Il 25 aprile è la festa nazionale perché antifascista

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di Paolo Flores d’Arcais
Il 25 aprile è la festa nazionale (dunque di tutti coloro che si riconoscono nell’Italia come loro patria), festa di cui quasi tutti i democratici hanno purtroppo perduto il senso e l’origine. È perciò essenziale richiamarlo.

Il 22 aprile del 1946 il governo provvisorio presieduto da Alcide De Gasperi stabilisce che ogni anno il 25 aprile sarà festa nazionale. Perché?

Perché il 24 aprile del 1945 il Comitato di Liberazione Alta Italia, cioè il vertice della Resistenza in armi, attraverso Radio Londra e ogni altra e più piccola emittente clandestina, dirama il seguente comunicato: “A tutti i comandi zona. Comunicasi il seguente telegramma: ALDO DICE 26 x 1 Stop Nemico in crisi finale Stop Applicate piano E 27 Stop Capi nemici et dirigenti fascisti in fuga Stop Fermate tutte macchine et controllate rigorosamente passeggeri trattenendo persone sospette Stop Comandi zona interessati abbiano massima cura assicurare viabilità forze alleate su strade Genova-Torino et Piacenza-Torino Stop 24 aprile 1945”.

Con questo comunicato veniva impartito l’ordine di insurrezione generale alle formazioni partigiane delle montagne e ai nuclei clandestini già presenti nelle città, per il 25 aprile all’una di notte (o una di mattina del 26, volendo), di modo che le truppe alleate che avanzavano trovassero le città già liberate dai partigiani, che in tal modo avrebbero conquistato la legittimità di nominare sindaci e prefetti, come in realtà avvenne nei giorni della Liberazione.

Dunque: il 25 aprile è festa nazionale perché si celebra la liberazione dal fascismo, la sconfitta del fascismo, e una sconfitta che vede la Resistenza con la sua significativa presenza non solo militare, ma anche e soprattutto politica, accanto agli eserciti alleati (americani, inglesi, russi, francesi del governo in esilio). Senza l’ordine di insurrezione, che portava a compimento due inverni di resistenza in armi e di inauditi sacrifici di morti, torturati, imprigionati, esiliati, la liberazione ad opera degli alleati avrebbe significato solo occupazione da parte delle truppe alleate. Fu solo grazie alla Resistenza se gli eserciti alleati si trovarono invece di fronte a istituzioni che traevano da quei due anni di lotta armata la loro legittimità, e con cui dovevano fare i conti e riconoscere.

Dunque, origine e senso del decreto del governo De Gasperi sono chiari: il 25 aprile è festa nazionale perché sconfitta dei fascisti e vittoria della Resistenza. Questo significa due cose.

Primo: la Resistenza è la fonte di legittimità delle istituzioni provvisorie, da cui, attraverso un referendum e la Costituente, nascerà la Costituzione repubblicana.

Secondo: il 25 aprile è la festa di tutti perché è la festa dell’antifascismo che vince e del fascismo che viene sconfitto. L’antifascismo è perciò il fondamento del patriottismo. La festa è nazionale, di tutti, perché è antifascista, e chi non la riconosce si pone al di fuori della nazione, al di fuori e/o contro la comune patria.

Hans Kelsen, il più grande giurista del secolo scorso, ha spiegato con adamantina logica come lo Stato sia un ordinamento giuridico nel quale ogni norma trova la sua legittimità e fonte in una norma di livello superiore, fino alla Costituzione, che non può a sua volta dipendere da una norma, ma trova la sua fonte di legittimità in una Grundnorm, o norma fondamentale, che non è una norma ma un fatto storico, il fatto fondativo. Questo fatto fondativo è dunque il fondamento di legittimità dell’interno edificio.

La Grundnorm dello Stato italiano, il fatto storico che legittima tutto l’edificio, è esattamente la Resistenza antifascista, i due anni di lotta armata. E non a caso il governo De Gasperi stabilisce, prima ancora della promulgazione della Costituzione, che il 25 aprile, giorno dell’insurrezione vittoriosa e della sconfitta del fascismo, sia la festa nazionale.

Dovrebbe essere tutto chiaro. E invece tutto questo viene dimenticato, rimosso, calpestato, contraddetto, o nel meno peggiore dei casi comunque messo tra parentesi, senza rendersi conto di cosa ciò comporti.

E infatti. Poiché l’antifascismo è la Grundnorm, il factum storicamente ineludibile, su cui poggia la legittimità costituzionale e quella di tutta la stratificazione gerarchica delle norme che costituiscono lo Stato, il venir meno dell’antifascismo comporta il venir meno della legittimità di tutto il nostro ordinamento democratico. I democratici, più o meno coerenti, se ne rendono sempre meno conto, mentre ne sono perfettamente consapevoli le destre eversive e l’ampio alone su cui esercitano la loro egemonia, i tanti “detestatori” (o anche apoti, che “non se la bevono”) della Costituzione repubblicana (nata dalla Resistenza antifascista, appunto). Che infatti ripropongono continuamente la trasformazione del significato del 25 aprile nelle fogge più pretestuose e invereconde. “Detestatori” è brutto come nomen, ma sempre meno brutto della res di cui costituisce la consequentia.

Naturalmente l’aggressione contro la Grundnorm antifascista, e del resto contro l’applicazione effettiva della Costituzione stessa, si può dire sia cominciata immediatamente dopo la promulgazione della Costituzione, e certamente dopo che le elezioni del 1948 segnano la schiacciante vittoria della Democrazia Cristiana. Ma ha continuato ad essere accompagnata dal riconoscimento della Costituzione e dell’antifascismo come sua Grundnorm, arrampicandosi sugli specchi per spiegare che in realtà erano valori che non si volevano affatto negare nella pratica, tanto è vero che fu promulgata la legge Scelba, vanificata dalle sentenze della magistratura, in tradimento evidente della Costituzione, e più recentemente la legge Mancino. Un caso da manuale di ipocrisia come omaggio che il vizio paga alla virtù.


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Un colpo più recente e particolarmente micidiale è avvenuto quando Berlusconi nel 1993 appoggiò esplicitamente Gianfranco Fini come sindaco di Roma, cioè il capo de neofascismo che solo un anno prima aveva celebrato i settant’anni della marcia su Roma a piazza Venezia con l’intero armamentario di gagliardetti fascisti, saluti romani e eiaeiaalalà. Fu in tale occasione che a critica dei tanti democratici che denunciavano l’ovvio, cioè l’alleanza che Berlusconi stabiliva con i fascisti (neo, post, ex, come si preferisce), Massimo D’Alema sibilò che si trattava di estremisti, mentre Berlusconi non andava demonizzato. Il DNA del post-Pci aveva con ciò realizzato la sua mutazione di inciucio.

Quando un fondamento di legittimità viene meno si apre in una convivenza politica la più grave delle crisi, una crisi catastrofica, anche quando strisciante e dunque facile da non vedere, per chi manchi degli evangeli occhi, perché al vanificarsi della legittimazione storico/etico/politica si sostituisce la legittimazione dei meri rapporti di forza, cioè del più forte come nomos, che tuttavia non vincola nessuno. Un collasso in fieri. Se molti non se ne rendono conto in buonafede, bisognerà ricordare che per i politici e gli uomini di cultura la buonafede, in questi casi, è un’aggravante, perché significa cecità.

Buon 25 aprile di coerenza, perciò, a tutti i democratici che vogliono che l’Italia resti (o torni più pienamente ad essere) una democrazia.

(24 aprile 2020)




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