I pericoli dell’infodemia. La comunicazione ai tempi del coronavirus

Nicola Grandi

* e Alex Piovan**

L’infodemia da COVID-19

Nelle ultime settimane, il COVID-19 ha stravolto le nostre abitudini, ha drasticamente modificato le nostre priorità e anche la nostra percezione della realtà. Il mondo, visto dalla finestra di casa e dal monitor del PC, ha un aspetto diverso. Questa vicenda, si dice, segnerà una generazione in modo irreversibile, come è accaduto per i nostri nonni con la guerra (o le guerre, in qualche caso). C’è però un aspetto che distingue la situazione che viviamo attualmente dalle poche situazioni paragonabili verificatesi negli scorsi decenni: alla pandemia, oggi, si associa quella che viene definita un’infodemia, cioè la diffusione di una quantità di informazioni enorme, provenienti da fonti diverse e dal fondamento spesso non verificabile. Esattamente come i virus, oggi le notizie si diffondono in modo rapidissimo e attraverso canali molteplici. Il ‘contagio informativo’ ha l’effetto di rendere assai più complessa la gestione dell’emergenza, in quanto pregiudica la possibilità di trasmettere istruzioni chiare e univoche e di ottenere, quindi, comportamenti omogenei da parte della popolazione. Ciò marca una differenza epocale rispetto alle emergenze globali, non solo sanitarie, del passato, quando la maggior lentezza di trasmissione delle notizie e il numero limitato di mezzi di comunicazione permettevano di reagire in modo più ordinato.

Il COVID-19 ci pone di fronte a due situazioni di difficoltà inattese, entrambe legate al progresso culturale e tecnologico che ha caratterizzato la vita dell’uomo sulla Terra: una, dai risvolti drammatici, legata alla difficoltà di arginare il contagio e bloccare la diffusione del virus; l’altra determinata dalla difficoltà di contrastare la proliferazione di notizie e informazioni che spesso deformano la realtà. Se la prima emergenza richiede uno sforzo immediato enorme, in quanto ne va della salute e della vita delle persone, la seconda impone una riflessione che ci permetta di capire come sviluppare gli ‘anticorpi’ necessari per orientarci nel bombardamento mediatico cui siamo sottoposti. Comprendere la comunicazione al tempo del COVID-19 non è irrilevante per gestire in modo più efficace gli interventi pratici e concreti che l’emergenza impone.

Oggi la complessità della comunicazione è talmente articolata da rendere velleitario il tentativo di descriverla in modo esaustivo. Tra tutte le prospettive possibili, almeno due paiono significative per una prima ricognizione. La prima è quella del mittente. In questo quadro, pare legittimo distinguere tra figure istituzionali (tra le quali, oltre a Governo, Istituto Superiore di Sanità, Protezione Civile, ecc. potrebbero essere annoverati anche esponenti del mondo medico-scientifico), professionisti della comunicazione (giornalisti e, forse, divulgatori) e una terza macrocategoria ‘altro’ nella quale far confluire gli autori di tutto ciò che ‘fa comunicazione’ e che non rientra nelle due precedenti (quindi, ad esempio, gli autori di video, meme, messaggi vocali, post, ecc.). La seconda prospettiva riguarda, inevitabilmente, il mezzo utilizzato. Anche in questo caso si distinguono almeno tre possibilità: mezzi di comunicazione istituzionali (il sito del Governo, del Ministero della Salute, ecc.), organi di stampa (quotidiani, trasmissioni televisive, ecc.) e social media e social network (nell’accezione più ampia: Facebook, Twitter, Whatsapp, ecc.). Questi ultimi, che rappresentano la grande novità rispetto al panorama della comunicazione che ha fatto da sfondo alle precedenti emergenze globali, si collocano su un piano leggermente diverso rispetto alla comunicazione istituzionale e agli organi di informazione, in quanto, rispetto ad essi, giocano anche, spesso soprattutto, il ruolo cruciale ora di filtro, ora di cassa di risonanza.

Queste due prospettive sono inevitabilmente intrecciate, anche se in modo diverso. Ad esempio, un intervento del Presidente del Consiglio può essere diffuso sia dal sito istituzionale del Governo, sia dagli organi di stampa, sia dai social media e dai social network. Al contrario, un post su Facebook di una figura non istituzionale o professionale difficilmente uscirà dai confini dei social. Ma questo non significa che avrà una diffusione inferiore. Anzi…

Per avere un quadro più chiaro, conviene trattare separatamente le tre forme di comunicazione e limitarsi, per ora, a quella scritta, più facilmente analizzabile rispetto a quella parlata.

Per la comunicazione istituzionale, occorre prendere le mosse da un dato particolarmente eloquente: in Italia, la percentuale di utenti abituali del web che fanno riferimento prioritariamente ai canali di comunicazione istituzionale è sensibilmente inferiore a quella di altri paesi europei, come la Germania o la Francia. Questo significa che l’italiano medio ricorre in modo sistematico a fonti di informazione alternative a quelle ufficiali. In Italia, cioè, l’infodemia trova terreno particolarmente fertile e attecchisce più che altrove. Questo, di per sé, è già uno spunto di riflessione utile. Le spiegazioni di questa propensione possono ovviamente essere molteplici. Dal punto di vista strettamente linguistico, l’analisi della comunicazione istituzionale restituisce qualche risultato utile a comprendere il quadro.

Occorre, tuttavia, una premessa: le parole di una lingua non sono tutte uguali e non sono accessibili allo stesso modo. Tutti i parlanti di una lingua hanno la sensazione che alcune parole siano più facili e frequenti di altre. E tutti si imbattono, talora, in una parola di cui ignorano il significato, che rappresenta dunque un ostacolo alla comprensione di un testo. Tullio De Mauro ha cercato di quantificare questa ‘stratificazione’ del lessico dell’italiano e ha mostrato come circa il 96% delle produzioni linguistiche quotidiane degli italiani sia occupato da poco meno di 7.000 parole. Le altre 193.000 occupano appena il 4% della nostra attività comunicativa. Insomma, un parlante mediamente istruito conosce decine di migliaia di parole, ma di fatto usa quasi sempre poche migliaia di parole, sempre le stesse.

Le 7.000 parole più ricorrenti rappresentano il vocabolario di base della nostra lingua, quella porzione del lessico comprensibile praticamente a tutti i cittadini, senza alcuna distinzione. Le altre parole, invece, hanno gradi di comprensibilità e accessibilità in media molto più ridotti: sono parole spesso ‘di nicchia’, legate in modo esclusivo a particolari argomenti o a situazioni molto formali. Sulla base di questi calcoli, attraverso alcuni software (ad esempio Corrige o READ-IT) è possibile valutare il grado di leggibilità di un testo, cioè capire quanto un testo possa essere compreso dai destinatari a cui si rivolge. Il grado di comprensibilità di una produzione linguistica dipende, tra le altre cose, dalla percentuale di vocabolario di base da cui è composto: più è alta, più il testo è comprensibile.

Nel giro di tre giorni, tra l’8 e l&rsquo
;11 marzo, sono stati emanati tre DPCM. L’indice di leggibilità media dei tre decreti è molto basso, attorno al 38%. Non dissimile è il livello di accessibilità dei comunicati presenti sul sito del Ministero della Salute e dell’Istituto Superiore di Sanità, a cui tutti siamo invitati a fare riferimento in via preferenziale. Questo significa che i testi redatti da figure istituzionali sono quasi pienamente accessibili a chi ha la laurea, sono comprensibili con qualche difficoltà per chi ha frequentato un liceo e sono pressoché illeggibili per chi ha un titolo di studio diverso o inferiore. Se pensiamo che siamo una delle popolazioni d’Europa (e non solo) con il minor tasso di laureati si comprende perfettamente la assai limitata efficacia comunicativa di questi interventi istituzionali. E, di conseguenza, l’inevitabile migrazione dei cittadini verso canali di informazione alternativi e non verificati. Da cosa dipende questa scarsa leggibilità? Ad esempio, dall’uso di termini come assembramento (in luogo, ad esempio, di gruppo o folla), di dimora in luogo di casa; da costrutti sintattici complessi come l’uso pervasivo dalla forma passiva al posto dell’attiva.

Un caso emblematico è il ricorso a dispnea nei primissimi elenchi ufficiali di sintomi del virus, prodotti o ospitati anche dal sito del Ministero della Salute (ad esempio qui). Su Twitter in particolare, il ricorso ad un termine così specifico e tecnico ha suscitato più di una reazione di rabbia e l’invito a ricorrere ad espressioni più trasparenti, come difficoltà a respirare o addirittura fame d’aria.

Più alti sono invece i valori di accessibilità dei post Facebook del Premier (ad esempio questo o questo): in questo caso, evidentemente, la natura del mezzo ha determinato la scelta di uno stile meno complesso e di un lessico meno tecnico e un conseguente allargamento della base dei lettori potenziali. La conseguenza indiretta di ciò, però, è un aumento della diffidenza verso la sede ufficiale della comunicazione istituzionale e la legittimazione dei social come contenitore e, quindi, anche del loro contenuto. Qualunque esso sia. E questo, di certo, non ostacola l’infodemia, ma la rafforza.

Messaggi espliciti e messaggi ‘nascosti’

Se per quanto riguarda la comunicazione istituzionale non ci sono un prima e un dopo contagio in Italia, gli organi di stampa hanno cominciato ad occuparsi del COVID-19 quando ancora il virus sembrava un problema della Cina, quindi assai lontano da noi e non in grado di condizionare pesantemente le nostre vite. Proprio il confronto tra la comunicazione pre-Codogno e post-Codogno offre spunti di grande interesse. L’analisi di un campione di articoli relativi al coronavirus pubblicati online da Repubblica, dal Corriere della Sera e dal Fatto Quotidiano rivela come prima dell’individuazione del focolaio in Lombardia, l’indice di leggibilità degli articoli si attestasse, in modo uniforme, su valori attorno al 50%, decisamente superiori a quelli osservati per la comunicazione istituzionale, ma non ancora sufficienti a raggiungere la quasi totalità dei cittadini: il destinatario ideale di questi testi è in effetti un lettore abbastanza istruito e competente. Negli articoli compaiono di frequente tecnicismi, che non vengono spiegati o glossati. Insomma, si dà per scontata, nel lettore, una certa quantità di conoscenze pregresse, anche specialistiche. Siamo più o meno nella prima parte del mese di febbraio. L’idea di fondo è probabilmente che il tema, a quell’epoca, potesse coinvolgere solo chi aveva qualche legame, di natura professionale o per interessi personali, con la situazione che si stava delineando in Cina. Fino a quando il virus non valica i confini nazionali l’argomento non è presentato e gestito come se fosse di utilità generale. E non emerge la necessità di dover preparare ‘il grande pubblico’ ad un evento imminente di portata così traumatica.

Dopo l’esplosione del focolaio lombardo, il quadro cambia in modo netto e repentino soprattutto per il Corriere della Sera: l’indice medio di leggibilità degli articoli sul COVID-19 balza quasi al 65%, con una crescita nettissima. Ciò significa, concretamente, che gli articoli vengono redatti con uno stile completamente diverso e diventano leggibili per un pubblico potenzialmente molto più vasto. Inoltre, i tecnicismi vengono ora spiegati e parafrasati, in modo sistematico: il profilo del lettore ideale, dunque, non è più chi ha conoscenze pregresse o interessi sul tema, ma diviene il comune cittadino. Insomma, la questione è ora di interesse pubblico e la comunicazione del Corriere si adegua. Non quella di Repubblica e del Fatto Quotidiano, la cui leggibilità resta sostanzialmente invariata. Questo drastico mutamento di stile, per altro, viene premiato dagli accessi, che, stando ai dati di Google, aumentano in modo molto significativo solo per il Corriere (in modo lieve per il Fatto; non subiscono invece cambiamenti di rilievo per Repubblica).

Ma l’aspetto della comunicazione giornalistica che più colpisce, nel confronto tra il prima e il dopo Codogno, è quello delle informazioni trasmesse in modo esplicito e, soprattutto, implicito. Perché sono le informazioni implicite, più di quelle esplicite, a orientare l’opinione pubblica e, quindi, a innervare le infodemie. Una frase può attivare, in chi la legge o la ascolta, una serie di immagini mentali e di collegamenti che vanno ben oltre il suo significato letterale, anzi che si nascondono dietro ad esso. Si tratta, appunto, di significati impliciti, che, per così dire, entrano surrettiziamente nella mente di chi legge o ascolta. L’analisi dei contenuti nascosti ci permette di comprendere meglio l’effetto che la comunicazione ha avuto nelle reazioni dei cittadini rispetto a questa emergenza.

Per quanto riguarda i contenuti impliciti, possiamo ricorrere a due categorie: le presupposizioni e le implicature. Queste strategie comunicative sono quotidiane e intuitive: le adottiamo perché ne riconosciamo empiricamente l’efficacia; e sono pervasive quando parliamo di pubblicità e propaganda politica, nelle quali sottrarre un contenuto al vaglio critico può essere utile per spingere all’acquisto di un prodotto o convincere l’elettorato.

Le presupposizioni consistono nell’esprimere un contenuto come già noto all’ascoltatore. Per esempio, se un amico vi dicesse «la bellezza di questo libro sta nello stile», non vi starebbe dicendo esplicitamente di ritenere bello il libro, ma lo darebbe per scontato e condiviso: in questo modo un’informazione soggettiva viene veicolata come se fosse oggettiva. L’efficacia delle presupposizioni è dovuta al fatto che esimono l’emittente dall’assumersi la responsabilità del contenuto, che, dato per scontato, è messo al riparo dal vaglio critico.

Le implicature, invece, consistono nel meccanismo di ricostruzione di un messaggio da parte del destinatario. Se chiedessimo a un amico: «Lucia è a casa?» e lui ci rispondesse: «Ho visto la Panda azzurra sotto il suo palazzo», noi – magari aiutati dal sapere che Lucia ha una Panda azzurra e che di solito si sposta in macchina – ne im
plicheremmo che Lucia è a casa, anche senza sentirlo esplicitamente. L’efficacia delle implicature è dovuta a quello che in psicologia si chiama egocentric bias, ovvero la tendenza ad affidarsi con maggior tenacia e convinzione al proprio punto di vista e alle proprie idee e deduzioni. Ciò significa che se non è una pubblicità ad asserire, poniamo, la qualità di un prodotto alimentare, ma siamo noi a implicarla, ci sarà più difficile vagliare criticamente questa informazione, e la accoglieremo con più facilità. Per approfondire questi aspetti, rimandiamo il lettore al sito dell’OPPP, Osservatorio Permanente sulla Pubblicità e la Propaganda.

Un’ulteriore strategia usata spesso per rendere più comprensibile un contenuto complesso è la metafora. Le metafore, come insegna George Lakoff, uno dei più noti linguisti cognitivi, nonché autore dei saggi Moral Politics e Don’t think of an elephant!, entrambi relativi all’analisi del discorso politico, attivano delle ‘cornici mentali’ (dei frame), cioè un insieme di informazioni che ruotano attorno a un dato elemento. Quando usiamo una metafora, quello che facciamo è riversare su un elemento le informazioni che caratterizzano un altro elemento.

La comunicazione sulle epidemie ha maturato, negli anni, alcuni elementi costanti, che tornano anche nel caso del COVID-19. In un articolo pubblicato nel 2005 sulla rivista Social Science & Medicine, Patrick Wallis e Brigitte Nerlich hanno analizzato i frame attivati in 1153 articoli di cinque quotidiani inglesi, pubblicati tra la comparsa del virus SARS nel marzo del 2003 e la fine dell’epidemia a luglio dello stesso anno. Senza entrare troppo nel dettaglio, l’analisi rileva che i giornali usarono per lo più due metafore: quella del killer e quella del controllo. Vedere il virus come un killer significa quindi attribuirgli caratteristiche quali intenzionalità, alta letalità, pianificazione, imprevedibilità. Questo cosa comporta? Che anche le reazioni nei lettori saranno, almeno in parte, dovute a questo frame metaforico: un killer va identificato, tracciato, inseguito, catturato. Il frame del controllo, invece, è attivato da espressioni come investigazione, contenimento, misure, reazioni e, concretamente, si traduce nella legittimazione sociale dei metodi di gestione dell’emergenza, per esempio sul piano politico ed economico.

Per raccontare le epidemie sono molto frequenti anche le metafore della piaga (con echi biblici) e quella bellica. Quest’ultima, benché diversa, si sovrappone in parte a quella del killer, almeno per quanto riguarda l’idea di un’entità esterna – all’individuo o allo Stato – da combattere e sconfiggere. Già Susan Sontag analizzò criticamente l’uso di queste metafore in alcuni saggi sulla tubercolosi, il cancro e l’HIV/AIDS, ripresi nell’introduzione del paper di Wallis e Nerlich e raccontati anche in un articolo pubblicato il 22 marzo su Internazionale.

Immagini ricorrenti nella comunicazione sul COVID-19

Nella comunicazione relativa al COVID-19 incontriamo più o meno tutti questi frame metaforici, seppur con diversa frequenza e in diversi momenti. Sempre restando agli articoli delle tre testate nazionali citate sopra (Il Corriere della Sera, la Repubblica e Il Fatto Quotidiano) emerge una netta differenza tra i frame attivati prima e dopo che il virus si diffondesse in Italia.

Prima del focolaio lombardo, i frame attivati più frequentemente dalle scelte lessicali dei quotidiani rimandano alle dimensioni ‘locali’ del problema e sono sistematicamente associate alla Cina. Espressioni come il virus di Wuhan o il virus cinese e la descrizione del mercato di Wuhan attivano idea legate ai concetti di esotico e selvaggio e una diffidenza nei confronti dei viaggi da e per quella zona del mondo e, poi, per chi da quella zona proviene.

Dopo l’esplosione del contagio in Italia, il quadro delle informazioni nascoste cambia. Emerge, prevedibilmente, la metafora bellica, sia nei media ufficiali che nella comunicazione informale, in espressioni come “il fronte”, “la trincea”, “i soldati”, e fino alle dichiarazioni più esplicite come “siamo in guerra”. Questa metafora ha certamente lo scopo di creare coesione e di unire idealmente il popolo contro un nemico. Ma quando il nemico è invisibile, come in questo caso, è quasi inevitabile riversare la rabbia contro un obiettivo tangibile. Associando l’iniziale frame Cina e la successiva metafora bellica non era difficile aspettarsi qualche rigurgito razzista nei confronti della comunità cinese in Italia. (Questo aspetto è stato approfondito anche da Federico Faloppa e Vera Gheno, qui e qui).

L’evoluzione della metafora bellica è però particolarmente significativa, in quanto, successivamente, focalizza non tanto l’immagine del nemico (che, appunto, è invisibile), quanto, in modo più costruttivo, quella dei ‘soldati’ e dei ‘feriti’: i primi, sono i medici e gli infermieri; i secondi, i malati. Medici e infermieri, in particolare, appaiono sempre in divisa e portano sul volto le ‘cicatrici’ metaforiche, i segni della mascherina e dei dispositivi di protezione, come nel video diffuso da FNOPI. Tutto ciò, per altro, determina un forte e ritrovato senso di coesione sociale attorno a queste figure, che si manifesta esplicitamente nelle molte manifestazioni di solidarietà cui abbiamo assistito.

Compare anche l’immagine della resistenza, che sostiene e legittima l’invito a nascondersi, quindi a restare a casa. Ed appare, con nesso quasi causale, anche il frame del controllo, di cui si è detto sopra. L’associazione di questi frame concorre a delineare un contesto in cui si accettano o addirittura si invocano misure che altrimenti sarebbero percepite come al limite della tollerabilità

Queste immagini ritornano anche nelle più recenti comunicazioni istituzionali. Non nelle ordinanze, ovviamente, ma nei video messaggi e nei post sui social, soprattutto del Premier.

Sugli organi di stampa e nelle dichiarazioni dei politici esse hanno tuttavia un legame sistematico più forte con una profonda emotività: il dramma, la paura, l’emergenza, la minaccia, la crisi, anche economica. Ovviamente, queste immagini e questi frame possono essere veicolati anche in modo strumentalmente implicito, come si è detto sopra. Per esempio, un titolo come «Prove tecniche di strage», in prima pagina su Libero il 23 febbraio, attribuisce implicitamente una responsabilità – morale, politica – al Governo. «Il Nord nella paura» (Repubblica, 22 febbraio) descrive uno stato di cose dandolo per condiviso anziché asserirlo in modo esplicito. Altri, come «Vade Ret
ro, virus» (Libero, 22 febbraio) o «Contagi e morte: il morbo è tra noi» (Il Resto del Carlino, 22 febbraio) suggeriscono invece un elemento soprannaturale, misterioso, senza offrire alcuna informazione oggettiva (si sconfiggerà il virus intimandogli “vade retro”? Chi sono di preciso i “noi” tra i quali è il morbo?).

In questa sede non abbiamo preso in esame la comunicazione ‘altra’, quella dei social media e dei network, dove informazioni nascoste e implicite proliferano in modo pressoché incontrollato e particolarmente nocivo.

Cosa possiamo concludere?

Che certamente la pandemia ci ha colti di sorpresa e che lo Stato ha dovuto affrontare una situazione di emergenza non preventivata e del tutto nuova, con effetti a ricaduta su molti aspetti della vita dei cittadini. Tra gli effetti collaterali di questa situazione, l’infodemia è stata forse sottovalutata. Ciò che le recenti vicende dell’Italia insegnano è che gestire l’informazione è cruciale per l’effettiva applicazione dei provvedimenti. Gli atti comunicativi, specie nelle situazioni emergenziali, sono fondamentali. Un primo punto fermo da porre in evidenza è che esiste un legame di causalità diretta tra la scarsa ‘leggibilità’ della comunicazione istituzionale e l’infodemia, cioè la proliferazione e la diffusione di notizie che spesso alterano la realtà e ne danno un’immagine parziale o distorta. Questa infodemia colpisce di preferenza proprio chi fatica ad accedere ai canali ufficiali di comunicazione (istituzionali e scientifici, primariamente), che sono lo strumento per verificare la veridicità delle notizie. Chi non capisce è più fragile e vulnerabile. Perché una comunicazione scorretta crea dissonanze, le dissonanze creano panico e il panico spesso genera reazioni e comportamenti controproducenti. Ragionare sui meccanismi linguistici che accompagnano la comunicazione di istituzioni e stampa nell’emergenza può essere uno strumento utile per affrontare in modo più efficace, in futuro, situazioni complesse come l’attuale e per contribuire direttamente all’ecologia del discorso pubblico.

*Professore ordinario di Linguistica, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna **Studente magistrale di Linguistica, Università di Torino)

Questo contributo è il risultato di un laboratorio organizzato (in streaming) nell’ambito dell’insegnamento di Sociolinguistica dei corsi di laurea in Lettere e Scienze della Comunicazione dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. La raccolta e l’analisi dei dati sono il frutto del lavoro di Adriana Barbato, Augusto Bovesi, Ilaria Brocero, Nella Califano, Francesca Cappelli, Lorenzo Cavaliere, Melissa Capanni, Emanuela De Vita, Irene Falchini, Fabio Farina, Maddalena Ghiotto, Alessia Marras, Alessia Sulioti, Chiara Taiariol, Virginia Toccafondi, Luigia Tricase, Riccardo Varveri e Giorgia Zantei.

(26 marzo 2020)



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