I musei dopo il lockdown (4): intervista a Rosario Vilardo

Mariasole Garacci

Le interviste ai direttori dei musei e siti archeologici e storico-artistici italiani proseguono con Rosario Vilardo, da due anni a capo del Parco Archeologico delle Isole Eolie e del Museo archeologico nazionale “Luigi Bernabò Brea”, che ci ha parlato di interazione con il territorio, della necessità di farsi narratori di arte e cultura, e dello scopo di un museo.

Fondato nel 1954 dall’archeologo ligure Luigi Bernabò Brea, il quale era già autore di importanti campagne di scavo e, in qualità di Soprintendente all’indomani della seconda guerra mondiale, della ricostruzione del sistema archeologico della Sicilia orientale (dove rilevò un’ininterrotta successione culturale dal neolitico all’età classica), il museo archeologico di Lipari che oggi porta il suo nome è tra i più preziosi e importanti nel suo genere. Una collezione di reperti di straordinaria bellezza che testimonia la storia dell’umanità sulle isole Eolie dai primissimi insediamenti, nel Neolitico, fino all’ingresso nella raffinata cultura greca e poi in quella romana: manufatti fittili delle prime genti d’oltremare che dalla Sicilia, cinquemila anni prima di Cristo, approdarono su queste isole a bordo di imbarcazioni che dovevano essere poco più che canoe, e che si stabilirono qui per commerciare l’ossidiana, oro nero (un vetro naturale, per la verità) di cui queste antichissime terre vulcaniche sono ricche; resti di oggetti sempre più elaborati prodotti da culture che, secondo Bernabò Brea, proseguono fino all’arrivo dei mitici Eoli: quella della ceramica tricromica, le culture di Diana, di Piano Quartara, di Capo Graziano a Filicudi, quella del Milazzese. E poi, in epoca classica, una produzione vascolare che cresce nell’ambito della Grecia (anche le iscrizioni funebri ne sono testimonianza) esprimendo artisti locali formidabili: il Pittore di Lipari, il Pittore dei cigni, il Pittore delle Tre Nikai, il Pittore della Sphendone Bianca.

Il museo di Lipari tesse tanti racconti di una lunga storia: basta seguire quello delle anse dei vasi, delle decorazioni impresse a fresco oppure graffite a secco. O quello della cosiddetta Tazza di Filo Braccio (quest’estate già in mostra a Napolie dal 16 settembre a Palazzo Reale a Palermo fino a gennaio) ritenuta, appunto, uno dei più antichi esempi di raffigurazione narrativa della preistoria italiana. E altri racconti: quello della incredibile collezione di statuine fittili raffiguranti maschere del teatro o i tipi della commedia greca (in pratica gli antenati delle action figures degli anime giapponesi); le tanagrine; i gioielli.

Proprio da questa vocazione al racconto è partita la mia intervista a Rosario Vilardo, architetto siciliano laureato a Roma, già dirigente dell’Assessorato regionale per i beni culturali e identità siciliana, attivo presso la Soprintendenza di Messina con ruoli nella tutela paesaggistica e monumentale, nella gestione, restauro e valorizzazione del patrimonio architettonico, paesaggistico e naturalistico, e da due anni direttore del Museo archeologico regionale eoliano “Luigi Bernabò Brea”.

Mi parli di questi due anni di incarico prima del lockdown: quali propositi, problemi e progetti caratterizzano un museo come questo, ricchissimo e prezioso eppure, in un certo senso, penalizzato dal fatto di trovarsi in un luogo di vacanza prettamente estivo?

Per il pubblico non specialistico, i reperti archeologici sono muti. Obiettivo di un museo, e di questo museo in particolare, è quello di produrre conoscenza del patrimonio: farci narratori, comunicatori di conoscenza, capaci di uno story-telling territoriale. Valorizzare gli spazi e le collezioni di questo museo, attraverso i progetti che stiamo attuando, per me significa amplificare e allargare la conoscenza dell’intero territorio, anche dando l’opportunità a certi circuiti turistici, di solito invasivi e superficiali, di evolversi da questa modalità di consumo (mi riferisco ai gruppi che arrivano “in barcone”, attraversano per un paio d’ore il corso centrale di Lipari, e se non hanno una guida turistica seria se ne tornano a casa con poche nozioni che dimenticheranno subito dopo). Qui vorremmo, anzitutto, realizzare una capillarità territoriale proprio a partire dalla comunicazione diretta ai visitatori (e ai cittadini!) con una serie di strumenti di informazione e comunicazione mirati. E poi altri progetti: ad esempio la digitalizzazione dei documenti conservati nella casa dove Bernabò Brea visse gran parte della sua vita, attigua al museo, e riunire una squadra di archeologi, vulcanologi, geologi, esperti di graphic design e informatici per trasformare il padiglione vulcanologico in uno spazio interattivo con materiali di approfondimento customer oriented. Una sezione, quest’ultima, che merita davvero di essere valorizzata al pari di quelle archeologiche, dato che l’intera storia della civilizzazione di queste isole nasce dal mercato e dagli scambi messi in moto dalla presenza di materiali prodotti dall’attività vulcanica (basti pensare all’ossidiana, e alla lunga e drammatica storia dell’estrazione della pietra pomice fino a tempi recenti). Alfred Rittmann, al quale la sezione è intitolata, del resto, è considerato il fondatore della vulcanologia, e si deve a lui per primo l’avvio della rete di monitoraggio dell’attività sismica e vulcanologica nel Tirreno meridionale di cui l’Osservatorio Geofisico di Lipari, dipendente all’Istituto Internazionale di Vulcanologia del CNR di Catania, fa parte.

Quando parla di “capillarità territoriale” mi sembra lei si riferisca anche a un’idea di museo diffuso, giusto?

Certo. Questo museo è parte di un più esteso parco archeologico nato nel 2019, al termine di un processo quasi ventennale iniziato con la legge regionale 20/2000 (che istituiva il Parco archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi) e con la successiva individuazione delle aree archeologiche costituenti il sistema dei parchi archeologici della Regione con decreto attuativo dell’11 luglio 2001 n. 6263 e successivi decreti (per un totale di quattordici soggetti). Focalizzandoci sul gruppo delle Eolie, qui ci sono diverse aree archeologiche corrispondenti ad antichi insediamenti, espressione di culture specifiche, la cui complessità deve essere tutelata. Nell’immediato, c’è Capo Graziano sull’isola di Filicudi, dove vogliamo consolidare alcune parti che stanno crollando e devono essere messe in sicurezza senza però chiudere questo sito straordinariamente suggestivo, un villaggio dell’età del bronzo testimonianza della cultura da cui prende il nome: una parte dei fondi che stiamo ricevendo dal MiBACT sarà usata proprio nel restauro e nella valorizzazione ai fini della fruizione. Ci sono poi Contrada Diana a Lipari, Stromboli, e anche Panarea e Salina, dove il Parco sta sviluppando una interazione con le istituzioni e le associazioni sul territorio. Del resto, “diffuso” è anche il gruppo di edifici che compone il museo stesso, qui nel castello di Lipari e nelle mura dell’antica città, che fu colonia penale e luogo di confino durante il fascismo. La sezione di arte contemporanea, dove ospitiamo installazioni site specific di Igor Mitoraj, Gregorio Botta, Mimmo Paladino, Piero Pizzi Cannella e altri, è appunto ospitata dalle carceri. Mi interessa molto, anche, recuperare e valorizzare la specificità museologica di questo museo, nato in un momento di passaggio da un criterio espositivo prevalentemente tipologico (scultura, pittura, numismatica) a uno cronologico.

Come avete affrontato il lockdown e la successiva riapertura del museo?

Ricordo il momento in cui fu annunciata la chiusura di tutti i musei e luoghi di cultura, poche ore dopo il decreto 8 marzo 2020: l’angoscia e la tristezza che provai quando dovetti risolvermi a chiamare colleghi e dipendenti per avvertire che quella domenica non avremmo aperto al pubblico, con la consapevolezza che una misura del genere, nel nostro Paese, è forse stata adottata solo in guerra. Ma il buio e lo spaesamento di quel momento è stato ripagato ampiamente dalla gioia di riaprire, il 30 maggio. Nella mia carriera mi sono occupato molto di questioni di sicurezza, dunque sapevo già cosa ci serviva e sono andato io personalmente a Messina, in auto, a prendere il materiale che serviva. Del resto, capisce bene che aprire era necessario: se mancano i turisti, qui sull’isola non si mangia. E’ un’economia a vocazione fortemente stagionale e dopo l’estate, per il resto dell’anno, una gran parte degli abitanti di Lipari vive di assegni di disoccupazione. E poi, ritenevo importante che le istituzioni dessero un segnale di ripartenza, che il museo fosse una presenza.

Qual è la tipologia tipica dei visitatori di questo museo? Ha riscontrato un cambiamento e una flessione dalla riapertura dopo il lockdown? Quali problemi economici state affrontando in questa fase?

In realtà, per quanto riguarda il flusso dei visitatori qui a Lipari si sta riconfermando la tendenza di sempre, che è però subordinata alle dinamiche turistiche che caratterizzano l’area: dall’inizio dell’estate fino a settembre/ottobre un aumento dei visitatori, con una maggioranza di adulti, più colti e attenti alla complessità del sito. I numeri, normalmente, si aggirano sui 74 mila visitatori l’anno. Davvero pochi. Quando diventeremo una struttura autonoma, dunque, dovremo impiegare alcuni criteri di autopromozione aziendale pubblica, con l’obiettivo di creare profitto dagli eventi, dal bookshop, dalle mostre temporanee con un piccolo sovrapprezzo sul biglietto. Già adesso il biglietto ordinario di € 6 viene ripartito tra Regione (71%) e servizi aggiuntivi (29%), mentre del sovrapprezzo di € 3 per le mostre temporanee va alla Regione una quota minore (30%) e ai servizi aggiuntivi che pagano l’evento una maggiore (70%): dall’anno prossimo, invece, il Parco incasserà direttamente la parte che ora viene destinata alla Regione, e considerando che quest’ultima continuerà a pagare i dipendenti sgravandoci di un grande impegno, spero che i soldi potranno essere usati per opere utili al miglioramento e alla valorizzazione del museo. Certo, bisogna fare i conti con il fatto che conservare il patrimonio costa molto, e che un’istituzione culturale non è un’azienda che va in pareggio. Ma io la vedo così: quello di un museo è un bilancio sociale che va in pareggio nel momento in cui si è stati capaci di trasferire conoscenza, perché ciò avrà una ricaduta positiva sulla società.
(22 settembre 2020)





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