Il crocifisso non può essere segno di divisione
Raffaele Garofalo
, prete
Si torna a parlare della presenza del crocifisso nei luoghi pubblici, soprattutto nelle aule scolastiche. La reazione alla sentenza della Corte Europea di Strasburgo divide nuovamente laici e clericali, rafforzando i termini della contrapposizione, anziché creare un dialogo tra le parti.
La Corte ha dichiarato che il crocifisso “è un simbolo essenzialmente passivo, la cui influenza sugli alunni non può essere paragonata a un discorso didattico o alla partecipazione alle attività religiose”. Il Vaticano ha esultato, nonostante le motivazioni della sentenza attribuiscano al simbolo cristiano nessuna o scarsa rilevanza sulle scelte religiose degli alunni. Insomma il crocifisso è considerato, più o meno, un oggetto di suppellettile destinato a riempire la parete.
I laici (anche credenti), consci che la laicità si fonda sul riconoscimento e il rispetto di ogni fede religiosa, come da Costituzione, propongono l’allargamento, in forma ufficiale, dello studio alle altre confessioni. Il card. Ruini ha dichiarato che “le espressioni e i simboli della religione cattolica, come quelli di ogni altra determinata Fede e tradizione religiosa, non offendono coloro che non condividono la nostra Fede” (La Stampa, 19/03/2011). Tale considerazione dovrebbe indurre il cardinale ad una posizione di maggiore apertura ad una società multi religiosa, multiculturale.
Su una linea di conciliazione, sempre all’interno dell’attuale ordinamento, si situa il card. Ravasi che propone di risolvere la controversia introducendo i simboli di altre religioni. Padre Ernesto Balducci, anima magistralmente cristiana e laica, affermava che l’azione educativa deve essere non confessionale, “diviene naturalmente evangelica” quando essa è capace di rendere autonome persone prima subalterne. Don Milani nella scuola di Barbiana non esponeva il crocifisso, educava i suoi alunni alla conoscenza del Vangelo e delle altre religioni, consapevole che ogni scelta autentica richiede una pluralità di proposte.
Il crocifisso fu introdotto nelle scuole italiane con una legge del 1929 che ne imponeva l’esposizione insieme col ritratto del re, grazie a un Patto che sanciva una disdicevole alleanza fra “trono e altare”. L’errore non va ripetuto: la Chiesa non può legarsi a una istituzione politica. Non è “qualunquismo” perché la “scelta di campo” per essa è delineata dal mandato affidatole di difendere i diritti di ognuno, libera dal potere di turno.
Nella sentenza la Corte raccomanda inoltre l’apertura dello spazio scolastico ai “non credenti o detentori di convinzioni filosofiche non riferite a una religione”. Il problema rimarrà irrisolto finché, nella scuola italiana, si continuerà ad insegnare unicamente la dottrina cattolica, seppure con vaghi riferimenti alle altre confessioni, e gli insegnanti non saranno nominati “direttamente” dallo Stato.
Perdere un altro “privilegio” sarà, per la missione della Chiesa, un provvidenziale beneficio spirituale, come fu la perdita dello Stato Pontificio. Oltretutto tollerare che il crocifisso rimanga come semplice “simbolo culturale passivo”, è un affronto alla Fede. Da parte sua lo Stato laico deve farsi carico di una riforma radicale che istituisca presso le proprie Università delle Facoltà di Scienze Religiose ove qualsiasi cittadino, di qualsiasi professione di Fede o di nessuna, consegua il titolo specifico per insegnare Storia delle Religioni. Sarà tutt’altro che “nichilismo”, come ha affermato la CEI, con una leggera, imperdonabile distrazione. I vescovi avranno nelle loro chiese cittadini maggiormente consapevoli della loro “opzione”.
(30 marzo 2011)
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