causando malcontento tra i turchi e che è una delle prime ragioni delle recenti sconfitte elettorali del partito al governo. Erdoğan si era accordato con l’Europa per accettare i rifugiati siriani e trattenerli in Turchia. Ma, anche grazie alla recente crisi economica, i rifugiati sono presto diventati un problema politico interno.
L’idea, dunque, è di riportarli in Siria il prima possibile, proprio nella zona che l’esercito sta occupando. Del resto, già dopo le prime ore dell’attacco, civili sono stati ricollocati sulle aree occupate dall’esercito turco. E simili operazioni sono già avvenute in passato quando l’esercito entrò sulla parte destra dell’Eufrate.
Tuttavia, questo altererebbe l’equilibrio demografico della zona (altro obiettivo turco): i profughi in arrivo sarebbero in buona parte arabi. Già nei mesi scorsi la propaganda turca ha provato a sottolineare come le forze curde fossero ostili agli arabi, quando, nonostante tutti gli sforzi e le contraddizioni, l’esperienza nel nord-est della Siria è stata proprio segnata dal tentativo di una convivenza fra le varie comunità. In questo modo, l’intervento turco potrebbe essere salutato con favore da quanti pure vorrebbero rientrare in Siria, ma potrebbe aprire un nuovo dramma umanitario, con i curdi costretti a scappare dalle truppe di Ankara e obbligate a rifugiarsi magari nel Kurdistan iracheno. Smentendo nuovamente l’antica tradizione del suo paese, Erdoğan si comporta come un Saddam qualunque e prova ad alterare millenari equilibri demografici ai danni dei curdi. In Iraq (Kirkuk) la cosa non ha mai funzionato, ha causato crimini orrendi e è fonte di problemi sino al giorno d’oggi.
L’obiettivo di un protettorato turco, inoltre, potrebbe costituire ulteriori frizioni fra le comunità e determinare l’instabilità della regione per i prossimi anni. Damasco potrebbe accettare l’intervento, perché il riequilibrio della popolazione in senso arabo determinerebbe la marginalizzazione delle forse curde e potrebbe anche risolversi con la Turchia la questione di Idleb, che a tutt’oggi rappresenta uno degli ultimi bastioni delle variopinte forze antigovernative. Ma si tratta di scenari tutti da rivedere poi sul campo e che potrebbero anche sfociare in ulteriori tensioni tra Ankara e Damasco.
Nemmeno Mosca e il gruppo di Astana quale luogo predisposto a definire una via d’uscita alla crisi siriana ne escono indenni: Putin accetta l’intervento turco purché non “leda la sovranità e l’integrità della Siria” (?), vale a dire che l’esperienza curda deve essere quantomeno ridimensionata (con gli Stati Uniti invitati a uscire completamente dal paese) e il problema Idleb superato così da poter chiudere finalmente la guerra siriana. Va ricordato che le truppe curde hanno già accettato di avviare negoziati con Damasco e di non puntare ad una secessione (ipotesi al momento non percorribile, come hanno dimostrato le reazioni della comunità internazionale al referendum per l’indipendenza nel Kurdistan iracheno di due anni fa). Purtroppo, proprio come il caso iracheno insegna, si può vincere la guerra, ma vincere la pace è tutt’altra questione. E Mosca dovrebbe finalmente trovare e indicare una soluzione che integri le varie comunità della Siria, disposte ad avviare negoziati per una Siria unita (tra queste proprio i curdi).
Erdoğan sa che con i rifugiati può ricattare l’Europa e, consegnandosi definitivamente alla storia come giocatore d’azzardo più che come rappresentante di una nazione dal grande passato, ha già minacciato di riaprire le rotte di partenza dei rifugiati verso la Grecia e verso i Balcani. L’Europa, priva di una strategia politica coerente nell’area, da anni balbetta con la Turchia, che ha trattato troppo spesso con un atteggiamento coloniale, ed è oggi tagliata fuori da ogni discussione.
Purtroppo, a fare le spese di tutto ciò sono, ancora una volta, i curdi. Sono le prime vittime di questo nuovo sistema internazionale che stenta a trovare una sua quadra. Quello che sta capitando oggi a loro, il tradimento e la pura prevaricazione, potrebbero imporsi come nuove regole delle relazioni internazionali. Per tutti.
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