Il caso Travaglio: criterio di verità contro criterio di opportunità

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La “vicenda Travaglio” si inscrive in un più ampio quadro – più ampio di quello politico-istituzionale – che investe la cognizione del “giusto” e dell’“opportunità”. L’appello a un’informazione libera cade in questo quadro. Una volta scatenatasi la bufera non c’è stato più verso di sottrarre la polemica all’orizzonte dell’“opportunità”: pro e contra Travaglio si sono dispiegati entro la logica del “cosa è giusto”, quasi le ragioni di “opportunità” pretendessero di ottenebrare il merito delle sue affermazioni.
Di questo l’Italia paga il prezzo più alto: non già di un’informazione la cui libertà viene sistemicamente subordinata al controllo padronale ma di una mentalità che al criterio di verità ha definitivamente sostituito quello di opportunità. Interrogarsi sull’opportunità di proclamare via etere quanto Travaglio, Gomez e Abbate avevano già espresso nelle loro opere scritte (mai denunciate per ragioni di opportunità: chi non legge l’avrebbe saputo) significa annullare a priori il criterio di verità. Quasi a fondamento delle istitituzioni e dei loro rappresentanti non vi fosse la logica del diritto, ma un intangibile bonus di “sacralità”; quasi la legittimità di occupare determinate cariche politiche non fosse ovvia conseguenza di una delega dal basso operata in virtù di una cognizione di verità fondata sui principi del diritto, ma di un investimento “divino”.
Ora, che le istituzioni e i loro rappresentanti debbano conservare, laicamente parlando, un carattere di “sacralità” è innegabile. Ma che tale conferimento possa procedere dal valore intangibile di quell’investitura mi pare apra una voragine al centro stesso del concetto di diritto e di legittimità. Qualora il criterio di “consacrazione” non è più subordinato all’approvazione popolare che ne diviene infatti della verità che esso incarna? E soprattutto: quale insidiosa forma di opportunità viene posta in essere affinché non lederne la “sacralità” sconfini poi nel non potersi più interrogare sulla legittimità della stessa?
La mentalità che accoglie come ovvio il criterio di opportunità – nella fattispecie nel caso Travaglio-Schifani – ha dunque dispiegato sull’intera vicenda un velo di arbitrarietà che non possiamo fingere di ignorare. Il problema non è quanto esatto o inesatto sia il giudizio portato nei confronti del Presidente del Senato, ma quale grado di accoglienza possa trovare nella società italiana e nell’intero arco politico un simile giudizio. Se il punto di partenza per valutarne il senso, la portata e la giustezza è quello di una inviolabilità del “sacro”, l’intero giornalismo ha chiuso a priori la sua partita: invece di consegnarci gli strumenti coscienziali per poter “sacralizzare” a ragion veduta le istituzioni che rappresentano la cittadinanza, costretto al silenzio ci impone di “sacralizzare” a scatola chiusa: vale a dire a non conoscere le ragioni per cui dovremmo “sacralizzare”. E ad accettare come ovvio che l’investitura dei nostri rappresentanti non dipenda da noi ma da chi per sé la decide.
Questo cortocircuito, per cui il delegato delega se stesso e il legittimato legittima se stesso, mentre il delegante è posto fuori dal circuito della delega e il legittimante sottratto alla posssibilità di legittimare, riproduce così a livello logico quello che in termini politici si chiama “regime” o “casta”. Un circuito chiuso la cui valenza di “sacralità” potrebbe essere “desacralizzata” solo se al criterio di opportunità si sostituisse quello di verità. Ma proprio qui la mentalità dominante, dentro e fuori il Palazzo, ha costruito il suo usbergo infrangibile: un approccio alle istituzioni che ha saputo progressivamente far coincidere il termine di “opportunismo” con quello di “opportunità”.
Laddove il giornalismo “vero” si presenta come l’unico strumento di “delegittimazione” di una casta autorefenziale che produce, autocertifica e promuove la propria “sacralità”, è del tutto evidente che detronizzare il criterio di verità e intronare quello di opportunità equivale a porre l’opportunismo (non l’opportunità!) al centro delle proprie preoccupazioni. E quindi dribblare l’unica forza in grado di riconsegnare l’autoreferenzialità al giudizio popolare e al relativo potere legittimante. Sottratta al giornalismo la possibilità di qualificare (o squalificare) le ragioni che sottendono alla “sacralità” (o “non sacralità”) delle istituzioni, l’opportunismo di regime sigla così la propria vittoria: l’autosacralizzazione si presenza, opportunisticamente, come l’unica possibile forma di sacralizzazione.
Questo il terreno in cui destra e sinistra indistintamente individuano il proprio alleato: una mentalità collettiva da essi capillarmente promossa e alimentata, che, in una lenta e impercettibile trasformazione genetica degli italiani, sta modellando un nuovo tipo di cittadino a cui il controllo sulle istituzioni e la loro legittimità appare non già come espressione compiuta della propria democraticità ma come eversione.
Il processo è in atto da tempo. E Beppe Grillo ha semplicemente “regalato” al Palazzo l’opportunità di dare alla residuale democraticità degli italiani una precisa connotazione terminologica: antipolitica, probabilmente la più geniale contraffazione lessicale che la “casta” abbia saputo produrre negli ultimi anni. Se la mentalità collettiva individua nella critica al Palazzo un atto di antipolitica, nell’informazione del giornalismo libero un atto di eversione contro le istituzioni e nelle sentenze di una magistratura indipendente un disegno sovversivo, il criterio di verità – vale a dire il fondamento dell’informazione e, ergo, della democrazia – ha ceduto definitivamente il passo al criterio di opportunità. E il valore della critica si è visto brutalmente soppiantato dal disvalore della censura.
In questo quadro la vicenda Travaglio-Schifani non chiama in causa soltanto la Rai, lo stesso Travaglio, il Senato e l’arco politico nel suo complesso, ma l’Italia e gli italiani. In una parola: la loro mentalità. Una mentalità che sta progressivamente accogliendo questro drammatico slittamento dal criterio di verità al criterio di opportunità senza colpo ferire. Quasi a cedere definitivamente a quella logica di “quieto vivere” che, quando l’opportunismo si sarà finalmente tradotto in acquiescienza, saranno gli stessi italiani (ormai cittadini-sudditi) a rimpiangere di non aver respinto per tempo.
Poiché una cosa è evidente: se la verità dei fatti non interessa più – e interessa molto viceversa l’opportunità o meno di presentarli pubblicamente per quel che sono – gli italiani non avranno più alcuna difesa contro la contraffazione. Avranno cioè a loro discapito dimenticato che il “quarto potere” è il loro unico potere.

(14 maggio 2008)



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