I rider: sfruttati e senza diritti

Renato Fioretti



Il tempo trascorre inesorabile, i governi si susseguono l’un l’altro, senza apprezzabili segnali di discontinuità e le condizioni a tutela dei lavoratori sono ormai avviate verso un regime di totale subordinazione alle esigenze delle imprese.

Non è mia intenzione, però, in quest’occasione, ripercorrere le tappe di un processo che, inaspritosi nel corso dei primi anni 2000 – vedi “Patto per l’Italia” del 2002; legge 30/2003; D.Lgs. 276/2003 e legge 243/2004 (tutte norme realizzate in regime di “accordi separati” e con il consenso di Cisl e Uil) – e confermatosi, senza soluzione di continuità, con Monti (vedi legge 214/2011 e legge 92/2012) e Renzi (vedi Iobs act, di cui alla legge 183/2014), ha finito con il produrre condizioni di diffusa precarizzazione dei rapporti di lavoro, sostanziale “instabilità” degli stessi (nonostante il c.d. “contratto a tutele crescenti”) e un esercito di working poors1 che, in Italia come negli Usa, s’ingrossa sempre più.

Intendo, invece, affrontare un tema che ha, ormai, assunto notevoli dimensioni e rilevanza sociale.

Alludo a quel vero e proprio “esercito” di decine di migliaia di lavoratori che, già da alcuni anni, in sella alle loro bici o motorini, percorrono le strade delle nostre città – anche fino a notte inoltrata – per effettuare consegne a domicilio: i rider.

Premetto che, in particolare, quello della ristorazione e consegna di cibi pronti è, secondo le stime dell’Osservatorio eCommerce del Politecnico di Milano, un settore con un giro d’affari di oltre 200 milioni di euro l’anno ed è in continua e costante crescita2.

I principali operatori sono: il colosso inglese Deliveroo, Foodora, JustEat, Glovo e UberEats.

S’immagini che Deliveroo, nel corso del 2017, ha visto crescere il fatturato del 600 per cento a livello mondiale e ampliare la sua operatività3 in Italia (presente, oggi, in 14 città, rispetto alle 4 iniziali) in misura esponenziale (ordini aumentati di 18 volte in dodici mesi e clienti più che raddoppiati; + 120 per cento).

Ma come lavora un rider?

Di solito, i grandi operatori del settore svolgono la semplice funzione di intermediari, mettendo in contatto i ristoratori con il cliente consumatore a domicilio. Essi gestiscono, in sostanza, l’acquisizione dell’ordine e la fase di consegna attraverso i rider. Questi ricevono l’ordine di prendere in consegna il cibo ed effettuare la consegna attraverso una notifica sullo smartphone oppure tramite una telefonata.

Facile intuire che occorre la massima accortezza nello scegliere il percorso più breve per giungere all’indirizzo di consegna nel minore tempo possibile preservando al meglio la qualità del cibo da recapitare. Ultimata la consegna, si resta in attesa della chiamata successiva.

Si tratta, come anticipavo, di decine di migliaia di giovani e meno giovani (con un turn over molto elevato), necessariamente dotati di un mezzo a due ruote (l’auto sarebbe assolutamente antieconomica, con tutte le spese a proprio carico) e disponibili a garantire consegne 24 ore su 24; in altri casi fino a notte inoltrata.

Tutto avviene, di norma, senza alcun contatto fisico tra le parti. “Da quando ci si candida (on-line) a quando si è pronti per iniziare. Anche la firma sul contratto di lavoro è in forma digitale. Il cassone o la valigia per le consegne, la pettorina di riconoscimento e il porta smartphone da polso” – come dichiara un componente4 di “Deliverance Milano”, il Collettivo autonomo di fattorini e sindacato sociale organizzato del capoluogo lombardo – lo spediscono a casa, in comodato d’uso gratuito, oppure, più di frequente, con una cauzione di 65 euro da restituire con il primo stipendio”.

E ancora: “Ogni rider ha un punteggio legato all’affidabilità e qualità. La prima è determinata da ristoratori e clienti che lasciano una recensione sul lavoro svolto, dipende anche dal fatto che hai preso un turno e lo rispetti o, se non puoi, che almeno avvisi per tempo. Dipende anche dalla disponibilità: più sei disponibile più lavori”.

Non solo: “Pure i rider hanno un ranking, una sorta di posizione in classifica che viene determinata da un algoritmo. L’essere disponibile nelle ore calde, per intenderci dalle 20 alle 22, determina anche la possibilità di scelta dei turni; se hai il punteggio più alto, hai la priorità nello scegliere i turni che vuoi per la settimana successiva. Ma il punteggio dipende anche dalla disponibilità che dai. In definitiva, più lavori e più vantaggi hai così come riesci a gestirti meglio”.

È anche opportuno evidenziare che tutte le spese per la manutenzione del mezzo di locomozione (molte le bici, in aggiunta ai motorini), il carburante, la Rc-moto e il bollo sono sempre a carico del singolo rider. Per quanto riguarda, invece, le tutele per sé stessi e contro terzi, la situazione varia tra una piattaforma e l’altra; ma, di norma, ogni danno è a carico del rider.

Un punto fondamentale, naturalmente, è sempre stato rappresentato dalla tipologia contrattuale cui fare riferimento per l’instaurazione del rapporto di lavoro tra la piattaforma e il rider.

In questo senso, la stragrande maggioranza dei gruppi di food delivery ha sistematicamente fatto ricorso alla stipula di contratti di “collaborazione occasionale”; salvo chiedere, al raggiungimento della soglia massima di 5 mila euro di compenso, l’apertura della partita Iva

Ciò ha significato assenza di:

1) Retribuzione minima prevista da un contratto collettivo di lavoro;

2) Ferie e permessi retribuiti;

3) 13° e 14° mensilità;

4) Contributi previdenziali ed assistenziali;

5) Tutela in caso di infortunio e/o malattia professionale;

6) Tutela contro il licenziamento illegittimo;

7) Indennità di disoccupazione involontaria,

8) Tutela in caso di malattia;

che, tra l’altro, rappresentano, solo una parte dei diritti garantiti ai lavoratori subordinati.

Il tutto a fronte di quali guadagni? Sorvolando sui compensi “faraonici” indicati5 da Matteo Sarzana – che, per i rider che operano per conto di Deliveroo, riferisce di improbabili 12 euro l’ora – e riportando, invece, quelli presenti sul sito della UILTuCS (Coordinamento Net Workers), in data 16 aprile 2020, si rilevano valori che, presumibilmente, sono molto più prossimi alla cruda (e generalizzata) realtà. La fig. 1 (che segue) riporta la tabella, pubblicata a dicembre 2019 sul sito 24Plus de “Il Sole 24 Ore”, relativa ai compensi, diversificati in base alle diverse località, che Glovo corrisponde ai rider che collaborano con la piattaforma di consegne a domicilio.

Dalla stessa si deduce, a esempio, che una consegna per un rider di Glovo a Cagliari, entro un raggio di 2 chilometri e senza tempi di attesa o inferiori ai 5 minuti, produceva, nel 2019, un compenso lordo pari a 2 euro!

Si tratta, in definitiva, dell’ennesimo esempio, di una società “malata”, nella quale, in ossequio alle inique leggi del mercato, la competizione imprenditoriale trova una fondamentale valvola di sfogo nel comprimere i diritti dei lavoratori e ridurre – sempre e comunque – il costo del lavoro.

A questa condizione, si ribellarono alcuni dipendenti Foodora che, a Torino, nel settembre 2016, erano scesi in piazza per protestare contro paga e condizioni di lavoro e nel 2017 non avevano avuto rinnovato il rapporto di lavoro. Si rivolsero quindi al Tribunale di Torino chiedendo che gli fosse riconosciuto lo status di lavoratori subordinati; con tutto quanto ne discendeva, in termini economici, normativi e previdenziali.

Nel maggio del 2018, il giudice di primo grado respinse6 il ricorso dei sei lavoratori affermando la mancanza dei presupposti per la reintegrazione in quanto gli stessi erano da considerare, a tutti gli effetti, lavoratori autonomi.

L’anno successivo, invece, la Corte di appello7di Torino accolse il ricorso dei cinque rider che avevano dato seguito alla causa e stabilì che gli stessi, pur mantenendo la natura di lavoratori autonomi, avevano diritto, in termini di sicurezza, inquadramento professionale, limiti di orario, ferie e previdenza, allo stesso trattamento dei lavoratori subordinati.

La multinazionale tedesca, nel frattempo assorbita da Foodinho, fece ricorso contro la sentenza e il caso approdò in Corte di Cassazione.

Con sentenza definitiva8 la Suprema Corte confermò quanto sancito dalla Corte di appello: “Le prestazioni dei rider rientrano tra le “collaborazioni etero-organizzate” alle quali va applicata la disciplina del lavoro subordinato”.

Anche in Spagna, da cui ha cominciato la propria attività Glovo, è stata recentemente depositata una sentenza sullo status dei rider che, sostanzialmente, suona molto simile a quella della nostra Cassazione: “I rider sono falsi autonomi”!

Perfino in piena pandemia i rider hanno fatto sentire la propria voce. Lo hanno fatto, in particolare, a Firenze, Roma e Bologna, chiedendo ai rispettivi Tribunali che le diverse piattaforme li dotassero dei DPI (dispositivi di Protezione Individuale) e, in tutti e tre i casi, i Tribunali hanno dato loro ragione.

Anche il sindacato mostra interesse nei confronti di queste nuove attività che alcuni, nel tentativo di ridimensionarne la portata e la diffusione, definiscono “lavoretti”.

Non la pensa così la Nidil/Cgil che, nell’aprile del corrente anno, ha chiesto – invano – di incontrare Assodelivery, l’associazione di categoria che raccoglie le principali piattaforme per le consegne a domicilio.

Intanto, risale allo scorso 1° maggio il lancio della piattaforma comune “Diritti per i rider9”, attraverso la quale, gli operatori di diverse città italiane: Milano, Firenze, Roma, Napoli, Bologna e Palermo, rivendicavano, tra l’altro, il riconoscimento del loro ruolo essenziale attraverso la stipula di un contratto collettivo di settore. Così come, in passato, nel novembre 2017, già richiedevano i rider affiliati a Deliveroo Italy di Milano, in una lettera10 attraverso la quale chiedevano, in buona sostanza, l’applicazione del Ccnl dei Trasporti e Logistica, l’abolizione delle false collaborazioni e partite Iva, il pagamento di 7,50 euro netti all’ora di salario garantito, un monte ore minimo garantito di almeno 20 ore settimanali, il riconoscimento di alcune indennità e il rimborso delle spese di mantenimento del mezzo di locomozione.

Intanto, per andare incontro alle esigenze dei rider si sono mosse anche alcune Istituzioni locali e qualche organizzazione privata.

A Bologna, nel maggio del 2018, fu sottoscritta una “Carta dei diritti fondamentali dei lavoratori digitali nel contesto urbano” per avviare soluzioni etiche per la consegna a domicilio.

Nel 2019, a Bari, su iniziativa del Comune e promosso dal Circolo Zona Franka, in collaborazione con la Nidil/Cgil, nacque il progetto “Riders on the storm”, per offrire ai rider uno spazio di aggregazione, uno sportello sindacale e assistenza per le biciclette.

L’assessorato al lavoro della Regione Lazio pensa, infine, a una legge regionale che riconosca, se possibile, tutele aggiuntive – di natura sanitaria, previdenziale e assicurativa – a quelle eventualmente stabilite tra le parti.

Di natura diversa, la decisione dell’ASAPS11 di istituire un osservatorio “Incidenti Rider Food Delivery” al fine di raccogliere i dati relativi agli incidenti (mortali e più gravi) che coinvolgono quei fattorini che operano quotidianamente sulle nostre strade; con ritmi sempre più veloci e stressanti.

Dal rapporto12 relativo al 2018 si evincono incidenti stradali che causarono tre decessi (a Bari, Pisa e Verona) e due gravissimi infortuni (a Milano e Venezia).

Nel corso dello scorso anno si registrarono incidenti stradali che provocarono ben quattro decessi e ventuno ferimenti; con sei rider in prognosi riservate.

La città nella quale si registra il maggior numero di sinistri è Milano.

Intanto, un altro aspetto – da non sottovalutare – è relativo al fatto che, purtroppo, anche questo settore ha, da tempo, attirato l’attenzione della magistratura: dalle carenti norme igienico-sanitarie nei contenitori che trasportano il cibo, al mancato rispetto delle tutele contrattuali e all’inosservanza della sicurezza sulle strade e nel lavoro. Senza tralasciare ipotesi di reati di maggiore rilevanza sociale: dal c.d. “caporalato digitale”, all’occupazione di lavoratori stranieri irregolari; fino al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.


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È in questo senso che, alla fine del 2019, la Procura di Milano avviò una specifica indagine – attraverso controlli a campione – dalla quale emerse una forma di vero e proprio caporalato13 a danno di “braccianti metropolitani” (di norma, stranieri irregolari) che, per 2/3 euro a consegna, svolgono il servizio “per conto terzi” (ufficiali sottoscrittori del rapporto di collaborazione con la piattaforma).

In tale contesto, è sconcertante rilevare l’insistenza con la quale qualcuno – tra gli esperti e gli addetti ai lavori – pretende di affermare, invece, il principio secondo il quale i rider “stavano meglio quando stavano peggio”!

Ciò nel senso di considerare la sentenza 1663/2020 una sorta di “incidente di percorso” e convincerci che la condizione di lavoratore autonomo sarebbe la migliore possibile per i rider. Sino ad arrivare, addirittura, a sostenere che questa soluzione sarebbe la più gradita agli stessi lavoratori.

A questo riguardo, non sorprende ritrovare, tra i sostenitori di questa posizione, un teorico già distintosi nell’opera di sostanziale deregolamentazione dell’art. 18 dello Statuto, nonché ideatore del famigerato “Contratto a tutele crescenti”; che, in realtà, di tutele, a favore dei lavoratori interessati, ne offre ben poche!

Alludo allo stesso Pietro Ichino che, nel nome del superamento di quello che amava definire “il dualismo” esistente nel mercato del lavoro italiano –

tra lavoratori cui si applicava la c.d. “tutela reale14” e coloro che ne erano privi, definendoli, rispettivamente, lavoratori di serie “A” e di serie “B” – sosteneva (giustamente) l’esigenza di rimuovere la causa di tale ingiustizia.

Peccato, però, che, al fine di ripristinare la parità di diritti, suggerisse di “retrocederli” tutti!

Ciò che, in sostanza, fu poi realizzato dal governo Monti – attraverso la legge 92/2012 (riforma Fornero) – riservando l’applicazione della “reintegra” esclusivamente ai casi di licenziamenti discriminatori che, come a tutti noto, prevedendo l’onere della prova a carico del lavoratore, sono difficilissimi, se non impossibili, da comprovare.

Non sorprende, quindi, che, nella sua furia iconoclasta, contro le modifiche apportate (dall’attuale Esecutivo) al decreto legislativo 15/6/2015, nr. 8115 – che, in sostanza, profeticamente, avrebbe anticipato la base teorica su cui, successivamente, poggiare la sentenza 1663/2020 – l’ex Senatore Pd si esprimesse, addirittura, in termini di “smania protettiva16” (espressa dai consiglieri del Ministro del Lavoro, nei confronti dei rider) e di “colpo di mano normativo”.

E non solo questo: contestava persino le due indennità risarcitorie previste: l’una nel caso in cui il contratto di lavoro del rider non fosse stato stipulato per iscritto e l’altra relativa alla maggiorazione per il lavoro notturno e festivo.

Una posizione, a mio parere, semplicemente paradossale; quasi “voce dal sen sfuggita”, se espressa da un cultore del Diritto del lavoro!

NOTE

 

1) “Lavoratori poveri”; cioè coloro che, pur avendo un’occupazione, si trovano a rischio di povertà e di esclusione sociale

2) Fonte: “Quotidiano.Net”; del 16/4/2018, articolo a cura di Claudia Marin

3) “ “ “ “ “ “

4) Fonte: “Osservatorio Diritti”; del 9/1/2019, articolo a cura di Cristina Maccarone

5) Fonte: “Lavoro Diritti Europa”; del 25/3/2019

6) Sentenza 7 maggio 2018, nr. 778

7) Sentenza del 4 febbraio 2019, nr. 26

8) Sentenza del 24 gennaio 2020, nr. 1663

9) Veronica Ulivieri; su “Osservatorio diritti”, del 1° maggio 2020

10) Fonte: “La dura vita da rider”, di Marta Fana, su “Il Fatto Quotidiano web”, del 21 novembre 2017

11) Associazione Sostenitori Amici Polizia Stradale

12) Fonte: “Quanti rider sono morti consegnando cibo?”, di Stefano Barricelli, (04/11/2019)

13) Fonte: “I ciclomotori italiani raccontano il caporalato digitale”; articolo di Giada Ferraglioni, su “Economia e Finanza” del 21/9/2019

14) Ai sensi del vecchio art. 18 della legge 300/70, in caso di sentenza di licenziamento individuale illegittimo, il giudice disponeva la “reintegra” del lavoratore e un risarcimento economico corrispondente alla mancata retribuzione, dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione; compreso il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali

15) Attraverso il decreto legge 3/9/2019, nr. 101; convertito, con modificazioni, nella legge 2/11/2019, nr. 128

16) Fonte “lavoce.info”; del 25 ottobre 2019

(22 giugno 2020)





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