Il Covid-19 usato per attaccare il lavoro. In difesa del Decreto dignità
Alessandro Somma
La prima esperienza di governo del Movimento cinque stelle è stata preceduta da promesse impegnative in materia di lavoro. Volevano rovesciare l’impostazione di fondo del Jobs Act, la riforma renziana con cui si sono tolte importanti tutele dei lavoratori, prima fra tutte l’obbligo di reintegrare il lavoratore colpito da licenziamento illegittimo (art. 18 Statuto dei lavoratori). All’atto pratico la montagna ha però partorito il topolino. E ora anche questo è in pericolo: con il pretesto della crisi economica provocata dall’emergenza sanitaria ci si è subito attrezzati a farlo fuori.
Il bersaglio è il cosiddetto Decreto dignità[1], un provvedimento che voleva affrontare la punta avanzata dello sfruttamento: la condizione dei lavoratori dell’economia delle piattaforme (i rider ma non solo). Questi sono controllati e sfruttati con tecnologie sofisticate, ma i loro controllori e sfruttatori li fanno apparire come lavoratori autonomi, privati quindi delle protezioni previste per i lavoratori subordinati. Questo risultato si ottiene facendo leva sulla possibilità per i lavoratori di rifiutare la chiamata, ma è evidente che si tratta di un escamotage. Nel momento in cui rispondono alla chiamata, infatti, i lavoratori ricevono istruzioni molto dettagliate, e sono inoltre soggetti a penalità se decidono di non seguirle. Ecco perché, come ha recentemente stabilito la Corte di cassazione, sono lavoratori subordinati cui spettano tutte le tutele del caso[2].
Inizialmente il Decreto voleva intervenire proprio su questo aspetto, stabilendo che è lavoratore subordinato chiunque si obbliga a collaborare nell’impresa alle dipendenze e secondo direttive di massima dell’imprenditore, anche se fornite a mezzo di applicazioni informatiche, e anche nei casi in cui il lavoratore sia libero di accettare la prestazione[3]. Questa disposizione è stata però abbandonata cammin facendo, perché si è preferito affidarsi ad accordi tra organizzazioni di lavoratori e di imprese. Con risultati nulli, se è dovuta intervenire la Cassazione per mettere ordine nella giungla del mercato.
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I limiti, peraltro non particolarmente stringenti, che il Decreto dignità ha posto al lavoro precario, non sono mai stati digeriti da Confindustria e dalla forza politica che ha partorito il Jobs Act. Ecco allora che suoi esponenti negano la realtà dei dati, ovvero che dall’entrata in vigore del Decreto non è calata l’occupazione, bensì i contratti a termine, mentre sono cresciuti quelli a tempo indeterminato. Eccoli agitare la crisi economica come situazione eccezionale bisognosa di misure eccezionali per difendere l’occupazione: la precarizzazione del lavoro.
Eppure, come è stato detto con sintesi efficace, “l’occupazione non aumenta né diminuisce per legge: le leggi cambiano le condizioni di lavoro”[6]. E un lavoro di qualità combatte la povertà e consente di redistribuire ricchezza in una società che usa invece la precarietà per concentrarla nelle mani di pochi. Si eviti allora di agitare il fantasma della disoccupazione per legittimare i soliti attacchi al lavoro, o quantomeno lo si lasci fare a Confindustria senza accodarsi obbedienti. Come se non altro ha scelto di fare il Movimento cinque stelle, a cui dovremo la difesa del Decreto dignità come pallido baluardo a difesa del lavoro, molto depotenziato rispetto alle dichiarazioni della prima ora, ma se non altro ritenuto un punto fermo.
[1] Decreto legge 12 luglio 2018 n. 87, convertito con modificazioni nella legge 9 agosto 2018 n. 96.
[2] Corte di Cassazione, 24 gennaio 2020 n. 1663.
[3] La versione originaria del Decreto dignità si trova ad es. qui: www.rivistalabor.it/wp-content/uploads/2018/06/Norme-in-materia-di-lavoro-subordinato-anche-tramite-piattaforme-digitali-applicazioni-e-algoritmi.pdf. [4] Art. 19 c. 1 Decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81.
[5] Art. 93 Decreto legge 19 maggio 2020, n. 34
[6] C. Clericetti, Il cambio di passo è una retromarcia (8 giugno 2020.
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