Il comandante: “Faccio il mestiere più bello al mondo, salvo vite in mare”
Giacomo Russo Spena
intervista a Pietro Marrone
“Le linee, nel mare, non si vedono. Quando le attraversi però lo capisci, senti che ci sono. I confini no, quelli non esistono, sono tutti mentali. Non ci sono muri, nel mare, e chi li vuole vedere vuol dire che li ha in testa. Così, quando mi hanno ordinato di fermare le macchine, con cinquanta naufraghi a bordo e con onde alte tre metri, io ci ho pensato, certo, ma non troppo a lungo. Non c’erano, in realtà, alternative ad andare avanti. Se qualcuno ci vuole morti dovrà affondarci di persona, ho pensato, come facevano i pirati saraceni tanto tempo fa. Io non mi fermo”.
Da poco in libreria è uscito “Io non spengo nessun motore” (Solferino editore), un libro pragmatico – per niente ideologico o manicheo – nel quale Marrone nelle anomale vesti dello scrittore racconta la sua vicenda e i motivi per cui ha coscientemente violato le leggi dello Stato italiano: “Ho rispettato la legge del mare”, dice. Una lettura che ci narra una storia di disobbedienza e di grande umanità.
Marrone è un uomo comune, un pescatore che non si è mai occupato di politica né di questione impegnate. Da comandante di una nave è finito in cose più grandi di lui – come lo scontro con Salvini o i guai giudiziari – eppure non vede l’ora di ritornare in mare per salvare altre vite. Ma deve aspettare che il governo liberi la Mare Jonio e la Alex, le navi di Mediterranea – Saving Humans sotto sequestro amministrativo.
Un bel salto passare da una nave da carico ai salvataggi per un’organizzazione non governativa, perché la decisione di accettare il ruolo di comandante della ong Mediterranea?
Ho conosciuto uno degli armatori, mi ha fatto subito una buona impressione. Ed io vado molto a pelle. Mi ha descritto la loro attività e mi è sembrato importante poter contribuire al progetto. D’altronde nella mia vita sono sempre stato in mare: per pescare, consegnare merci, spostare navi. Ho pensato che lavorare per salvare persone, vite umane, fosse il mestiere più bello del mondo. E infatti, dopo un anno, lo penso ancor di più.
Perché l’idea di questo libro, come le è venuta?
Non è venuta a me. Non mi ritenevo nemmeno in grado, io parlo poco e finora avevo scritto solo sui registri di bordo. È stata un’idea di Luca Casarini, il mio capomissione. È lui che mi ha convinto: “Pietro è importante che racconti la tua storia”. Perché diceva che io non sono un attivista, uno come loro. E che era importante far sapere che queste azioni di salvataggio le possono svolgere tutti, basta essere persone per bene.
Come replica a chi vi considera un “taxi del mare” e vi accusa di avere rapporti con gli scafisti: lei ha mai avuto contatti di questo tipo?
Ho visto che gli unici che hanno avuto rapporti accertati con gli scafisti, con i trafficanti di esseri umani, per ora sono stati membri del governo, delle istituzioni. Nello Scavo, un grande giornalista che ho avuto l’onore di avere a bordo in molte missioni, ha pubblicato su Avvenire, il giornale dei vescovi, un’inchiesta e persino le foto. E chiedono a noi se abbiamo rapporti con gli scafisti? Noi siamo l’incubo dei trafficanti. Salviamo le persone che altrimenti sarebbero o morte, oppure catturate dai libici e rivendute ai trafficanti che così potrebbero di nuovo farsi pagare, o utilizzarle come schiavi. E anche il fatto che non muoiono dà fastidio ai trafficanti: chi resta vivo può denunciarli, può riconoscerli come è già successo proprio grazie a ragazzi che abbiamo salvato noi.
In che modo vi finanziate le missioni in mare? C’è chi dice che dietro ci sia lo zampino del filantropo George Soros…
Non so chi sia questo signore, le confesso che non l’ho nemmeno mai sentito nominare. Se è uno ricco, spero che ci aiuti.
Come replica a chi accusa le ong di svolgere un ruolo di “pull factor”, cioè che con la loro presenza nel Mediteranneo incentiverebbero le partenze dalla Libia?
È dimostrato che la gente parte dalla Libia quando c’è il mare buono. Non se ci sono le nostre navi.
Passiamo al suo atto di disobbedienza, non pensa che la legalità sia sempre un valore da difendere?
Assolutamente. Ho rispettato infatti la legge del mare, la Costituzione del mio paese, le leggi internazionali. Sono altri che si inventano norme che sono fuorilegge. Se mi dicono lascia morire uno in mare, oppure spegni i motori rischiando di far morire il mio equipaggio e le persone che ho a bordo, io non posso obbedire. Perché rispetto la legge. Sempre.
Con Mediterannea avete sfidato i “porti chiusi” di Salvini, però i consensi popolari sembrano dare ragione al leader leghista che nei sondaggi continua a salire… Secondo lei, qual è il motivo?
La gente ha paura. Comunque per salvare una vita, anche una sola, non occorre il consenso. Si fa perché è giusto.
Adesso c’è un nuovo governo, quello giallorosso: crede che le cose possano migliorare sia per voi che per i migranti in fuga dalla Libia?
Lo spero per quelle donne, uomini e soprattutto per i bambini. Sono loro che stanno peggio, che soffrono, che muoiono. Io e il mio equipaggio continueremo a cercare di aiutarli.
La questione dei flussi migratori nel Mediterraneo dovrebbe essere gestita dall’Europa, in questo l’Italia non è stata abbandonata a se stessa?
Non mi intendo molto di politica, sono questioni complesse. Io comando una nave. Certo che chi se ne intende dovrebbe fare qualcosa. Per fermare questa strage continua, per ridare dignità al nostro povero mare, trasformato in un cimitero. Ma non si può pagare i libici perché tengano gli esseri umani dentro dei campi di concentramento. E questo l’Europa e l’Italia lo sanno. Noi di Mediterranea, io e il mio equipaggio, i capimissione, il Rescue team, tutti ci prendiamo delle responsabilità. Lo facessero anche i governanti, europei, italiani, di ogni Paese.
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