Il comunismo libertario e giullaresco di Dario Fo e Franca Rame
Michele Martelli
Più che un’autobiografia, uno scintillìo di ricordi flash del figlio di Dario Fo e Franca Rame, anzi di Rame e Fo, perché al centro della trama di ricordi è soprattutto la figura della madre, grande attrice, donna di straordinaria bellezza e moglie di Dario, Premio Nobel per la letteratura nel 1997, anche lei giustamente menzionata nelle motivazioni della giuria svedese. Una scrittura brillante, semplice ed essenziale, un pullulare di aneddoti divertenti e sorprendenti rendono la lettura di questo libro gradevole e consigliabile. Sto parlando di Jacopo Fo, Come è essere figlio di Franca Rame e Dario Fo, Guanda, Milano, 2019 (trasformato anche in uno spettacolo): non solo un commosso atto d’amore filiale, ma un libro indispensabile nel Cinquantenario di Mistero buffo, il capolavoro di Fo, un classico teatrale, l’opera principale che ha motivato l’assegnazione del Nobel.
Dal prezioso libro di Jacopo Fo, date per note e acquisite alcune vicende e notizie biografiche e artistiche della coppia Fo-Rame, emerge una nuova e inedita serie di testimonianze e riflessioni che, a mio avviso, possono essere riassunte in tre punti (non riferisco gli aneddoti, per non togliere al lettore il piacere della scoperta).
A) La sovrapposizione di due storie fortunate, ma difficili: quella del figlio, e quella dei genitori, due outsiders del teatro e della cultura in Italia («Per certi critici sono un ladro di Nobel», disse Fo con rammarico nel 1997; «La sua vittoria? Un colpo per l’Accademia», commentò Umberto Eco). Jacopo, in quanto «figlio di cotanti genitori», aldilà degli ovvi vantaggi, ha dovuto lottare per dimostrare a sé stesso e agli altri quanto valesse («Non sai mai – dice Jacopo – se ottieni risultati perché sei bravo, o perché sei figlio di mamma e papà»). Una sfida, che lo ha spinto a sperimentarsi con successo in molteplici settori (regia, recitazione, saggistica, vignettistica ecc. fino alla fondazione di Alcatraz), ma anche ad affrontare dure crisi personali e identitarie, politiche ed esistenziali, tipiche della generazione postsessantottina, che avrebbero potuto travolgerlo, ma da cui è uscito indenne e più forte (il rischio maggiore fu il suo momentaneo avvicinamento all’ala militarista di Autonomia operaia – per rabbia impotente e desiderio di vendetta dopo il rapimento e lo stupro della madre nel 1973 ad opera di un gruppo di fascisti probabilmente in combutta coi servizi segreti deviati).
Della vita difficile, imprevedibile e avventurosa della coppia Fo-Rame mi pare doveroso ricordare almeno due episodi, accennati nelle memorie di Jacopo, stranoti ai più anziani, ma forse poco conosciuti dai più giovani:
1) la loro cacciata dalla Tv pubblica nel 1962, da leggendari conduttori di Canzonissima, per aver violato due tabù: il divieto di parlare delle morti sul lavoro e dei delitti di mafia. La Dc, seguita dalla stampa asservita, gridò allo «scandalo»; Malogodi, presidente del Pl, e poi del Senato, disse che si diffamava la Sicilia, perché la mafia non esisteva; idea simile a quella del cardinal Ruffini, arcivescovo di Palermo, per il quale la mafia era «un’invenzione dei socialcomunisti» per colpire la Dc e la Chiesa. Di quel periodo Jacopo racconta delle minacce di morte ricevute dalla famiglia, tra cui una lettera scritta «con sangue umano», e lui stesso, ragazzino, costretto a recarsi a scuola protetto dalla scorta. Triste venire a sapere poi che i nastri di Canzonissima, insieme a quelli di altre trasmissioni televisive con Fo e Rame, furono dai funzionari tv quasi completamente distrutti «per rappresaglia»; negli archivi ne restano purtroppo solo alcuni frammenti: uno scempio incivile, cavernicolo, roba da Manuale dell’Inquisizione, o da Miniver del Grande Fratello orwelliano;
2) il violento attacco dei vertici politico-ecclesiastici a Mistero buffo, portato in scena a cominciare dal 1 ottobre 1969 (la compagnia Fo-Rame, espulsa dai teatri ufficiali, scelse di recitare nei circuiti alternativi di fabbriche, università, Case del popolo e collettivo “la Comune”). Oggi, nel Cinquantenario, ne ha parlato benevolmente stampa e Tv, e persino Radio Vaticana e “l’Avvenire”, il quotidiano della Cei; ma allora lo spettacolo poi premiato col Nobel fu osteggiato anche dai vertici del Pci e accusato dall’establishment politico e mediatico di «vilipendio della religione» (reato previsto da una norma fascista, allora ancora vigente, del codice Rocco). L’ondata repressiva (erano gli anni dello stragismo di Stato) fu tale che nel 1973 Fo fu persino arrestato per una notte, a Sassari, in Sardegna, per essersi opposto, pacificamente, alla polizia che voleva impedire con la forza lo spettacolo musica e parole, Guerra di popolo in Cile, allestito da Fo subito dopo il famigerato colpo di Stato di Pinochet. Il cardinale vicario di Roma Ugo Poletti ancora nel 1977, dopo il ritorno, a distanza di 15 anni, di Fo in Tv con Mistero buffo, protestò indignato col primo ministro Andreotti «per dissacrante e anticulturale trasmissione televisiva»: una sorta di scomunica. In altri tempi, nel Medioevo, chissà, papa Bonifacio VIII, sbeffeggiato da Fo nella più famosa delle sue giullarate, lo avrebbe forse punito con la lenguada?
B) L’apparente ossimoro di quello che definirei il comunismo libertario di Fo-Rame. Jacopo racconta di essere nato e vissuto in una famiglia comunista: «l’essere comunista a casa mia valeva più di una fede religiosa»; «Ricordati che Dio c’è ed è comunista», gli ripeteva scherzosamente la madre (Franca e Dario, si sa, erano atei dichiarati), frase poi così riformulata da Jacopo adulto: «Dio c’è ma non sa che tu esisti», per dire, con un paradigma rovesciato, antiteistico e antiprovvidenzialistico, che la vita appare troppo spesso fatta non di ordine e armonia prestabilita, ma di coincidenze imprevedibili e di eventi casuali, altamente improbabili. Ma quali erano i princìpi di quel comunismo libertario del tutto atipico e anomalo della coppia Fo-Rame?
1) L’appassionata difesa dei poveri, degli umili, degli ultimi, degli sfruttati, delle donne, che è stata non a caso, e paradossalmente, anche la motivazione del Nobel a Dario Fo: «seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi». Degli oppressi Mistero buffo, in tutte le sue pieces, può considerarsi l’apoteosi: da citare, per es., oltre all’esilarante satira di Bonifacio VIII, nell’omonima giullarata già menzionata, il Primo miracolo di Gesù bambino, dove il figlio di Dio si oppone al potere strafottente del figlio del padrone della città, riducendolo in un lampo in terracotta fumante. O la Nascita del villano, dove un Dio filopadronale fa nascere dalla scorreggia di un asino il lavoratore, un essere quasi animale, «senz’anima», incondizionatamente asservito all’arbitrio e al dominio del vero uomo, «il figlio di Adamo», suo spietato padrone e sfruttatore (metafora della marxiana «schiavitù salariale»). O infine la Nascita del giullare, dove un contadino, espropriato della sua terra ed oltraggiato nella sua famiglia dalla violenza
di un nobile feudale, è trasformato miracolosamente da Gesù, con un bacio sulla bocca, in un giullare che, recitando tra lazzi e sghignazzi sulle piazze, denuncia pubblicamente la violenza subita, incitando la gente a prendere coscienza della propria condizione e a reagire ai prepotenti.
2) La rivendicazione dell’assoluta libertà intellettuale, culturale, artistica e civile da ogni autoritarismo oppressivo e da ogni potere censorio, inquisitoriale. Da ciò l’indomabile spirito satirico, dissacrante e trasgressivo della coppia Fo-Rame, la costante denuncia dei soprusi, violenze e ingiustizie patite dai senza-potere, la difesa dei diritti e della vita stessa degli sfruttati (memorabile il libro-denuncia Un uomo bruciato vivo. Storia di Ion Cazacu, scritto nel 2015 da Dario Fo insieme a Florina Cazacu, figlia dell’operaio rumeno cosparso di benzina e dato alle fiamme dal suo titolare, un imprenditore edile di Gallarate, nel 2001, solo perché chiedeva un trattamento e uno stipendio regolare: «Di questa infamità vergognosa noi, spettatori spesso indifferenti, siamo del tutto colpevoli», disse Fo, con parole che ricordano quelle di Voltaire a difesa di Jean Calas), la partecipe generosità verso gli emarginati (l’intero ricavato del Nobel donato per i disabili), l’appoggio alle lotte studentesche, sindacali e femministe (penso soprattutto ai due famosi monologhi di Franca Rame, Tutta casa, letto e chiesa, del 1977, e Lo stupro, del 1975, dove l’attrice rievocava la drammatica violenza carnale da lei stessa subita due anni prima).
Ma da ciò anche il loro progressivo e disincantato distacco critico, condiviso anche dal giovane Jacopo, prima dal Pci filosovietico (Dario non fu mai iscritto al partito, Franca solo per un breve periodo) e quindi dall’Urss, il paese dove il Partito-Stato-che-ha-sempre-ragione reprimeva col carcere ogni forma di opposizione, critica e dissenso, e poi dalla Cina post-maoista, che aveva aperto le porte al capitalismo, senza aprirle al pluralismo, alla cultura libera e autonoma e ai diritti politici e civili. Da ciò infine anche il cauto e, a mio parere, dubbioso e attendista sostegno ai 5s di Grillo (Jacopo non ne parla, l’ultimo capitolo si ferma al Nobel), nel cui programma palingenetico Fo, da alcuni definito l’«anima di sinistra» dei 5s, aveva forse ravvisato le tracce della speranza di un’Italia migliore, attenta al bene comune e ai bisogni dei più deboli (simile a quella sognata alla fine della guerra contro il nazifascismo, come disse nel comizio milanese del febbraio 2013): oggi però rivelatasi in gran parte un’utopia, se non una distopia, come ogni presunta palingenesi.
C) Una particolare concezione della vita e del mondo diffusa in famiglia che, se non fosse stato un insieme ovviamente episodico, frammentario e asistematico di idee, opinioni, scelte e modi di agire, si potrebbe per ipotesi definire, in termini filosofici, un inedito mix di eraclitismo, casualismo e pragmatismo così sintetizzabile: tutto si muove e si trasforma; non ci sono cause necessitanti, perché domina il caso, e perciò, se tutto si trasforma casualmente, ogni cosa che è così poteva essere altrimenti; quindi, come ogni cosa muta e si trasforma dipende anche da te, dall’esercizio della tua libertà, seppur limitata, dalla tua prassi, dalla tua immaginazione creativa.
Tale ipotesi è certamente un azzardo (Fo-Rame filosofi: ma scherziamo?), ma serve comunque a meglio capire le regole e massime di vita, ma anche di arte drammaturgica e attoriale che Jacopo assorbe in famiglia fin da bambino, e di cui il suo libro è testimonianza: «Fai quel che vuoi che campi di più»: non accettare supinamente ordini e autorità precostituite, ma soddisfa i tuoi desideri, le tue aspirazioni, la tua passione, nell’ambito del lecito e del possibile, il che può allungare la tua vita e farti felice. – «Chi l’ha detto che bisogna far così?»: c’è sempre un altro modo di fare, un’altra soluzione, più confacente e meno ovvia, dipende da te trovarla, fai leva sulla tua immaginazione e sulla tua libertà inventiva. – «Tutto può essere messo in discussione usando la fantasia»: ingegnati, nella vita e nell’arte, a cercare strade nuove, inusuali e impensate, non con la paura di sbagliare, sbagliare è inevitabile, ma con l’autostima e l’orgoglio di resistere, di non arrenderti, di provare e riprovare fino a riuscirci; Jacopo ha così riformulato spiritosamente questa massima a suo uso e consumo: «Scartate le possibilità possibili, restano solo le possibilità impossibili». – Altra massima, relativa all’attore sul palcoscenico: «Lo spettacolo lo fa il pubblico», perciò rispettalo, se e quando vai in scena, rendilo partecipe, empatico, coinvolto con la sua tensione, silenzio e respiro nella tua recitazione (è la teoria della «rottura della quarta parete», in varie forme comune anche a Brecht, Pirandello, Ionesco).
Infine l’idea conclusiva, che attraversa come un filo rosso tutto il libro, e che è, senza téma di sbagliare, alla base della drammaturgia di Fo-Rame, e quindi, si potrebbe dire, anche dell’«educazione teatrale e giullaresca», nonché umana e culturale ricevuta in famiglia dal giovane Jacopo: il teatro ha senso solo se e perché si fa carico dei problemi del proprio tempo, della disperazione e delle sofferenze degli oppressi, non a fini di catarsi (finiti gli applausi e calato il sipario, torniamo a casa belli e ripuliti, purificati dai mali del mondo, che rimane tale quale era), ma di smascheramento e denuncia delle sopraffazioni, prepotenze e ingiustizie, tanto più efficace quanto più effettuata con lo sberleffo, lo sghignazzo, la risata irriverente e dissacrante.
(22 novembre 2019)
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