I film della settimana: “Le idi di marzo” di George Clooney e “Too big to fail” di Curtis Hanson
Giona A. Nazzaro
Le banche e la politica sono l’inevitabile plat du jour del dibattito sociale e culturale. E a testimonianza di come questi due elementi siano profondamente intrecciati giungono due film, molto diversi tra loro, ma accomunati da una tensione democratica che nella lucidità dell’approccio fa sì che gli esiti raggiungono una chiarezza espositiva quasi… illuminista.
Se George Clooney, personaggio molto più interessante di quanto la sua sovraesposizione mediatica non lasci sospettare, si confronta con i meccanismi della politica nordamericana, analizzando il complesso sistema che porta alla candidatura e all’elezione dei rappresentati del partito democratico e repubblicano, Curtis Hanson, assente dagli schermi italiani da molto tempo, rievoca il drammatico crollo della Lehman Brothers.
Si tratta di due film che in maniera molto precisa evidenziano come il cinema americano sia presente in tempo reale sugli avvenimenti della politica e della cronaca anche se, non dovendo per fortuna loro fare i conti con un approccio ideologizzato (come invece capitava quasi sempre nel cinema politico italiano), può permettersi di riflettere su quanto lo circonda al di fuori degli schemi’ affidando così alla sola messinscena il farsi portatrice del discorso politico. Perché al netto della politica e dell’attualità, sia il film di Clooney che quello di Hanson è cinema allo stato puro.
Attraverso la figura di un responsabile della campagna elettorale (Ryan Gosling), Le idi di marzo illumina i meccanismi che alimentano il consenso intorno alla macchina della politica statunitense. I contenuti, anche importanti, portati avanti dal candidato democratico (Clooney), vengono drammaticamente meno, quando è rivelata una relazione dell’uomo con una giovanissima stagista. La cosa, invece che precipitare la carriera del candidato nell’oblio, accelera una seria di scelte strategiche che in condizioni ambientali ordinarie non sarebbero state prese in considerazione. Il deus ex machina di questa vertiginosa scalata al potere è ovviamente il giovane responsabile della comunicazione che dopo essere stato messo alla porta per avere accettato di incontrare un avversario, si ritrova con un inaspettato coltello dalla parte del manico.
Retto da dialoghi che vanno a raffica, serviti da attori che li calzano come se fossero elementi di una congiura scespiriana (e forse lo sono, considerato che tutto il film ruota intorno al dilemma “come si crea un re”), Le idi di marzo, pur diretto e interpretato da alcuni dei campioni democratici del cinema hollywoodiano, piuttosto che prendersela con i repubblicani, preferisce rovistare nei panni sporchi di famiglia. Cosa che la dice molto lunga…
E se le conclusioni possono risultare risapute, a secondo del proprio grado di cinismo o di disillusione, è proprio la fiducia invece nel confronto alimentato dal cinema a fare del film di Clooney un oggetto di riflessione estremamente interessante. Perché se da un lato Le idi di marzo funziona come un thriller politico degno di Sydney Pollack o di John Frankenheimer, dall’altro evidenzia una profonda passione democratica per il dialogo e il confronto. Fosse anche solo al buio di una sala nella quale magari non si entra solo per lasciarsi alle spalle i problemi di tutti i giorni.
Cosa che comunque non sarebbe possibile nel caso di Too Big To Fail, tv movie di Curtis Hanson prodotto dalla HBO e ora visibile sui canali Sky, che quasi come una docufiction rievoca passo per passo, facendo tutti i nomi, il crollo della Lehman Brothers.
La cosa che fa la differenza, rispetto ai prodotti italiani, è che Hanson non si limita a inanellare una serie di fatti più o meno noti. La ricostruzione ha un preciso valore politico perché è una ricostruzione critica. Ossia gli autori hanno un chiaro punto di vista, che non bisogna decifrare grazie a oscure alchimie, ma che viene offerto come un commento drammatico, e non ideologico, rispetto al racconto portante.
E anche se il film è costellato di espressioni e situazioni che magari si presume che solo gli addetti al gergo finanziario possono agevolmente comprendere, Hanson riesce nonostante tutto, e senza rinunciare a un solo briciolo di tensione, a spiegare con precisione quasi didattica ciò che accade senza mai diventare didascalico.
Lo scenario che Hanson rievoca, il baratro sul quale si è trovata l’economia USA, e sul quale adesso si trova invece quella italiana, è ricondotto in seno a una logica finanziaria autoreferenziale i cui errori, però, sono pagati sempre altrove. Per intenderci in bonus miliardari dei manager sono definiti come “competitive pays” (retribuzioni competitive…).
Interpretato da William Hurt nel ruolo di Hank Paulson, il film chiama in causa tutte le banche e descrive il processo che ha fatto sì che oggi le banche statunitensi, alcune di essi, siano di fatto diventate “troppo grandi per fallire”.
Provate a immaginare un film che in Italia abbia l’ardore di raccontare in tempo reale con affidabilità e accuratezza giornalistica e con il tiro spettacolare della serie Romanzo criminale questi giorni frenetici che l’ultima infamia del malgoverno berlusconiano sta infliggendo all’Italia. Negli USA, nonostante tutto, dalle parti della HBO e non solo, questo cinema lo sanno fare alla grande e se anche questo paese fosse in grado di produrre un cinema così… “utopico” probabilmente ne beneficerebbe anche la sua democrazia.
Le idi di marzo e Too Big To Fail sono i sintomi che nonostante tutto per il cinema statunitense la democrazia è ancora un valore importante da tutelare.
(12 novembre 2011)
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