I fan e gli spettatori. La cultura cinematografica al tempo del Covid
di Flavio De Bernardinis
L’assenza dai nostri schermi stremati e sofferenti dei grandi e costosissimi film hollywoodiani apre spazi altrimenti inaccessibili. Ce lo suggeriva qualche giorno fa Susanna Nicchiarelli: la cancellazione di alcuni kolossal americani fa emergere un pubblico altrimenti nascosto, certo sempre presente, ma molto meno visibile. Un pubblico a cui gli autori, quelli più sensibili, devono attentamente guardare.
Era anche ciò che dichiarava Roberto Cicutto circa un mese fa nei giorni della Biennale Cinema: l’emergenza sanitaria obbliga a ricollocare i film al centro del cinema. Il che significa accantonare almeno per adesso la logica fanzinara, da fan, cara a un’ampia fascia di spettatori, per concentrarsi su un target meno esteso, ma forse più consapevole, che guarda innanzitutto alla caratura del contenuto dell’offerta cinematografica.
Sul piano del mercato vero e proprio, in queste settimane, non a caso, emergono gli incassi dei film-documento. Quelli su Paolo Conte, su Modigliani, su Marco Pantani, sulla figura di Banski, sullo stesso Francesco Totti, programmati nei giorni centrali della settimana, agganciano addirittura le prime posizioni del box office. Prodotti di approfondimento che in effetti non escludono i fan.
Non si tratta evidentemente di cifre paragonabili alle imprese di Batman o dell’Uomo Ragno, ma i dati comunque mostrano, o possono indicare, una certa tendenza in atto nelle scelte degli spettatori.
La cosa interessante è che si tratta di proposte che hanno tutta l’aria di prodotti televisivi: e in parte lo sono, perché molti di questi sono concepiti per le reti tematiche o piattaforme tv. L’uscita nelle sale dovrebbe costituire semplicemente una vetrina in funzione del passaggio via satellite o via fibra: eppure si ha la sensazione che si tratti di qualcosa di più che una gradevole e colorata passerella.
Innanzitutto, ciò che conta è il fatto che il pubblico scelga subito la sala cinematografica invece di attendere la programmazione su schermo o monitor. Susanna Nicchiarelli, ancora, mi raccontava che durante il proprio tour promozionale al seguito di Miss Marx, non solo le sale erano piene, ma lo restavano a proiezione finita al momento dell’incontro con l’autore, là dove è provato che almeno un 35-40% di spettatori a quel punto si alza e se ne va.
La sala cinematografica sembra così tornare luogo di aggregazione. Per compiere il cammino a ritroso, che magari è un progresso, occorre forse ripensare le modalità della fruizione filmica nel suo complesso.
L’emergenza Covid sta colpendo principalmente i cosiddetti multiplex, ossia i giganteschi cine-agglomerati contenenti 18-20 schermi, i quali vivono di kolossal, americani e non, all’insegna del puro intrattenimento.
Come accade con l’industria bellica in tempo di pace, è necessario riconvertire la capacità produttiva della sala cinematografica? Forse sì.
Negli ultimi tempi, tranne alcune eccezioni, la sala cinematografica svolgeva le seguenti funzioni: parco divertimenti per bambini, parcheggio per anziani, nicchia per iniziati. L’ottima idea di Hollywood, ribadita di recente da Pete Docter, il grande artista della Pixar, è stata quella di realizzare prodotti cinematografici per bambini ma capaci di coinvolgere, per allusioni e sottotesti, anche gli adulti. Da qui, gli incassi enormi e immediati.
Tale logica produttiva era evidentemente predisposta alla fruizione del film negli spazi ampi e attrezzati del multiplex, dove inoltre la vendita di bibite e snack incrementa non di poco le entrate dell’esercizio. La crisi del multiplex può forse indurre a logiche altre.
Possiamo andare incontro a una rimodulazione degli spazi adibiti all’offerta cinematografica. Il successo, se pur relativo, dei film-documento precedentemente citati, può indurre il sistema industriale a ipotizzare il passaggio dalla sala multiplex alla sala polifunzionale. Intendendo con ciò, una sala, anche a più schermi, dove la proiezione del film sia uno dei momenti dell’offerta.
Non solo il pubblico, in un giorno e orario stabilito, può incontrare l’autore, come già un poco si fa, ma lo stesso pubblico, a giorni e orari stabiliti, magari su prenotazione e a posti limitati, con le giuste distanze, può discutere il film appena visto. Alla presenza di un critico che ne coordini lo svolgimento, oppure di un professionista che abbia partecipato al film, o magari di un esperto del tema che il film racconta.
Non solo i film a contenuto specifico, quelli con etichetta “culturale” doc, ma anche un film americano come il recente Greenland, operazione comunque di cassetta, essendo un racconto fanta-apocalittico riguardante tematiche aventi a che fare con l’emergenza climatica, a proiezione finita, può transitare in uno spazio di discussione, in cui gli spettatori, fan compresi, ascoltano e interagiscono in presenza con chi si occupa a tempo pieno dei problemi del clima.
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Il passaggio dalla sala multiplex alla sala polifunzionale metterebbe allo scoperto un dato che ormai è da ritenere incontrovertibile. Il pubblico non si accontenta più del talk show precotto in tv, e forse non si orienta a sufficienza nel labirinto ricchissimo ma anche paludoso della rete. Cerca piuttosto un luogo di aggregazione che l’infosfera elettronica ha da tempo messo a tacere. Oltre a pensare al cinema in senso stretto, occorre riflettere in termini più larghi, ma anche più specifici, di cultura cinematografica.
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