I laboratori della segregazione

MicroMega

Dopo la verità processuale sulla Libia dei lager, l’ultimo lavoro di Maurizio Veglio si intitola “La Malapena” ed è un atto di accusa, che racconta di migliaia di uomini e donne, migranti e richiedenti asilo che, pur in assenza di reato, restano imbrigliati nelle maglie di un sistema che li priva della libertà e dei diritti. Un ritratto crudo dei centri di permanenza per i rimpatri, a partire dal Brunelleschi di Torino, definiti “laboratori della chimica della segregazione”.

di Maria Concetta Tringali

La Malapena arriva in libreria a settembre, con un sottotitolo che non vuole lasciare spazio a fraintendimenti: “Sulla crisi della giustizia al tempo dei centri di trattenimento degli stranieri”. Va ad arricchire la collana Laissez-passer della casa editrice torinese Edizioni SEB 27.

La prefazione è di Emma Bonino e il volume è scritto da Maurizio Veglio, avvocato esperto di diritto dell’immigrazione. Arriva a due anni di distanza da L’attualità del male, raccolta curata dallo stesso Veglio che lì interviene con il saggio In principio era il corpo.

Di quel MicroMega aveva scritto delle moltissime polemiche anche politiche che aveva sollevato per il solo fatto di avere scostato il velo su verità processuali che restano tuttora maldigerite da certa parte di questo Paese. Quella che l’autore, anche docente presso l’International University College, ci propone in questo 2020 è una fotografia forse anche peggiore della precedente.

I temi della Libia sono i temi delle migrazioni, sempre attuali, in maniera drammatica. È solo di qualche giorno fa la notizia dell’arresto di al-Bija. Si tratta di Abdul Rahman Milad, notissimo trafficante di esseri umani, ricevuto in Italia nella primavera del 2017 come “membro della delegazione libica”, su invito dell’Organizzazione Internazionale per la Migrazione. Un criminale accolto fin dentro il cuore delle nostre istituzioni repubblicane.

Veglio, che ci ha abituati a uno sguardo oltre l’orizzonte sulle questioni della Libia, di quel vergognoso invito aveva dato ampiamente conto.

Il maggior pregio di La Malapena è dunque la continuità. L’autore riprende in fondo il filo di un discorso mai abbandonato del tutto. E sposta il timone, ci riporta in Italia. Ci mette in condizione di guardare insieme a lui, ma questa volta l’orrore lo vediamo dal di dentro.

Siamo nelle aule dove si decide la vita delle migliaia di migranti, in qualche modo sopravvissuti al mare. Presto arriviamo fin dentro le celle, per scoprire che è carcere durissimo, per non condannati, quello che vediamo.

La quarta di copertina è inequivocabile: “La detenzione amministrativa dello straniero nei centri per il rimpatrio (Cpt, Cie, Cpr) è un rito di segregazione, un atto di apartheid che avalla la mortificazione della dignità umana. Mentre sperimentano il fallimento del proprio progetto migratorio, i reclusi subiscono il potere statale nella sua forma più invasiva e feroce. Qui deflagra una violenza a grappolo: contro il diritto, che autorizza giudici non professionisti a convalidare la detenzione di persone che non hanno commesso alcun reato; contro i corpi, esposti alla tentazione dell’autolesionismo; e contro i luoghi stessi, bersaglio della rabbia dei segregati e di un continuo maquillage giuridico e materiale. E poi c’è il paradosso dell’inefficienza: nonostante l’enorme impiego di denaro, appena il 50% delle persone trattenute viene rimpatriato”.

Il nostro – è vero – non è più, da pochissimo tempo, il paese dei decreti sicurezza. All’inizio del mese di ottobre il governo ha varato uno schema di decreto che da qualche giorno, con la firma del Presidente Mattarella, ha mutato almeno in parte lo scenario normativo. Si tratta del decreto-legge 21 ottobre 2020, n. 130. La decisione è quanto mai politica, tanto da essere intervenuta solo all’indomani delle elezioni regionali. Rubricato come “Disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, modifiche agli articoli 131-bis, 391-bis, 391-ter e 588 del codice penale, nonché misure in materia di divieto di accesso agli esercizi pubblici ed ai locali di pubblico trattenimento, di contrasto all’utilizzo distorto del web e di disciplina del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale”, il provvedimento pare mettere da parte – pur senza arrivare ad abrogarli del tutto – i decreti voluti da Salvini e dai suoi sodali. E lo fa eliminando il divieto di transito per le navi nelle operazioni di soccorso e vietando espulsione e respingimento in presenza non più del solo rischio di tortura ma tutte le volte in cui lo straniero corra il pericolo di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti. Laddove si tema una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare del migrante, da oggi è dunque previsto il rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale.

La Malapena è insomma un lavoro di denuncia, una denuncia forte e chiara, senza infingimenti: “Esistono punizioni così ingiuste e sproporzionate da rovesciare la colpa che pretendono di emendare. Da spostarla sulla testa dei correttori chiamati infine a giustificare il tormento inflitto. E più questo si protrae, più il motivo della punizione sbiadisce fino a evaporare”.

E dei centri di permanenza per i rimpatri, di cui Veglio è un conoscitore esperto, ci dice lapidario che quello è “un mondo che abbina ferocia alla casualità”.

Cita il Rapporto sulle visite nei Centri di identificazione ed espulsione e negli hotspot in Italia redatto dal Garante nazionale per i diritti dei detenuti. L’approfondimento e l’attendibilità delle fonti sono tratto distintivo.

Difficile scorgere una seppur minima forma di rispetto per la dignità umana, là dove uomini e donne vengono ammassati come bestie. Moduli abitativi stipati. In sette vivono, mangiano e dormono nello spazio di 50 metri quadri, costretti a usare gabinetti aperti alla vista di chiunque.

Dove non esiste più intimità, non resta che un’umanità piegata e piagata.

Ciò che si definisce il regime imposto ai detenuti, è roba da fare vergogna, li costringe alla luce o al buio centralizzati, li isola dal mondo esterno, proibendo l’uso delle fotocamere e spesso degli stessi cellulari, il trattamento non prevede nemmeno il diritto di consumare i pasti seduti a un tavolo.

Ma prima della detenzione dovrebbe esserci il processo. Si tratta in realtà di un procedimento amministrativo. Ed è qui forse che lo Stato tocca il suo punto più basso, Veglio ce lo ricorda con un’amarezza che traspare da ogni riga: “Oggi quasi più nessuno obietta all’idea della privazione della libertà personale in as
senza di un reato, autentica bestialità giuridica di fine millennio”.


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A reggere il gioco è la direttiva rimpatri datata 2008 che consente il trattenimento in assenza di una fattispecie di reato fino a 18 mesi: “Questo l’attuale stato dell’arte – spiega l’avvocato Veglio – quando un’espulsione non può essere eseguita perché lo straniero non ha documenti di identità o di viaggio lo stesso può essere trattenuto all’interno di uno dei Cpr”.

Ne emerge un paese dove la giustizia è ridotta a parodia di se stessa, dove ogni strumento usato sulla pelle dei migranti è al servizio della propaganda, un demone bifronte che serve insieme a rassicurare e a spaventare.

Ma questo volume parlando dell’altro parla di noi. “Niente come la detenzione amministrativa degli stranieri – la galera dei clandestini – rivela il sentimento di una comunità verso l’estraneo”.

Se interpretare il senso di questo lavoro può servire a cercare altre vie, a venirci in aiuto è Emma Bonino che nella prefazione trova il nodo: “La chiave di lettura di questo libro, che porta a galla verità nascoste alla stragrande maggioranza e dà luce al buio delle nostre coscienze, è lo Stato di diritto”.

Ed è proprio su questo che dovremmo incardinare tutti i nostri ragionamenti. Così, Maurizio Veglio avvisa il lettore ben prima che quello approdi al primo capitolo: “Quella che segue è una testimonianza parziale, rischiosa, controvertibile come tutte. Ma è l’unica che mi è possibile. Più che giudizi, contiene materiale istruttorio. E domande più che risposte”.

(23 ottobre 2020)





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