I padroni del pensiero e il nuovo conformismo

Pierfranco Pellizzetti

«A queste domande la mia risposta
è un fermo sì e no»[1].
Paul Feyerabend
«Riducendo i conflitti di idee a una sorta di lotta
manichea tra la Stupidità e l’Intelligenza, Voltaire ha
fondato il liberalismo come sistema del non sistema»[2].
Roland Barthes

Giulio Giorello, Libertà di pensiero, Mimesis, Sesto San Giovanni 2018
Voltaire, Candide o l’Ottimista, Einaudi, Torino 2006


Liberali ragionevoli, liberali critici

Nella variegata filiera che raccoglie l’intera tradizione liberale, spiccano due approcci profondamente differenti: l’esercizio prudente della ragionevolezza, a fronte di quanto Alessandro Pizzorno definiva “ermeneutica del sospetto”[3].

Due abiti mentali, il primo dedito al buon senso applicato alla didattica della tolleranza e alla ricerca della misura come arte del possibile, l’altro impegnato a oltrepassare le apparenze penetrando nelle profondità oscure della relazione di potere, al fine di far emergere i disegni per cui le aspirazioni più generose vengono sistematicamente disattese e calpestate. I propugnatori confortanti (seppure un tantinello scontati) della società aperta/giusta e di un individualismo temperato dalla simpatia, tanto che Isaiah Berlin ne definiva uno dei più autorevoli esponenti – John Stuart Mill – come «l’istitutrice vittoriana di animo nobile. […] Il maestro di una generazione, non un creatore né un innovatore»[4]; e gli apostati armati degli strumenti critici del disincanto, tendenzialmente divisivi. Sempre pronti a misurarsi con la complessità, la natura proteiforme del Leviatano; a decodificare le rappresentazioni del pensiero pensabile smascherandone gli impliciti inganni.

Estremizzando fino alle soglie del caricaturale: ottimisti e pessimisti. Gli “assennati benpensanti”, fiduciosi nelle mani invisibili e le benevole eterogenesi dei fini; i “bastian contrari”, con quel loro chiodo fisso di coltivare il dubbio.

Nel suo recente saggio su tre figure imprescindibili per un’idea di libertà illuministica, intesa come messa in discussione di ogni assunto congetturale e dell’interpretazione di qualsivoglia evento – Giordano Bruno, John Stuart Mill e Paul Feyerabend – il filosofo della scienza Giulio Giorello incontra quella che – forse – è la figura più insigne di liberale critico novecentesco; di cui riporta un’affermazione sorprendente. E oltremodo preoccupante.

Si tratta niente meno che di Bertrand Russell, il quale così dichiara: «c’è nel complesso, molta meno libertà oggi di quanta ce ne fosse cento anni fa; e non c’è ragione di supporre che le restrizioni sulla libertà siano destinate a diminuire in un futuro prevedibile».[5]

Forse sarebbe meglio intenderci al riguardo di tale confronto. Sotto il profilo della vita materiale (e delle cure odontoiatriche…) certo non è così. Facendo nostra l’ironia di Robert Darnton nella saggina su Giorgio Washington e la sua dentiera, «oggi abbiamo meno mal di denti e molta più mostarda, quasi tutta di ottima qualità, proveniente da Digione. Si può definire ciò Progresso? Questa è un’altra idea settecentesca che appare dubbia. […] Ma un po’ di familiarità con quello che l’umanità ha dovuto patire nel passato può aiutarci ad apprezzare il modesto incremento del piacere sul dolore, o del progresso con la ‘p’ minuscola»[6].

Per quanto riguarda i rapporti sociali, dalle lotte del lavoro, in cui i colpi della repressione contro le leghe di resistenza operaia si traducevano sovente in forme inusitate di violenza (e Russell – da buon inglese whig, come amava definirsi – avrebbe dovuto ricordare che – proprio dalle sue parti – la battaglia per la democrazia sociale passò attraverso vere e proprie carneficine; iniziando a Manchester nel 1819, quando la carica del XV reggimento ussari trucidò undici manifestanti per il suffragio universale: il “massacro di Peterloo”), si è passati alla celebrazione dell’avvenuta ascesa del lavoratore a consumatore (che liberisti tipo Bruno Leini – derisori a propria insaputa – incoronavano niente meno che “sovrano” nella nuova Modernità dell’abbondanza). Semmai – a quest’ultimo proposito – qualche allievo di Pierre Bourdieu parlerebbe di “passaggio dallo sfruttamento all’emarginazione”, specie oggi che vengono analizzati in dettaglio gli effetti dei macroscopici effetti di impoverimento nella crescita delle diseguaglianze. La questione che ci porta a convenire con Russell per quanto attiene al decadimento dell’indipendenza di giudizio. Che Giorello ci ripropone sotto forma di un ricorrente incubo dei liberali ottocenteschi, da John Stuart Mill ad Alexis de Tocqueville: l’attentato alla libertà di pensiero rappresentato dalla cosiddetta “dittatura della maggioranza”; l’ottundimento della convinzione ad opera del conformismo[7].

Majority Rule o Few vs. Many?

La schiavizzazione attraverso l’uniformità incombe sia nella prospettiva di Mill e sia in quella di Tocqueville; entrambi pensatori del moderno, ma l’uno “benpensante” e l’altro intimamente “riluttante”. Se per il buon John la questione viene banalizzata a effetto ineluttabile quanto fortuito (auto-generato) della massificazione («un’invincibile inclinazione ad estendere sempre più l’impero della società sull’individuo»[8]), per il magistrato normanno alla scoperta della democrazia americana il discorso è assai più complesso; intuendone una matrice di certo non neutrale. Difatti il punto di partenza nella sua analisi del nuovo dispotismo è «una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su sé stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo». Ma subito si precisa, con una qualche concessione alla cultura del sospetto: «al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite. Assomiglierebbe all’autorità paterna se, come quella, avesse lo scopo di preparare l’uomo all’età virile, mentre non cerca che di arrestarlo irrevocabilmente all’infanzia»[9].

Del resto, Tocqueville studia la democrazia moderna statu nascenti, in presa diretta con il laboratorio all’opera “tra le maestose sequoie del New England”, dove si sperimenta per la prima volta una forma di reggimento partecipato in una società dei grandi numeri e dei grandi spazi. La democrazia dei moderni resa praticabile dall’invenzione politica della rappresentanza. Non a caso ad opera di quei Padri Fondatori – la “grande generazione” dei Jefferson, degli Washington e degli Adams, espressa dalla plutocrazia coloniale, che si definiva piuttosto “repubblicana” che non “democratica” – cui si deve la realizzazione (sottotraccia) dello straordinario meccanismo che «consente alle classi superiori di sfruttare l’energia dei ceti inferiori per perseguire i propri scopi». Secondo lo storico dell’Università di Boston Howard Zinn: «la Rivoluzione americana fu un’impresa geniale, e i padri fondatori meritano l’omaggio ammirato che è stato loro tributato nel corso dei secoli. Crearono il sistema di controllo nazionale più efficace dei tempi moderni e mostrarono alle future generazioni di leader i vantaggi che si ottengono associando il paternalismo al comando»[10].

Un gioco di potere che il viaggiatore, giunto nel 1831 dall’Europa, intuisce senza scandalizzarsi troppo (seppure cogliendo il rischio che si produca una sorta di “servitù ben ordinata”; cui – d’altro canto – la natura umana si rivelerebbe predisposta: «i nostri contemporanei sono continuamente travagliati da due passioni contrastanti: provano il bisogno di essere guidati e la voglia di restare liberi»[11]). Nel suo genere, la formidabile intuizione di psicologia politica, tradotta in governo delle masse, che diventerà “la via americana alla democratizzazione” in tutto l’Occidente.

Un tratto costitutivo e – si potrebbe dire – una costante.

La dialettica tra l’emergere di sempre nuove identità collettive favorita dalla vocazione pluralista del sistema, che lo strutturarsi della rappresentanza tende ad assorbire e limitare. Con le parole di Alessandro Pizzorno, risalenti a quasi quarant’anni fa, «ogni volta che il sistema si ristabilizza ci appaiono più insopportabili lo spreco e la perdita di ricchezza umana, quasi gli anelli del feed-back di riequilibrio operassero con maggiore durezza e, dissipando sempre di più preziose energie, si allontanassero a spirale dal terreno di una democrazia accessibile a tutti. L’orgoglio dell’invenzione politica occidentale, il pluralismo, ci appare destinato ad accrescere il cinismo fra i potenti, la segretezza fra i governanti e l’indifferenza fra i membri della città»[12].

Insomma, se la logica dichiarata dell’esperimento democratico sarebbe quella di riequilibrare le risorse dei pochi potenti con il peso dei molti senza potere, il paventato pericolo di una dittatura della maggioranza è solo l’oscuramento dialettico della permanente egemonia di quelle che un tempo si chiamavano “élites del potere”. Di coloro che orientano e controllano il “pensiero pensabile”.

La libertà di pensiero al tempo dei Big Data (e delle Fake News)

Insomma, la democrazia dei Moderni ha un cuore di tenebra, che si cela dietro a quanto Maurice Duverger definiva «le due facce dell’Occidente: l’ambivalenza della soppressione dei privilegi aristocratici accompagnata dalla creazione di nuove oligarchie attraverso la cristallizzazione legalizzata delle ineguaglianze economiche»[13]. Per il costituzionalista francese, “plutodemocrazia”: privilegio al vertice della ricchezza, nel cui cervello collettivo permane un senso inconfessabile di precarietà minacciata, che evolve in demofobia. La paura del demos, che spinge i gruppi dominanti a tenerlo a bada privilegiando l’uso di strumenti comunicativi (assai meno “costosidi quelli repressivi). Il meccanismo argomentativo smascherato da Michel Foucault precisando il ruolo della critica come «movimento attraverso il quale il soggetto si riconosce il diritto di interrogare la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di verità»[14]. Le pratiche camaleontiche del potere, che già nel 1951 Russell denunciava finalizzate a sequestrare libertà. E ne immaginiamo lo scoramento se avesse potuto prendere atto dello stato dell’arte sessant’anni dopo, nell’apoteosi di quanto Shoshana Zuboff, professore emerito alla Harvard Business School, denomina “capitalismo della sorveglianza”. Nella sintesi per MicroMega fatta da Francesca Bria, «la creazione dei grandi monopoli digitali oltre oceano, con un pugno di mega-imprese americane e cinesi che oggi si contendono la supremazia digitale»[15]; le cui piattaforme controllano a scopo di profitto le congerie di dati estratti grazie alle tecnologie dell’informazione (e alla centralizzazione di Internet, sempre meno spazio di libertà). «La digitalizzazione ha accresciuto in misura eccezionale le possibilità di raccolta dati. Il 90 per cento dei dati mondiali è stato generato negli ultimi due anni»[16]. Fenomeno da quantitativo a qualitativo.

Una minaccia mortale per la libertà di pensiero, mirata e incombente; dopo le tante denunce generiche del passato. L’imperio del GAFA (Google, Apple, Facebook, Amazon) e di multinazionali del Celeste Impero in forte crescita (Tencent, Alibaba e Baidu) che hanno acquisito «la capacità di aggregare, estrarre, analizzare e manipolare ingenti quantità di dati operando al contempo sofisticati programmi di machine learning e modelli predittivi per sfruttare l’intelligenza artificiale ed estrarre valore aggiunto»[17]. Ma, attenzione: la sorveglianza offerta non si applica solo a scopi securitari di governi e intelligence. Diventa il cuore dei nuovi modelli economici della società digitale in cui gli utenti-clienti vengono trasformati nel prodotto stesso. Forme sofisticatissime di colonizzazione della mente e violazione della privacy, che vanno dalla induzione subliminale di opzioni consumistiche allo stravolgimento delle scelte elettorali attraverso messaggi mirati altamente condizionanti. Dice qualcosa il recentissimo scandalo della partnership Facebook/Cambridge Analitica per determinare le scelte attese dai committenti in milioni di cittadini elettori. Dalle presidenziali USA alla Brexit?

Logistica e persuasione, filiere commerciali e organigrammi pubblici. Sicché «ormai i dati costituiscono il cuore della maggior parte dei rapporti di potere nell’economia digitalizzata»[18].

Perciò, mai come ora, nelle cosiddette “società avanzate” o a “capitalismo maturo” che dir si voglia, incombe la minaccia sulla libertà di giudizio. Come disinformazione e contraffazione dei modelli di rappresentazione. Con la realistica prospettiva – annuncia il massmediologo Evgeny Morozov – che «la regolazione algoritmica produrrà un tipo di governo in cui tutte le decisioni saranno lasciate alle aziende tecnologiche e ai burocrati»[19].

Il ritorno di Pangloss

Se il Liberalismo è “critica dei rapporti di dominio”, il primo terreno su cui contrastare l’oppressione diventa l’immateriale. Con una crescente difficoltà a individuare l’oppressore.

Visto che il paradigma elitista tradizionale risulta sempre meno convincente; soprattutto nella versione nevrotico-cospirativa che prospetta l’esistenza di un’improbabile Cupola segreta, dove verrebbero messe a punto strategie inconfessabili. Più realistico ritenere con Manuel Castells che «il dominio reale origina dal fatto che i codici culturali impregnano le strutture sociali in grado tale che il possesso di tali codici apre l’accesso alla configurazione del potere senza che sia necessaria una cospirazione dell’élite per bloccare l’accesso alle sue reti»[20].

Lo spirito del tempo, necessariamente funzionale alla riproduzione/conservazione dell’ordine vigente.

Quello che – invece – risulta ben chiaro è il tipo di mentalità collettiva funzionale al nuovo ordine, iconicizzata da Voltaire dando alle stampe nel 1759 il suo celebre pamphlet “Candide”: il tipo umano di Pangloss, il comico filosofo insegnante di metafisico-teologo-cosmolo-scemologia al servizio del barone Thunder-Ten-Tronckh, che con i suoi mirabili paralogismi rovescia i rapporti tra mezzi e fini, causa ed effetto. Caricatura della tautologia finalistica, per cui la funzione dei nasi è sostenere gli occhiali e quella delle pietre diventare castelli in Westfalia.

«È dimostrato – diceva – che le cose non possono essere altrimenti: poiché, tutto essendo fatto per un fine, tutto è necessariamente per il fine migliore»[21].

La conculcazione dell’idea di vivere nel “migliore dei mondi possibili” che sterilizza la critica e rimuove il pericolo dell’antagonismo da parte dei subalterni, le storiche frontiere della libertà. Dalla messa sotto controllo del Leviatano alle lotte del lavoro.

Per cui diventa particolarmente illuminante l’ultimo incontro di Giulio Giorello, con l’epistemologo anarchico Feyerabend. La cui battaglia contro ogni forma di prescrittività metodologica nella ricerca scientifica (e in polemica con il fondamentalismo epistemologico del suo maestro Karl Raymund Popper, che aveva soprannominato Al Poppuni), da «agente segreto che gioca la partita della Ragione allo scopo di minare la partita della Ragione (della Verità, dell’Onestà, della Giustizia, ecc.»[22], può ispirare la lotta di liberazione da ogni gabbia mentale in senso lato.

La tirannia dell’apparenza, contro cui un pensatore critico e irregolare, del calibro di Pierre Bourdieu (sulla scia di Michel Foucault: «problematizzare l’acquiescenza all’evidente»[23]), prescriveva la consapevolezza di come “tale evidente” «sia sempre costruito, a partire da poste in palio e rapporti di forza»[24].

NOTE

[1] Paul Feyerabend, “Come difendere la società contro la scienza” in Rivoluzioni scientifiche, (Aa Vv, a cura di Ian Hacking) Laterza, Roma/Bari 1984 pag. 213

[2] Roland Barthes, “L’ultimo degli scrittori felici” (1958) riprodotto nell’edizione di Candide curata da Riccardo Bacchelli, Oscar Mondadori, Milano 1988

[3] Alessandro Pizzorno, Le radici della politica assoluta, Feltrinelli, Milano 199 pag. 22

[4] Isaiah Berlin, Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli, Milano pag. 271

[5] G. Giorello, cit. pag. 55

[6] Robert Darnton, La dentiera di Washington, Donzelli, Roma 1997 pag. 37

[7] G. Giorello, cit. pag. 50

[8] John Stuart Mill, Della libertà, Sansoni, Firenze 1974 pag. 54

[9] Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, Scritti politici Vol. II, UTET, Torino 1968 pag. 812

[10] Howard Zinn, Storia del popolo americano, il Saggiatore, Milano 2005 pag. 47

[11] A. de Tocqueville, cit. pag. 813

[12] Alessandro Pizzorno “Il sistema pluralistico di rappresentanza” in L’organizzazione degli interessi nell’Europa occidentale (a cura di Suzanne Berger), il Mulino, Bologna 1981 pag. 413

[13] Maurice Duverger, Giano, le due facce dell’Occidente,Ediioni di Comunità, Milano 1973 pag. 13

[14] Michel Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997 pag. 40

[15] Francesca Bria, “Quale politica digitale per l’Europa”, MicroMega 2/2019

[16] Alec Ross, Il nostro futuro, Feltrinelli, Milano pag.193

[17] Francesca Bria ed Evgeny Morozov, Pensare la smart city, Codice, Torino 2018 pag. 177

[18] Ivi pag. 175

[19] Evgeny Morozov, Silicon Valley: i signori del silicio, Codice, Torino 2017 pag. 77

[20] Manuel Castells, La nascita della società in rete, Università Bocconi Editore, Milano 2002, pag. 477

[21] Volatire, Candide, cit. pag. 5

[22] Paul Feyerabend, Contro il metodo, Lampugnani Nigri, Milano 1973 pag. 29

[23] Michel Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1997 pag. 35

[24] Pierre Bourdieu e Roger Chartier, Il sociologo e lo storico, Dedalo, Bari 2011 pag. 44
(21 maggio 2019)






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