Il 1° maggio e l’occultamento del lavoro
don Roberto Fiorini
*, da Adista 36/2011
Un lungo applauso è seguito alla lettura della sentenza che ha condannato per omicidio volontario i dirigenti della Thyssen di Torino. «È il salto più grande di sempre in tutta la giurisprudenza in materia di incidenti sul lavoro. Questa pronuncia deve far ben sperare i lavoratori e far pensare gli imprenditori», ha dichiarato il procuratore Guariniello.
Qualche mese fa, i familiari delle vittime sul lavoro si sono riuniti in convegno a Viareggio – dove la nuvola di Gpl esplosa dopo il disastro ferroviario ha provocato 32 vittime – per dire all’unisono: «La fatalità non esiste. 900mila incidenti l’anno, di cui 300mila gravissimi, escludono la fatalità». È come essere in una guerra infinita dove gli incidenti sul lavoro sono trattati, con disinvoltura, alla stregua degli inevitabili “effetti collaterali” dei bombardamenti. La sentenza di Torino, che ha infranto la tradizione di impunità di dirigenti e proprietari degli impianti con i lavoratori a rischio permanente, ha ridato fiato ai tanti familiari che in diverse parti d’Italia attendono giustizia per i loro congiunti morti sul lavoro o invalidi permanenti.
Basterebbe questo per ridurre al silenzio quanti vorrebbero espungere dalla Costituzione la parola lavoro e sopprimere la festa del 1° maggio. In realtà, far sparire dal vocabolario questa parola significa sanzionare, anche in termini giuridici, la perdita di valore del lavoro umano, che negli ultimi decenni si è consolidata. Nei Paesi industrializzati, la quota che remunera il lavoro è diminuita pesantemente a favore del capitale, oltre a premiare in maniera esponenziale l’élite dirigenziale, con effetti iniqui per gran parte dei lavoratori. «Se i rapporti di forza tra capitale e lavoro fossero quelli di 20 anni fa, per i 23 milioni di lavoratori italiani, vorrebbero dire 5.200 euro in più in media all’anno. Se consideriamo solo i 17 milioni di dipendenti, vuol dire 7mila euro tondi in più in busta paga» (M. Ricci). Si valuta in 120 miliardi di euro il trasferimento dai salari ai profitti avvenuto in Italia, solo in parte reinvestiti in innovazioni tecnologiche, molto più in prodotti finanziari di tipo speculativo o in destinazioni extra-produttive. Con il risultato di una pesante perdita di competitività e produttività dell’Italia, rispetto agli altri Paesi europei.
Il deprezzamento del lavoro, oltre a incrementare il fenomeno dei working poors (poveri al lavoro), tra gli operai e il ceto medio, provoca la caduta del valore morale e sociale del lavoro stesso, con un disorientamento che rende fragili dinanzi alla richiesta di rinunciare ad alcuni diritti in cambio di un po’ di reddito. Pessimo campanello d’allarme per la democrazia, perché «lavoro, uguaglianza politica, rispetto e libertà individuale sono intimamente connessi. L’associazione del lavoro al diritto non può essere considerata come un optional del quale si può fare a meno, ma è a tutti gli effetti un fattore di stabilità democratica» (N. Urbinati).
La festa dei lavoratori, nella sua storia più che secolare, è sorta e si è costruita come rivendicazione della dignità umana, che deve trovare spazio anche dentro gli ambienti di lavoro. Dignità spesso pagata a caro prezzo per le repressioni che si sono scatenate. Quel poco di umanizzazione che troviamo in ambito lavorativo, non è stato regalato da nessuno: è il frutto di lotte costose, di cui il 1° maggio porta la memoria. Vi è chi dice che tale festa sia ormai “superata”. Penso, invece, che l’eclissi del senso del lavoro, il suo occultamento sociale e il degradarlo a pura merce, siano una perdita secca, un segnale nefasto di decadenza di quella che chiamiamo civiltà. Invece, tutti i lavori devono venire alla luce, anche quelli non remunerati, i lavori-ombra come li chiama Ivan Ilich, essenziali per alimentare la quotidianità della vita. La festa è spazio e simbolo di un’umanità che, sospendendo produzione e consumo, scopre la propria irriducibilità ai meccanismi del mercato.
* Prete operaio in pensione e direttore della rivista Pretioperai
(29 aprile 2011)
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