Il Belpaese e il suo Ethos. Le ineffabili trame dell’universo politico-giuridico
Giuseppe Panissidi
Non si ripeterà mai abbastanza che, nel nostro ordinamento giuridico-costituzionale, vige il principio della presunzione di “non-colpevolezza” fino a sentenza irrevocabile, uno dei più alti principi della moderna civiltà giuridica, meritevole del rispetto universale, comprensibilmente assai caro a incolpevoli e colpevoli. Se vogliamo opportunamente escludere la categoria dell’”innocenza”, scansando un’improprietà lessicale pseudo-romantica, già debitamente scartata nel contesto, originario e fondante, dei lavori dell’Assemblea Costituente, in armonia con la logica giuridica e gli ordinamenti democratici occidentali più avanzati.
Tanto doverosamente premesso, tuttavia, non è neppure possibile sfuggire a qualche intrigante domanda. E nulla sembra più pertinente, che prendere l’abbrivo da un recente episodio di cronaca, al fine di focalizzare il tema essenziale.
Secondo alcune studentesse liceali, un insegnante si sarebbe reso responsabile di reiterate molestie nei loro confronti e nei confronti di altre allieve. Fin qui, pure in costanza della palese gravità delle asserite condotte, nulla quaestio, se così si può dire. Un fattaccio oltremodo riprovevole, meritevole di tutte le necessarie verifiche e, se provato, delle giuste sanzioni di legge.
Se non che, subito dopo, la ragazza aggiunge: “A scuola lo sapevano tutti…”. Il letterale tenore delle sue parole suscita sgomento, ma non più incredulità. La nostra undicesima piaga biblica, non meno devastante della corruttela, anzi, sovente, sua concausa e precondizione. E’, infatti, oltremodo frequente, oltremodo, la scoperta postuma che “chi doveva sapere, sapeva”, ma ha preferito tacere e girarsi dall’altra parte, fingendo di non vedere, così provocando ulteriori e più gravi conseguenze alle persone e alle istituzioni. Flagrante la metastasi civile, in casi siffatti, nel degrado della morale omertà – “buonismo” non è che la trasfigurazione fantastica di un lemma invalso di recente, a scopo edulcorante intenso – a causa della violazione della legge penale, nella norma incriminatrice di cui all’art. 40 cp: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. A scanso di (comodi) equivoci, si consideri che l’”evento” in rubrica può consistere in qualsiasi fatto illecito, non necessariamente di indole penalistica. Al pari del “buonismo”, il perdono è fuori argomento, se lo stesso pontefice non esita a lanciare strali infuocati contro tanto nauseabondo marciume. Con buona pace di quanti invocano e propagandano il perdono “settanta volte sette”, fingendo di ignorare che il contesto evangelico di riferimento atteneva alla sfera dei rapporti privati, non già alla depravazione dei “peccati contro lo Spirito, contro la comunità e contro il mondo”, così marchiati dal papa Francesco, un noto giustizialista.
A tali vergognose pratiche nazionali del “lasciar correre”, nella culla del diritto, inerisce l’eloquente nomen iuris di “commissione omissiva”. Del resto, “sopire, troncare… troncare, sopire”, non è qui il fulcro di una grande “opera inquieta”, come Leonardo Sciascia definisce “I promessi sposi”? Il paradigma morale vincente, nel Paese della “vittoria” permanente di don Abbondio, il vero trionfatore del romanzo manzoniano, il suo autentico “lieto fine”, ancora Sciascia sulla medesima linea interpretativa eversiva del dimenticato Angelandrea Zottoli.
Ed ecco emergere prepotentemente il punctum dolens, e sembra di scoprire l’acqua calda. L’istituzione scolastica, piattaforma di crescita e formazione culturale e civile, vive e si nutre della relazione docenti-studenti. I docenti, però, a differenza degli studenti, rivestendo la qualità di pubblici ufficiali, sono soggetti a una specifica norma della legge penale, nella previsione dell’art. 331 cpp. Incombe ad essi l’obbligo giuridico della denuncia di qualsiasi fatto-reato di cui, nell’esercizio delle proprie funzioni, vengano a conoscenza e che, seppure astrattamente, corrisponda a una o più fattispecie legali perseguibili d’ufficio. Né giova precisare che la competenza a individuare la tipologia dei reati, anche rispetto al discrimine tra perseguibilità d’ufficio e necessità di un impulso di parte, appartiene unicamente all’ufficio del pubblico ministero, cui debbono pervenire le informative di reato, a pena di incriminazione del pubblico ufficiale deviante in ordine al delitto di omessa denunzia, commissione omissiva, per l’appunto, ovvero, nei casi più gravi, di favoreggiamento personale.
Ma, allora, se la ragazza afferma il vero, fino a prova del contrario, per quali misteriose ragioni si è resa necessaria la formalizzazione di un’iniziativa di denunzia da parte delle allieve? Per quali imperscrutabili motivi, prima di tale atto di natura privatistica, quanti erano a conoscenza hanno omesso di ottemperare all’obbligo giuridico in parola? Peraltro, anche a volerne prescindere, non risulta che sia stata avviata neppure la procedura disciplinare interna di rito. Inoltre, al di là dei profili strettamente legali, in situazioni siffatte nulla vieta di svolgere (almeno) opera di moral suasion. Perché disdegnare anche tale ‘pacifico’ intervento? Forse, al fine di evitare lo scandalo? Sovrana ipocrisia farisaica, la madre di tutte le colpe, non a caso, la sola capace di suscitare l’ira veemente e distruttiva del Cristo dei vangeli. Stranezze. Per un popolo di credenti.
“E’ inevitabile che vengano scandali, ma guai a colui a causa del quale vengono”.
Con ogni evidenza, se non altro, un’opportuna pietra d’inciampo avrebbe inibito all’insegnante la possibilità di protrarre nel tempo la violazione del comando giuridico, a tutela tanto delle allieve, quanto dell’istituzione, dimostrando, nel contempo, l’effettiva natura ‘istituzionale’ formativa della comunità scolastica di cui si tratta.
Giunti a tal punto, tuttavia, se proviamo a tirare le fatidiche somme, ci accorgiamo di incrociare sul terreno particolarmente scivoloso, se non minato, della “maledizione della conoscenza”, quasi uno stigma, da Leopardi a Thomas Mann. Ironia della (mala)sorte, infatti, proprio in questi giorni divampa un dibattito (a dir poco) surreale sul monotono refrain, al limite dell’angoscia, e pour cause, delle intercettazioni.
Ebbene, in certo qual modo, il relativo provvedimento in itinere sembra rispondere all’osservazione critica di quella ragazza. Sotto un certo profilo, difatti, il governo della Repubblica e il Parlamento esplicitamente assumono che il “sapere”, se fuori controllo, può anche trasformarsi in un male e che, in ogni caso, alcuni particolari contenuti della conoscenza debbono essere considerati “irrilevanti”, qualora non attengano stricto sensu a un fatto-reato. Perciò, in quanto privi di diritto di cittadinanza nel fascicolo processuale, non debbono venire acclusi agli ‘atti’.
Ora, non v’è dubbio che, talora, l’attività investigativa casualmente si imbatta e catturi un’ampia e variegata congerie di ban
alità e informazioni inutili e insignificanti. Irrilevanti, per l’appunto. La discussione, perciò, non può che spostarsi sul merito. Premesso che il previo lavoro di selezione da parte della polizia giudiziaria dev’essere comunque delibato dall’ufficio del pubblico ministero, cui spetta la formazione del suddetto fascicolo, la questione, nella sua inesorabile concretezza, si riconfigura nei termini seguenti.
Cerchiamo di rendere perspicuo il senso del discorso, esemplificando. Gocce nel mare, naturalmente.
Le gioiose, ancorché deliranti, esternazioni di un cittadino che sghignazzi al telefono con un suo degno sodale, esaltando la provvidenzialità degli eventi sismici, di certo non attengono a un fatto-reato, né sotto il profilo dei suoi presupposti, né sotto quello degli elementi costitutivi, soggettivi ed oggettivi. Possono, per ciò stesso, considerarsi ‘irrilevanti’? Soltanto un abisso di malafede o ignoranza, oppure entrambe, potrebbe indurre una risposta affermativa.
Irrilevante, semmai, sarebbe l’ascolto della preferenza per un determinato colore della cravatta!
Invero, tanto in fase cautelare preliminare, quanto in sede di giudizio, in conformità agli imperativi dettami del diritto e della giurisprudenza, sia all’ufficio dell’accusa, sia agli organi del giudizio, incombe l’obbligo inderogabile di valutare la ‘personalità’ – usi e costumi, frequentazioni, tratti caratteriali, forma mentis, espressioni emozionali – dei soggetti sottoposti a procedimento, anche ai fini della rilevazione dell’intensità del dolo. Tanto vero che resta preclusa qualsiasi possibilità di dedurre la detta valutazione in modo esclusivo ed univoco dal fatto-reato che occupa. Perché nessun uomo è riducibile al suo reato, in ragione della complessità delle componenti, positive, negative e neutre, della persona.
Ne discende che il “conoscere”, ancora prima che un diritto civile e democratico dell’opinione pubblica, integra un preciso diritto-dovere dei soggetti processuali. I quali, non disponendo di sfere di cristallo, non possono che attingerlo dalla conoscenza degli atti, la cui integrità e completezza si confermano di conseguenza indefettibili.
In alternativa, apparirebbe irragionevole e implausibile, dunque inimmaginabile, uno scenario processuale, dal quale risultassero escluse dalla discovery, ossia dal complesso degli atti, le entusiastiche dichiarazioni sui sismi di cui sopra. E, del resto, non sarebbe meno arduo comprendere come un magistrato del pubblico ministero possa sollecitare al tribunale misure cautelari, limitative della libertà, nei confronti di una persona sottoposta a investigazioni preliminari, in assenza di precisi riferimenti in atti alla sua complessiva personalità, oltre che, evidentemente, al fatto antigiuridico a lui attribuito. Ne consegue che spunti, elementi e dati di conoscenza significativi, concernenti la persona sub iudice – impliciti o espliciti, diretti o indiretti – non solo possono, ma bensì debbono orientare la valutazione del magistrato. Questi deve porre la dovuta attenzione alla necessità di una prognosi corretta, in quanto fondata sull’insieme dei materiali investigativi, della effettiva pericolosità della persona indagata, e non in modo generico e probabilistico, ma – pacificamente, in una prospettiva di rigore giuridico e giurisprudenziale – in termini di “certezza”, dunque anche con riferimento a una determinata ‘personalità’, in relativa sconnessione dal fatto materiale della condotta incriminata e finanche dallo stesso requisito della gravità indiziaria. A pena di inevitabili censure in capo alla Corte Suprema di Cassazione, giudice sovrano della legittimità, e a limpida conferma di una realtà lievemente più complicata, o più semplice, a seconda dei punti di vista, di come viene rappresentata.
Cosicché, i dilemmi sulla pretesa irrilevanza di talune intercettazioni finiscono per apparire patetici e mistificanti, chiacchiere impotenti e fuorvianti. Al netto di immancabili e pseudo-politici interessi privati in atti d’ufficio, evidentemente. A somiglianza, più delle esilaranti diatribe sul sesso degli angeli in contesto drammatico, che non delle effettuali dinamiche dell’universo giuridico, come configurate alla stregua della Carta Costituzionale, non ancora rottamata, nonostante il recente tentativo, e dell’ordinamento, nonché della stessa prassi della giurisdizione penale. Certamente, bizantinismi fortemente sospetti e nocivi. Nello Stato costituzionale di diritto.
Altro, poi, la vexata quaestio della divulgazione, e del diritto di sapere chi dice (e fa) che cosa, specie rispetto alle vogliose legioni di aspiranti al cursus honorum, il luogo ideale per esibire alla grande la propria grammatica del vivere ed… educazione sentimentale. Per carità, tutti (weberianamente) vocati. Nel Belpaese del volontariato e dello spirito di sacrificio. “Io anelavo…”, si giustifica con il suo giudice il maestro Totò. Nell’odierna fase di storia e di cultura, nel Paese delle (più o meno) cento città, e di una miriade di clan, il quadro scintillante prodotto da tanto ansimare, a cominciare dalla proliferazione di esilaranti sigle elettorali – altro la politica, aristotelicamente “la forma più alta dell’attività umana” – è sotto gli occhi di tutti.
Che fare? Senza scomodare Lenin, data la disponibilità di un’opzione di disarmante semplicità, il modo più sensato di sciogliere lo psicodramma politico, per il legislatore penale, sembra quello di ribadire e precisare, in modo ancora più chiaro e cogente rispetto all’attuale, un termine ragionevole, a partire dal quale la pubblicazione degli atti è consentita, ivi compresi quelli asseritamente “irrilevanti”, se e in qualsiasi modo hanno influito sulla formazione della volontà giurisdizionale.
Quanto, infine, alla indifferenza di ampie frazioni di popolo rispetto alla conoscenza della ‘personalità’ – per usare una parola grossa – di molte espressioni umane del mondo politico, e alla connessa mancanza di sanzione sociale – da non confondere strumentalmente con il ressentiment – non sembra una buona ragione per concludere arbitrariamente che “così fan tutti”. Alla beata insensibilità e irresponsabilità di molti (troppi), infatti e fortunatamente ancora corrisponde, confliggendo, la sicura e vigile, benché sofferta, coscienza etico-politica di molti altri. Ed è a questi ultimi che il Parlamento, ormai sciolto e già delegittimato, e l’onesto ministro Guardasigilli farebbero bene a guardare, con maggiore attenzione e… interesse. Non ai primi.
Incommensurabile la posta in gioco. Consentire finalmente a questo Paese di affrancarsi. Finalmente. Dall’entrapment di una morsa micidiale, tra astensionismo di massa e voto con il naso turato. Una trappola mortificante, una condizione grottescamente inidonea a “consolidare l’identità di un popolo”, per mutuare la prosa aulica (e parolaia) del segretario del PD.
Quel che è certo, tuttavia, è che l’”identità del popolo” non si rafforza, vedi caso, assicurando protezione cieca, blindata e tracotante a una socia pubblicamente “preoccupata” per qualcosa, che invece può e deve preoccuparla soltanto… interiormente. Per la contradizion che nol co
nsente. Un ministro può anche preoccuparsi, e persino stracciarsi le vesti, a causa delle criticità del sistema bancario planetario. Può e, anzi, talvolta deve, anche se privo di “deleghe” da parte del ministro competente. Non bisogna formalizzarsi. Epperò, non può, non deve manifestare “preoccupazione” per una specifica banca di famiglia, in presenza di attori istituzionali indipendenti. Perché quella preoccupazione, in quanto espressione di idee, passioni e interessi, potrebbe essere percepita come interferenza, anche se non lo fosse. Se non che, un ministro che si lascia anche soltanto percepire come interferente, in qualche modo si è già moralmente… dimesso. Di più. Qualora si trovasse casualmente – non è un delitto – coinvolto in una discussione sul punto, dovrebbe congedarsi. Onorevolmente, senza ritardo e senza aprire bocca. A fortiori, senza esprimere pensieri e sentimenti, men che mai “preoccupazione”, una libertà consentita al passante, non mai a quel ministro. Se è vero, com’è vero, che “la virtù dell’uomo politico è l’onore”, e non solo per Aristotele.
Eppure, nonostante tutto, qualcosa ancora non torna. Le osservazioni che precedono, infatti, riguardano il ministro la qualunque, non un determinato ministro, tuttora in carica. La quale, clamorosamente sconfessata da un voto popolare referendario, non potrebbe neanche far parte dell’attuale esecutivo, per le medesime ragioni che indussero il premier Renzi alle dimissioni. Un volgare escamotage, evidentemente, di senso scopertamente gattopardesco. Il principio costituzionale di cui all’art. 95.2, difatti, sancisce la responsabilità “collegiale” del governo rispetto ai suoi atti, conati di riforma costituzionale compresi, evidentemente. Non solo, ossia, la individuale responsabilità del premier: “I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri”. E tuttavia, chiunque farnetichi in merito alla necessità di “passi indietro” da parte dell’interessata, forse non conosce la Costituzione, visto che non sa che ministri si viene nominati, non ci si auto-nomina. Ne consegue che il passo indietro competeva ad… altri. I quali, al contrario, o pudicamente tacciono oppure la difendono a spada tratta, poiché gli effetti nocivi delle dimissioni avrebbero superato quelli della permanenza. Pare, infatti, che uno spettro si aggiri per l’Italia. A cinque stelle. Anche se, per certi avversari, ne basterebbero solo un paio, di stelle, come attesta la marea montante di un’accozzaglia di destre d’accatto e di potere, non di governo.
Eppure, dobbiamo essere grati alla nostra ministra, meritevole di averci offerto uno spettacolo natalizio assai divertente. Sette mesi or sono, a margine del libro di Ferruccio de Bortoli, sputava fuoco e intemerate, prospettando furiose azioni legali. Ebbene, per la proposizione di un atto di querela bastano pochi giorni, un mese al massimo. Non se n’è saputo più nulla. Invero, eventuali addebiti falsi e calunniosi sarebbero stati una faccenda maledettamente seria, ma anche in tema di “lite temeraria” non si scherza. Fino a pochi giorni fa, però, quando, d’improvviso, madame ha inopinatamente rispolverato e rinverdito la minaccia di querele. Ora il mondo è in fibrillazione. Ma perché tanto ritardo? La ragione non potrebbe essere più chiara. In Commissione parlamentare d’inchiesta, Federico Ghizzoni aveva appena confermato le affermazioni di de Bortoli, e non già semplicemente quanto alla sostanza, ma bensì in termini filologicamente identici. La necessità aguzza l’ingegno, si sa, dunque urgeva, con una certa urgenza, buon Totò, intorbidare le fatidiche acque… Così va spesso il mondo chez nous, o almeno, così andava fino all’altro giorno, direbbe Manzoni.
Domani è un altro giorno? Chissà. Per il momento, ecco, in forma finalmente scoperta, come Marx si esprimerebbe, l’undicesima piaga… d’Italia.
Quod demonstrandum.
In tema, come si vede, la Costituzione formale più bella del mondo. Mai tanto bella, come quando sarà anche applicata e sostituirà quella materiale. Come non trovarsi d’accordo con Roberto Benigni?
Risulta del tutto evidente che discorsi siffatti rischiano di somigliare al pugno proibito dei pugili professionisti. E tuttavia, non è possibile, né auspicabile, rinunciare alla speranza che, a partire dall’anno appena iniziato, anche attraverso l’imminente passaggio elettorale, nel potente e capillare dominio della post-verità, si apra, come d’incanto, un apprezzabile spazio per la vecchia, cara, giusta verità d’antan. La verità rende liberi? E, allora, che cosa aspettiamo a guardarla in faccia, questa… beatitudine?
Forse, non ne va di loro. Di certo, ne va di noi.
(12 gennaio 2018)
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.