Le proposte di archistar come Fuksas e Boeri da un lato, le istanze che arrivano dalle aree interne dall’altro. In pieno dibattito sul post pandemia, l’intervento di Fausto Carmelo Nigrelli, professore ordinario di Tecnica e Pianificazione Urbanistica dell’università di Catania, che analizza i rischi di un rilancio “metropolitanocentrico” dei borghi.
Mentre si avvicina la data di avvio della cosiddetta Fase 2, si moltiplicano le riflessioni, le proposte e perfino gli slogan per il Day After, insomma per il “dopo” da molti paragonato al dopoguerra sebbene ci sia una sostanziale differenza: dal conflitto mondiale l’Italia usciva con l’economia quasi inesistente e il Paese a pezzi: con ampie parti di città rase al suolo dai bombardamenti, con le infrastrutture stradali e ferroviarie in buona parte inutilizzabili, con la capacità produttiva industriale ridotta di un quarto, con il problema della massiccia migrazione interna dalle campagne verso le città. Oggi niente di tutto ciò. La ripartenza, dunque, sarà certo difficile, ma non dovrà pagare quel tipo di gap iniziale.
Il problema è semmai un altro: l’asimmetrica distribuzione di stabilimenti, di infrastrutture (comprese quelle digitali), di servizi, di opportunità. E questa asimmetria potrà, accentuarsi o potrà essere ridotta. Dunque il problema è politico, prima che economico. La ripartenza verrà avviata sugli stessi binari dell’economia iperliberista che ha accentuato il divario tra nord e sud, tra poli metropolitani e aree interne? Che ha prodotto il territorio fragile e le città vulnerabili che oggi ci chiedono il conto? Oppure sarà l’occasione per un cambio di paradigma, un cambio di visione e un cambio di strategia?
A me pare che questa sia l’occasione irripetibile per questo secondo percorso che non potrà che essere territorializzato, cioè costruito a partire dalla ricaduta che ogni singola azione, e tutte nel loro complesso, avranno sul sistema insediativo, sulla estensione e qualità del suolo non impermeabilizzato, sulla distribuzione di attrezzature e servizi e, in ultima analisi, sulla valorizzazione senza compromessi delle comunità e dei territori “scartati” dal modello economico e culturale vincente negli ultimi 40 anni.
Occorre un piano strategico nazionale, quindi da imporre alle regioni, con una prospettiva ventennale e piani di attuazione nei vari settori con obiettivi temporali brevi e significativamente convergenti.
Negli ultimi giorni un gruppo di scienziati, architetti e informatici di cui il Frontman è Massimiliano Fuksas, ha scritto al presidente Mattarella chiedendo che nella fase di ripartenza si metta mano alla riprogettazione delle case, dei luoghi di lavoro, degli ospedali. Tutte cose necessarie, non c’è dubbio. Ma che non servono a ridurre i rischi derivanti dalla iperconcentrazione di uomini, attività, mezzi, funzioni. Servono semmai a facilitare la cura della malattia quando questa è esplosa.
E Stefano Boeri, autore di quel “bosco verticale”, grattacielo che assorbe CO2 e produce ossigeno a costi non proprio ridotti per chi ci abita, ha ipotizzato un “grande progetto nazionale” che, oltre che intervenire sugli spazi dell’architettura, si occupi del ripopolamento dei borghi abbandonati che dovrebbero essere “adottati” dalle 14 aree metropolitane italiane e ha anche ipotizzato l’istituzione di un “ministero della dispersione”.
Anche queste due visioni sono metropolitanocentriche: nel primo caso le aree interne, i borghi, sarebbero quasi dei “giardini di delizie” per quella parte di cittadini metropolitani che, avendo una seconda casa e reddito adeguato, vi si trasferirà utilizzando le potenzialità del lavoro a distanza per periodi più o meno lunghi. Nel secondo l’attenzione viene posta su quella sterminata parte del territorio italiano che è stata invasa, a partire dalla fine degli anni Settanta, da milioni di molecole edificate, per risiedere, per lavorare, per acquistare, per svolgere in forma individuale le funzioni tipicamente urbane e collettive, sfruttando l’automobile come quasi esclusivo mezzo di trasporto. Estrema conseguenza della prevalenza dell’individuo sulla comunità, la città dispersa rischia di avere una seconda vita come risposta alla densità metropolitana.
Anche in questo caso ho l’impressione che il problema debba essere affrontato, ma non costituisce il necessario cambiamento radicale delle politiche che hanno condotto alla débâcle attuale del sistema insediativo europeo e italiano in particolare.
Il modello dell’abitare dei prossimi decenni dovrà coniugare: il distanziamento sociale non come imposizione per decreto, ma come adattamento nei comportamenti degli umani conseguente alla nuova condizione di insicurezza percepita; la necessità di socialità e di prossimità dei corpi che, comunque non potrà e non dovrà essere sostituita da quella virtuale; la sicurezza reale di fronte a probabili nuove epidemie.
E potrà e dovrà essere l’occasione per avviare a soluzione il problema di sempre: la diseguaglianza tra nord e Mezzogiorno, tra poli e aree interne.
Una visione che rimetta al centro i “territori/paesaggi scartati” perché non rispondenti al mainstream degli ultimi decenni consentirebbe queste risposte e offrirebbe un originale modello di progresso al Paese. La vita urbana nella provincia italiana, nelle aree interne è ricca di socialità, di solidarietà, di salubrità sconosciute nella vita metropolitana; la rete di valori immateriali e di patrimonio territoriale disseminata fuori dai territori della dispersione urbana è inestimabile.
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Così come dopo i terremoti per cinquant’anni si ricostruisce seguendo criteri antisismici e poi, magari, dopo un paio di generazioni, dimenticata la paura, si abbandonano quegli insegnamenti, così credo che per un paio di generazioni la socialità avrà forme inedite. A queste nuove forme di socialità le piccole e medie città delle aree interne e, più in generale, i loro territori offrono il luogo, sperimentato per secoli, in cui tenere insieme rapporti umani e relazioni in remoto. Se c’è qualcosa che la quarantena ha reso evidente è che tanti lavori – soprattutto intellettuali – si possono svolgere in remoto e che, pertanto, non è necessario concentrare nei poli metropolitani funzioni amministrative, legate all’economia della conoscenza, di ricerca; che le reti dei servizi essenziali, a cominciare da quelli sanitari, deve essere capillare e uniformemente diffusa nel territorio; che il commercio di prossimità può avere una seconda chance nello scontro con i mega centri commerciali.
Con l’aggiunta – e non è cosa da poco – di potere immaginare una ripartenza decisa dell’economia primaria, nella logica di una maggiore autonomia dalle importazioni alimentari e di crescita delle filiere corte, e di riprendere, finalmente, la manutenzione del territorio.
(23 aprile 2020)
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