Il branco come alibi. Sull’incapacità sociale di affrontare il nemico interno
Fabio Armao
L’uccisione di Willy Monteiro Duarte a Colleferro e lo stupro di due ragazze adolescenti da parte di otto maschi (tutti maggiorenni) di Pisticci sono soltanto gli ultimi due drammatici episodi di quella che un tempo, senza tanti infingimenti, avremmo chiamato “aggressione squadrista”. Oggi dinanzi a questi delitti commessi da gruppi nei confronti di individui inermi si preferisce di gran lunga adottare la metafora del massacro da parte del branco (lo fa, da ultima e nella forma più compiuta, Michela Marzano in un articolo pubblicato su “la Repubblica” del 12 settembre 2020). Sarebbe facile osservare che gli animali, in natura, non mettono in atto questo genere di aggressioni gratuite; e che tutte le società – da quelle primitive a quelle moderne, totalitarie e democratiche – hanno saputo fare uno sfoggio di violenza organizzata che farebbe apparire del tutto innocua la più selvaggia delle belve. Ma non è questo il punto. Ciò di cui dovremmo preoccuparci, piuttosto, è il meccanismo di rimozione che quella metafora rivela o, se preferite, il tentativo (vano e pericoloso) di esorcizzare il “male dentro”, la violenza generata dalla nostra società per le più diverse cause: culturali, economiche, politiche.
Non si tratta certo di una novità: grandi filosofi e scienziati sociali nei secoli scorsi hanno pensato di “risolvere” il dilemma della guerra attribuendone la colpa all’incoercibile natura aggressiva dell’essere umano; anch’essi del tutto dimentichi degli investimenti finanziari, tecnologici e organizzativi che la guerra comporta (oltre che, spesso, del loro stesso ruolo di complici dell’impresa bellica, in qualità di “consiglieri del principe”). Colpevolmente ignari del fatto che non esiste nulla di più pianificato e meno istintivo della guerra; di più indotto attraverso l’educazione (prima all’obbedienza al sovrano, poi alla fedeltà alla nazione, per la quale immolarsi qualora richiesto) e la manipolazione dell’immaginario collettivo (prima, fin dall’antichità, attraverso il culto dell’eroe propagato dall’arte; poi, con l’allestimento degli apparati di propaganda).
Michela Marzano per rafforzare l’argomento della “logica del branco” cita Elias Canetti: “la determinazione del branco è immutabile e spaventosa”; e poi aggiunge che “il vero problema di fronte al quale ci troviamo, quando si parla di ‘effetto branco’, è l’assenza di quelle che Freud chiamava le ‘dighe psichiche’, ossia di quel pudore, di quel disgusto e di quella compassione che ognuno di noi dovrebbe provare di fronte alla presenza altrui”. Verissimo. Quello che, però, bisognerebbe aggiungere è che nei casi come quelli citati l’abbattimento delle dighe psichiche non è l’effetto di dinamiche spontanee, istintive, animalesche che si scatenano nel momento in cui alcuni individui si associano per commettere il crimine; bensì il prodotto di una subcultura socialmente costruita e perseguita con determinazione dai membri del gruppo, ciò che ne connota il senso di appartenenza, il prerequisito dell’affiliazione.
Lo stesso Canetti sempre in Massa e potere scrive anche un capitolo sulle mute di guerra, dove rileva che una massa (per noi, il gruppo) per mantenersi in vita ha bisogno di potersi riferire a una seconda massa. È quello che definisce appunto il “sistema delle due masse”, aggiungendo subito dopo: “la prima e più saliente contrapposizione è fra uomini e donne; la seconda, fra vivi e morti; la terza […] è quella fra amici e nemici”[1].
Vale la pena osservare che quella successione non è casuale: l’intera storia sociale della guerra dall’età primitiva ad oggi, infatti, offre fin troppe conferme della priorità assegnata (dagli uomini) alla contrapposizione di genere. Afferma Barbara Ehrenreich: “la guerra, in epoca storica, è sempre stata pressoché universalmente un affare da uomini, e da uomini soltanto. […] La guerra è, anzi, una delle attività più rigidamente connotate secondo il genere che l’umanità conosca”, al punto che a studiarla sono quasi soltanto i maschi, senza peraltro sentire anche soltanto la necessità di nominarle le donne. Più di questo. La guerra “è un’attività che spesso è servita a definire la virilità stessa”; è la “porta di accesso alla virilità”, con conseguenze disastrose per il genere femminile: “se rese gli uomini predatori, la guerra rese le donne schiave, bottini di guerra sullo stesso piano delle granaglie e delle greggi”[2].
Insisto su questo aspetto perché è alla muta di guerra ben più che al branco che bisogna guardare nel tentativo di “spiegare” la violenza vigliacca degli esempi citati. Riferirsi al branco, infatti, precostituisce un alibi, una giustificazione; rappresenta un tentativo di attribuire alla natura quello che è, al contrario, un prodotto della nostra cultura e della nostra “civiltà”. Un tentativo di proiettare all’esterno del contesto sociale un pericolo che invece è radicato a pieno titolo all’interno dei nostri stessi quartieri – come dimostrano, su un altro piano, i quotidiani episodi di violenza entro il nucleo familiare (soprattutto nella forma del femminicidio). Oltre tutto, contro gli istinti potremmo ben poco; mentre contro i comportamenti in tutto e per tutto umani è possibile elaborare delle contromisure che non si accontentino della sanzione dei colpevoli. Purché i cittadini e le istituzioni che li rappresentano siano in grado di assumersi le proprie responsabilità.
A Colleferro come a Pisticci a entrare in gioco è, allora, la logica della gang o della banda se preferite un termine più nostrano. Ad esse oggi, soprattutto nelle aree urbane, viene delegato il compito di inventarsi un nemico: il membro di un gruppo avverso o, più semplicemente, la donna, il gay, il nero, l’immigrato. Nella quotidianità della vita di strada si riproducono a livello micro le stesse dinamiche che, a livello macro, sono gli stati a far proprie attraverso la guerra. Il che vuole anche dire, che in tutti questi atti criminali è possibile cogliere, in nuce, una forma di “prosecuzione della politica con altri mezzi”, come avrebbe detto Karl von Clausewitz.
La gang (soprattutto giovanile) è un fenomeno antico, che ha accompagnato la nascita e lo sviluppo delle grandi città industrializzate, a partire da paesi come gli Stati Uniti d’America – dove, non a caso, è stato studiato fin dall’inizio del Novecento e con risultati che ancora oggi, a volte, mantengono intatto il proprio valore. Negli ultimi decenni, tuttavia, ha conosciuto uno sviluppo senza precedenti anche nei paesi emergenti, come conseguenza della crescita incontrollata dell’urbanizzazione, e nella stessa Europa (come dimostra l’aumento esponenziale, in questi ultimi anni, di omicidi a colpi di coltello commessi a Londra negli scontri tra gang di adolescenti). Il significato etimologico del termine (dell’inglese antico, ma di origine germanica) è, del resto, quello di “gruppo di persone che vanno in giro insieme”.
Sono due i caratteri che contraddistinguono le gang, ovunque nel mondo. Il primo, già evocato, è il rapporto intenso e imprescindibile con la strada; in par
ticolare quella urbana del ghetto, dello slum: la gang come corner society. Il secondo è la marginalità: la gang costituisce una forma embrionale di auto-organizzazione di una comunità minoritaria e tagliata fuori dai normali meccanismi di ascesa sociale. Alcuni di questi gruppi possono manifestarsi e permanere a lungo allo stadio embrionale di semplici agglomerati; altri strutturarsi al punto da dar vita a vere e proprie diaspore transnazionali – penso ad alcuni gruppi latinos che hanno scalato le graduatorie delle organizzazioni criminali più note al mondo (o almeno nel continente americano).
Nelle azioni criminali delle gang – verrebbe da dire, “per definizione” – non ha alcun senso ipotizzare il carattere della preterintenzionalità, dato che rientra nel loro statuto accrescere la coesione interna al gruppo attraverso la creazione di proprie subculture capaci di fornire agli affiliati un sistema di credenze e di regole, una visione del mondo che sia in grado di porli al centro dell’universo e al di sopra degli altri (non relegandoli, per una volta, ai margini e al fondo della scala sociale). Le due principali costanti di queste subculture sono la violenza e il maschilismo. La violenza ha un valore simbolico, al punto da essere talvolta adottata come rito di iniziazione: inflitta in prima persona alle reclute, o da queste esercitata a danno di ignari coetanei. Ma la violenza si rivela soprattutto una competenza individuale e una risorsa per il gruppo: un dovere professionale che, qualora non ottemperato, può suscitare scherno, dileggio o persino l’espulsione e la morte; e che, per questo, va corredato di tutti gli orpelli del coraggio, della reputazione e dell’onore. Il suo culto, per alcune gang, può spingersi fino al punto da produrre la completa deumanizzazione del “nemico”, l’individuo che con la sua sola presenza costituisce una sfida alla propria identità (e soltanto in seconda battuta, e non sempre, alla propria incolumità) e sul cui corpo diventa lecito accanirsi con inusitata e gratuita efferatezza. La gang, inoltre, si rivela funzionale a soddisfare l’esigenza di una (molto malintesa) virilità fomentata, da un lato, da una cultura ancora intrisa di patriarcalismo e, dall’altro, negata dalla società, che impedisce a questi giovani di diventare adulti assumendo i normali ruoli lavorativi e genitoriali. Non possiamo continuare a rimuovere il fatto che anche in Italia continuino ad allignare culture che esaltano le diseguaglianze di genere e le tramandano attraverso l’adozione e la salvaguardia di un modello di famiglia che privilegia la mera riproduzione e l’accrescimento del “capitale sociale maschile”.
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Lo ripeto ancora una volta: i responsabili dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro e dello stupro di gruppo a Pisticci non sono alieni; al contrario provengono dai nostri quartieri e si sono alimentati di disvalori che sono comunque presenti nella nostra cultura (e che trovano spesso inattesa legittimazione persino nell’arena politica nazionale). Continuare a evocare il branco è fuorviante e rischioso, perché alimenta l’idea che sia possibile chiudere fuori il pericolo: costruendo muri e recinzioni ai confini della nostra città o delle nostre abitazioni, o accontentandosi di recludere nelle prigioni i responsabili di questi atti. Le gang, invece, sono fenomeni non risolvibili nei termini delle tradizionali e consolatorie strategie di securitizzazione/militarizzazione del territorio, attribuendo ai loro membri le stimmate della devianza sociale. Le gang revocano in dubbio la nostra stessa capacità di concepire una società aperta e democratica perché si nutrono di disvalori tuttora presenti nella nostra società: sono la nostra cattiva coscienza, che ci sbatte in faccia i nostri fallimenti. E lo fanno rivendicando il controllo totalitario di specifici territori. In ciò, come ha osservato il Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, è possibile cogliere i segni di una mentalità mafiosa più che fascista; seppure, vorrei aggiungere, le due componenti dimostrino di poter convivere all’interno delle gang. In particolare a Colleferro, una mafiosità a livello ancora embrionale, allo “stato nascente”, sembra trovare un fattore di rafforzamento della coesione del gruppo proprio in elementi della subcultura fascista.
[1] E. Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano 1981, p. 76.
[2] B. Ehrenreich, Riti di sangue. All’origine della passione della guerra, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 118, 119-120 e 122.
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