I film della settimana: “Il padre dei miei figli” di Mia Hansen-Løve e “Bright star” di Jane Campion
Giona A. Nazzaro
Come è noto, con il giungere dell’estate i cinema italiani vanno in letargo. Nonostante il gran parlare che si fa di anno in anno sul prolungare la stagione cinematografica, il risultato, desolante, è che alcune sale chiudono già a fine giugno, mentre quelle che restano aperte, proiettano più o meno i soliti film in attesa prima della grande serrata d’agosto e poi della ripresa a settembre.
Sino a una decina d’anni fa (ma forse anche di più) era proprio nel periodo immediatamente precedente l’estate che lo spettatore avventuroso riusciva ancora a trovare dei piccoli film sfuggiti alla grande distribuzione e che magari resistevano solo qualche giorno in prima visione, ma se non altro si riuscivano a vedere se si era mossi da sufficiente curiosità. Basti ricordarsi di Reservoir Dogs di Quentin Tarantino che all’epoca con il titolo di Cani da rapina comparve timidamente in qualche cinema della capitale, tra cui l’Augustus, per poi scomparire altrettanto rapidamente. Oggi, purtroppo, con l’avvicinarsi della bella stagione non resta altro che recuperare quei titoli sfuggiti in prima visione e che resistono ancora in qualche sala. Tra i sopravvissuti alla grande chiusura, oltre al capolavoro di Elia Suleiman, Il tempo che ci rimane, questo scorcio di stagione ha avuto il merito di proporre due film, entrambi presentati l’anno scorso al Festival di Cannes, che meritano di essere recuperati prima che scompaiano definitivamente dalla programmazione.
Il primo è Il padre dei miei figli firmato da Mia Hansen-Løve, regista che si era fatta notare con l’inedito Tout est pardonné. Ex firma dei Cahiers du cinéma, la giovanissima autrice, che evidenzia una straordinaria padronanza della materia filmica, e una non comune capacità di condensare in immagini forti dal sapore classico sentimenti e corpi, è uno dei nomi emergenti del nuovo cinema transalpino. Un cinema che pur non rinnegando la lezione della nouvelle vague, riesce a superarla nel segno di un rinnovamento, produttivo e anagrafico, genuino e motivato. Il padre dei miei figli, interpretato tra gli altri da una vibrante Chiara Caselli, è ispirato, in parte, al suicidio del produttore Humbert Balsan, scomparso nel 2005. La Hansen-Løve avrebbe dovuto esordire con un film prodotto da Balsan, sempre attento al cinema femminile, ma il corso degli eventi ha deciso altrimenti. Se un personaggio come Humbert Balsan può sembrare oscuro o esoterico in Italia, in Francia e nel resto del mondo era riverito e amato come un pioniere del cinema d’autore coraggioso, innovativo e generoso. Amico intimo del regista Samuel Fuller, autore di capolavori come Il bacio nudo, Corea in fiamme, White Dog e Il grande Uno Rosso, Balsan era entrato nel cinema interpretando il ruolo di Gaiwan in Lancillotto e Ginevra di Robert Bresson. Da produttore ha lavorato, promosso e valorizzato nomi del calibro di Pierre Kast, Elia Suleiman, Claire Denis, Noury Nasrallah, Youssef Chahine, Sandrine Veysset, Nikos Papatakis e Béla Tarr. Purtroppo proprio durante le riprese di L’uomo di Londra, Balsan si è tolto la vita.
Il merito principale della Hansen-Løve è essenzialmente di non indulgere nell’agiografia cinefila dell’uomo. L’attenzione del film è spostata con grande acume sulla famiglia del produttore che si ritrova prima coinvolta nei progetti e nelle crescenti difficoltà economiche e poi deve confrontarsi con l’assenza del marito e del padre. Ciò che sorprende è il rigore emotivo con cui Il padre dei miei figli mette in scena un dolore sordo e feroce in una prospettiva assolutamente laica. Privo di qualsiasi tentazione psicologizzante, la Hansen-Løve costruisce un film che evidenzia soprattutto il lavoro necessario per continuare a vivere dopo il lutto. Non ci sono scene madri e non si pigia il pedale delle emozioni ricattorie. Il perimetro della vita è riconquistato con movimenti precisi della macchina da presa. La sceneggiatura, per quanto perfetta, è totalmente al servizio delle immagini e degli interpreti. In questo senso Il padre dei miei figli è davvero l’omaggio più potente e sentito al cinema che Humbert Balsan ha sempre amato e difeso. Un cinema innovativo, critico, attento alle dinamiche del reale e completamente calato nei corpi e nella storia.
Se Mia Hansen-Løve vanta solo due lungometraggi al suo attivo, Jane Campion può a tutti gli effetti considerarsi una veterana. Dai tempi dell’incompreso Sweetie, recuperato tardivamente alla luce di film come Un angelo alla mia tavola e Lezioni di piano, la Campion ha continuato a produrre film con una certa regolarità e, pur non convincendo sempre, non ha mai rinunciato al piacere del rischio e del cambiamento.
Bright Star, che per qualche banale pregiudizio ha rischiato addirittura di non essere distribuito, è probabilmente il film più intenso e compiuto della regista da moltissimi anni a questa parte. Considerato superficialmente una banale storia d’amore per spettatrici più attente ai pasticcini e al thé che al cinema, Bright Star è in realtà una riflessione acuta sulla società inglese e le sue divisioni, di classe e sessuali, all’alba della rivoluzione industriale.
Nella storia d’amore fra il fragile poeta John Keats e la determinata Fanny Brawne si cela un conflitto più ampio. Antenata delle stiliste contemporanee, la Brawne è una donna di fatto emancipata costretta a mordere il freno di una società maschilista e classista. Donna che potrebbe vivere del suo lavoro, s’innamora di un uomo profondamente “improduttivo”, un poeta, circondato da amici altrettanto inadatti al lavoro.
In maniera molto precisa, la Campion rovescia lo stereotipo della donna “spirituale” in grado di vivere esclusivamente nell’orbita economica del maschio mettendo in scena un uomo la cui poesia vive grazie al lavoro (in tutti i sensi) di una donna. Non a caso il tutore ufficiale di Keats, l’arrogante Brown, percepisce la presenza della Brawne come una concorrenza sleale alla sua autorità intellettuale.
Bright Star evidenzia in maniera molto cruda come l’istruzione e l’erudizione possono essere utilizzate in forme molto brutali per perpetuare le divisioni di classe e di sesso. E non è un caso che la Brawne, portatrice di un’altra sensibilità e consapevolezza nei confronti del lavoro, sia inevitabilmente vissuta come una nemica di classe e portatrice di disordine sessuale.
D’altronde se c’è una cosa che la Campion filma con grande convinzione è la natura: ferina, rigogliosa, cupa, abbacinante. Ed è in questo parallelo fra una natura cruda e materica e una spiritualità maschile artefatta che Bright Star evidenzia tutta la sua forza politica. Perché è nell’alveo dell’abbraccio di Fanny che la poesia di Keats risuona delle sue note più autentiche e non nei cenacoli autoreferenziali dei suoi amici intellettuali.
Esplorando il rimosso femminile del grande e idealizzato mito della natura romantica, Jane Campion realizza con Bright Star un film potente e sensuale, il film della maturità di una cineasta inquieta e
nervosa che continua a sorprendere.
(1 luglio 2010)
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