Il C.S.M. e Clementina Forleo: ovvero dei pessimi rapporti fra il potere e la legge
di Felice Lima (Giudice del Tribunale di Catania), da Uguale per tutti
Con sentenza n. 4454/09 dell’8/29.4.2009, il T.A.R. del Lazio ha annullato il provvedimento con il quale il C.S.M. ha trasferito Clementina Forleo dal suo ufficio di G.I.P. del Tribunale di Milano.
La sentenza può essere scaricata e letta per intero a questo link del blog di Marco Travaglio (a proposito: cosa sarebbe l’informazione in questo Paese senza Marco Travaglio?).
E’ molto difficile commentarla perché è come un epitaffio o meglio, più banalmente, un necrologio della legalità.
Spesso, ma negli ultimi anni in maniera particolarmente clamorosa, il C.S.M. ha interferito con indagini e procedimenti in corso, condizionandone gli esiti – nel senso di fermarli – con provvedimenti a carico dei magistrati che se ne stavano occupando.
La motivazione ufficiale è stata sempre quella di punire asserite colpe dei magistrati in questione.
Molte volte il lavoro di quei magistrati è stato impedito trasferendoli.
Ormai è uno stereotipo: appena un’indagine “disturba” qualche potente, leggiamo sui giornali che “arrivano gli ispettori”. In queste settimane sono state a Bari, perché al ministro Fitto non piace essere trattato come gli altri cittadini.
Con questo sistema, indagare sui potenti è, per i magistrati onesti, puro autolesionismo.
L’art. 107 della Costituzione dispone che «i magistrati sono inamovibili» e assoggetta a limitazioni precise il loro trasferimento da parte del C.S.M..
L’importanza di questa norma è di tutta evidenza e lo è massimamente di questi tempi, nei quali è sotto gli occhi di tutti come il trasferimento dei magistrati sia utile a fermare l’opera di quelli sgraditi al potere.
Ovviamente, le attività di “punizione” e “trasferimento” sono precedute e accompagnate da campagne di stampa con le quali si esprime indignazione per i “clamorosi abusi” che questo e quel politicante inquisito o sodale di inquisiti indicano come evidenti nell’opera dell’inquirente di turno.
A seguire, capita che alcuni consiglieri – politici e magistrati – del C.S.M. intervengano prima a mezzo stampa e poi con provvedimenti di rapida e dura repressione.
A fronte di tanto strepito e di tanto straparlare, ci si aspetta che i provvedimenti del C.S.M. siano di solare evidenza e di sicura legittimità.
Si pensa, in sostanza: “Capperi, se questo magistrato si è reso colpevole di tante nefandezze come dicono sui giornali, allora adesso arriverà una sentenza che indicherà chiaramente quali siano queste nefandezze. Se l’onorevole Tizio, il ministro Caio, il consigliere del C.S.M. Filano, il Presidente dell’A.N.M. Sempronio stigmatizzano, le colpe di questo magistrato saranno certe ed evidenti”.
Se qualcuno all’interno della magistratura si permette di avanzare dubbi su questo modo di procedere della Procura Generale e del C.S.M., pronti intervengono i capicorrente e i loro emissari a raccomandare, con tono sussiegoso, che “bisogna attendere l’esito della procedura prima di parlare”. Un po’ come se a un avvocato che facesse notare che il suo cliente è detenuto da due mesi per un fatto che non è previsto dalla legge come reato si rispondesse: “Avvocato, attenda l’esito del procedimento!”
Poi, passato un po’ di tempo, arrivano provvedimenti del C.S.M. che si avventurano in sofismi giuridici e bizantine ricostruzioni. Nei quali non c’è traccia alcuna delle “nefandezze” ipotizzate sui giornali, ma solo di “azzeccagarbuglismi” mai sentiti prima e dal fondamento giuridico che potremmo eufemisticamente definire molto incerto.
E a volte, come nel caso di quello annullato dal T.A.R. nei giorni scorsi, arrivano addirittura provvedimenti palesemente e clamorosamente illegittimi.
Il caso di Clementina Forleo è emblematico sotto tanti punti di vista.
Clementina si è permessa di dispiacere Massimo D’Alema e i suoi amici.
Violante è subito insorto, esprimendo giudizi pesanti su di lei.
E poi Bertinotti (che allora era Presidente della Camera) e Cirino Pomicino (?!) e financo Casson.
Carlo Vulpio fa una ricostruzione dei retroscena di questo coro di indignati in un articolo che è a questo link (1).
La Procura Generale della Cassazione le ha subito avviato un procedimento disciplinare, sostenendo che l’ordinanza che non era piaciuta a D’Alema e i suoi era “abnorme”.
Ma il C.S.M. è stato costretto ad assolverla da questo addebito, perché palesemente infondato.
A questo link si può leggere la relativa notizia di stampa.
Nel frattempo Luigi De Magistris veniva assolto dagli addebiti relativi alla partecipazione alla trasmissione televisiva Annozero, dato che, se avesse punito Luigi per quella trasmissione, il C.S.M. si sarebbe trovato in qualche imbarazzo con riferimento ad altre decine di esternazioni televisive dei più vari magistrati sui più vari fatti. “Porta a Porta” ha addirittura un magistrato che, vista la costanza delle sue partecipazioni, potremmo definire “d’ufficio”. Così, per le stesse ragioni, neppure Clementina poteva essere punita per le cose dette in quella trasmissione.
Il C.S.M., allora, ha avviato “contro” Clementina un procedimento ex art. 2 della legge sulle guarentigie (R.D.L.vo 31 maggio 1946, n. 511).
Uso significativamente l’espressione “contro”, perché la legge prevede la possibilità di ricorrere a quella procedura solo nei casi in cui nessuna “colpa” si possa ipotizzare a carico del magistrato. Sicché la procedura ex art. 2 non dovrebbe mai essere “contro”. E infatti è priva delle garanzie proprie del procedimento disciplinare.
Che in questo caso, invece, la procedura fosse “contro” era talmente evidente e clamoroso che la consigliera Letizia Vacca (si noti: addirittura Vicepresidente della Commissione del C.S.M. incaricata della pratica), se ne va davanti a un bel po’ di giornalisti e (stando a quanto riportato sui giornali e mai smentito) si abbandona a esternazioni fra le quali: «Questi giudici che in tv si presentano come eroi, sono dei cattivi giudici che fanno soltanto male alla magistratura»; «Dobbiamo solo precisare i capi di contestazione [si badi: “i capi di contestazione” ??!!] e votare», «è necessario che emerga che Forleo e De magistris sono cattivi magistrati, e non perché fanno i nomi dei politici»; «Questa non è una magistratura seria e questi comportamenti sono devastanti. I magistrati devono fare le inchieste e non gli eroi».
Ho approfondito questo aspett
o della vicenda in un articolo dal titolo “Clementina Forleo e tutti noi avremmo diritto a un ‘giudice’ imparziale”, al quale mi permetto, per brevità, di rinviare.
Dopo di che, anche con il voto di questo imparziale Vicepresidente, Clementina è stata cacciata da Milano.
Oggi la sentenza del T.A.R. spiega ai profani le semplici ragioni per le quali quel provvedimento è illegittimo.
Dico “spiega ai profani”, perché gli addetti ai lavori lo sapevano benissimo da subito.
La sentenza del T.A.R. è breve e chiara e il mio consiglio a tutti e di leggerla.
I motivi su cui si fonda sono sostanzialmente due (ve ne è un terzo che spiega perché il provvedimento del C.S.M. sia anche affetto dal vizio di mancanza di motivazione, ma, per brevità, non approfondirò questa parte della sentenza, pur molto rilevante).
Il primo dei due motivi che esaminerò riguarda il fatto, cui ho già accennato, che la riforma dell’ordinamento giudiziario puramente e semplicemente vieta al C.S.M. di fare quello che ha fatto.
La riforma in questione ha infatti tipizzato gli illeciti disciplinari.
Adesso è illecito disciplinare solo quello che la legge indica come tale.
Dunque, le condotte volontarie dei magistrati possono solo rientrare o no nel novero dei fatti disciplinarmente censurabili.
Se ci rientrano, il magistrato sarà punito e, se del caso, trasferito.
Se non ci rientrano, non gli si potrà fare nulla e lo si dovrà lasciare in pace.
L’art. 2 della legge sulle guarentigie resta applicabile solo nel caso di situazioni di incompatibilità che non dipendano da condotte volontarie del magistrato: si tratta di casi come la presenza nella stessa città di un parente che, per esempio, fa l’avvocato, o di un figlio magari arrestato per qualche grave reato.
Quella procedura, invece, non può più assolutamente essere utilizzata (come purtroppo si è fatto altre volte) per cacciare un magistrato che “non piace” – al C.S.M. o a D’Alema o a Berlusconi o al cugino del nipote di un assessore o alla professoressa Vacca – ma che non si è riusciti a punire per mancanza dei presupposti.
Tutto qui.
Il C.S.M. ha utilizzato una procedura che non poteva utilizzare.
Il suo provvedimento è illegittimo, perché adottato in palese violazione della legge.
La condotta di chi lo ha votato è stata illegittima.
Conseguentemente, dal punto di vista logico, ci sono due sole alternative: o i consiglieri del C.S.M. che hanno votato il provvedimento lo hanno fatto con clamorosa ignoranza della legge, o lo hanno fatto in malafede.
Certo è che, se un provvedimento così lo avessero adottato Clementina Forleo o Luigi De Magistris o Gabriella Nuzzi, sarebbero già senza stipendio. Mentre al C.S.M. tutto procede come sempre.
Sulla gravità di una eventuale malafede dei Consiglieri non c’è bisogno di spendere parole.
Ma anche l’ignoranza della legge non è cosa da poco, se si considera che essa caratterizzerebbe membri di un consesso come il C.S.M., composto in maggioranza da magistrati e deputato a supervedere all’amministrazione della giustizia.
Purtroppo, però, in questo caso l’ignoranza va esclusa, come si dice nel nostro ambiente per tabulas.
E’ accaduto, infatti, che il C.S.M. il 24 gennaio 2007 ha adottato una delibera che si può leggere per intero a questo link, con la quale dà espressamente atto di quanto fin qui detto e chiede al Ministro della Giustizia di adoperarsi per far cambiare la legge.
E’ scritto fra l’altro testualmente in quella delibera che “L’area di operatività del trasferimento di ufficio in via amministrativa è stata in tal modo ampiamente ridotta e ricorre ora – come chiarito dal Consiglio con la risoluzione 6 dicembre 2006 – esclusivamente quando la situazione presa in esame: «a1) non risulti sussumibile in alcuna delle fattispecie disciplinari delineate dal decreto legislativo n. 109/2006 ovvero a2) non risulti riconducibile a comportamenti del magistrato»”.
Dunque, quello che il T.A.R. ha scritto la settimana scorsa nella sua sentenza al C.S.M. lo sapevano benissimo, almeno dal 6 dicembre 2006, data di una risoluzione (citata come si è visto nella delibera del 24 gennaio 2007), che si può leggere per intero a quest’altro link.
E non solo lo sapevano benissimo, ma ne avevano compreso tanto bene le conseguenze da scrivere che «l’esperienza del primo periodo di applicazione della nuova normativa ha dimostrato che tale ridimensionamento dei poteri di ufficio del Consiglio priva, di fatto, l’autogoverno di strumenti incisivi di intervento proprio nelle situazioni più delicate e nelle “zone grigie” (caratterizzate dalla compresenza di comportamenti di diversa rilevanza), il cui permanere mina (o rischia di minare) la credibilità della giurisdizione, e che a tale carenza non pongono sufficiente rimedio le nuove disposizioni relative alle misure cautelari adottabili in sede di procedimento disciplinare, sia per la diversità dei relativi presupposti che per la più ristretta area di applicazione di queste ultime» e da chiedere accoratamente al Ministro di fare cambiare la legge.
Dunque, ci si deve chiedere: perché questi consiglieri del C.S.M. hanno fatto ciò che sapevano così bene di non potere fare?
Le risposte sono molte e nessuna è bella.
Resta da dire sul punto che, diversamente da quanto sostenuto dal C.S.M. nei due provvedimenti da ultimo citati e dallo stesso T.A.R. nella sua sentenza, quella che ho fin qui esposto non è affatto una “lacuna” del sistema, ma una precisa e del tutto condivisibile scelta tecnica.
Il legislatore, in sostanza, come ho già detto, ha stabilito che le condotte dei magistrati o sono disciplinarmente censurabili o sono legittime. Punto e basta.
Non è più previsto che qualcuno possa cacciare un magistrato solo perché gli sembra “cattivo” (espressione testuale tratta dalle dichiarazioni della prof.ssa Vacca).
Ed è di tutta evidenza quanto questa norma sia preziosa di questi tempi. O meglio, quanto sarebbe preziosa se i componenti del C.S.M. avessero la grazia di rispettarla dopo che, come dimostrano le loro delibere appena citate, ne hanno pienamente compreso il significato.
Ma purtroppo bisogna prendere atto che lo stesso C.S.M. che (ogni tanto e con molta mitezza) “insorge” contro il Berlusconi di turno quanto attenta alla indipendenza dei magistrati, ritiene che l’attentato a quella stessa indipendenza possa essere posto in atto se lo decide lui (il C.S.M.).
Il secondo profilo di illegittimità denunciato dal T.A.R. è il rigetto della ricusazione della cons. Vacca.
E’ accaduto che, ovviamente, il difensore di Clementina Forleo ha chiesto al C.S.M. di non fare partecipare alla procedura la cons. Vacca che ci aveva tenuto così tanto a esternare a giornali unificati la sua ostilità al magistrato del cui trasferimento si doveva occupare.
Il C.S.M. ha dichiarato inammissibile l’istanza, sostenendo che la ricusazione è istituto che opera nei procedimenti giurisdizionali ma non anche in quelli amministrativi.
Il T.A.R. si fa carico
di smentire il C.S.M., dandogli una breve ma efficace lezione di diritto (anche in questo caso, nella migliore ipotesi, ci sarebbe un serio problema di ignorantia legis proprio nel tempio della difesa della legge).
Ma sotto questo secondo profilo c’è una cosa che mi colpisce più della violazione di legge.
Mi chiedo, infatti: ma, anche a volere ammettere per ipotesi che la cons. Vacca non potesse essere ricusata per qualche sofisticata ragione di diritto, è davvero mai possibile che nessuno al C.S.M. abbia ritenuto DOVEROSO imporre alla professoressa di farsi sostituire nella trattazione della pratica in questione?
Come giudicherebbe il C.S.M. il Vicepresidente, per esempio, di una commissione sanitaria che deve decidere se un tale abbia diritto o no alla pensione di invalidità che, prima di riunirsi con la commissione, convochi i giornalisti e spieghi loro perché reputa l’invalido un impostore e come adesso provvederà a “fargliela vedere” con gli altri della commissione?
Ed è mai possibile che un organo che, come il C.S.M., si erge in continuazione a giudice dei buoni costumi, della deontologia, della moralità costituzionale e chi più ne ha più ne metta, abbia l’arroganza di fare decidere il trasferimento di Clementina Forleo a una persona che ha fatto e detto le cose che, sul punto, ha fatto e detto la cons. Vacca (detto – si badi bene – prima di essere chiamata a decidere della sorte di Clementina)?
Sembra impossibile e paradossale.
Eppure è accaduto, costringendo così il TA.R. a spiegare al C.S.M.: «In particolare, l’imparzialità dell’organo deliberante è garantita dall’applicazione dei criteri desumibili dall’art. 49 T.U. n. 311957 e, prima ancora, dall’art. 51 c.p.c., i quali impongono l’astensione al componente dell’organo collegiale che versi in situazione di inimicizia personale nei confronti del destinatario del provvedimento finale o abbia manifestato il suo parere sull’oggetto di questo al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni procedimentali (Cons. Stato, IV, 7 marzo 2005, n. 867). Ne consegue che l’istanza di astensione/ricusazione non poteva essere legittimamente dichiarata inammissibile, tanto più che gli apprezzamenti diffusi a mezzo stampa sul magistrato interessato nel corso del procedimento sono stati resi dal Vicepresidente della Prima Commissione, la Commissione che, in quanto competente sulle procedure di trasferimento ai sensi dell’art. 2 R.D.Lgs. 511/1946, ha formulato la proposta di trasferimento della dott.ssa Forleo, per cui appare arduo ipotizzare che l’inosservanza dell’eventuale obbligo di astensione da parte del componente del Consiglio non abbia potuto produrre un’alterazione del procedimento, traducendosi in un vizio di legittimità del provvedimento finale».
Questa l’analisi degli aspetti tecnici della questione.
Molto più complessa è l’analisi per così dire “politica”.
Va detto, intanto, che non è ancora finita, perché il C.S.M. fa un’altra cosa che lascia stupefatti: impugna per principio e “a prescindere” i provvedimenti del T.A.R. che gli danno torto.
Qualunque funzionario pubblico sa di avere l’obbligo di rispettare il 1° comma dell’art. 97 della Costituzione, per il quale devono essere assicurati il buon andamento e l’imparzialità della amministrazione.
Dunque, qualunque funzionario pubblico sa che, se la sentenza del T.A.R. appare corretta e il suo ufficio in torto, egli non deve impugnarla, ma eseguirla immediatamente.
Il C.S.M., invece, questo non lo sa.
E così in tantissime occasioni impugna comunque. Tanto che da un verbale del C.S.M. risulta che un Consigliere ha dichiarato che questo costituirebbe una “prassi” intenzionale dell’organo di autogoverno che “difenderebbe” per principio (ma quale principio?!) i propri provvedimenti.
Gli esempi sono tantissimi e alcuni davvero clamorosi.
Fra i tanti, mi limito qui a citarne una paio emblematici: quello di questo Consiglio in carica, relativo alla nomina di un Presidente di Sezione della Corte di Appello di Genova, di cui si dà notizia a questo link e quello di alcuni anni fa nel quale il C.S.M. giunse addirittura a sostenere di non essere soggetto alla giurisdizione esecutiva del giudice amministrativo.
Quest’ultima vicenda può essere ricostruita leggendo la sentenza della Corte Costuzionale n. 419 dell’8 settembre 1995, che dichiarò inammissibile il conflitto di attribuzioni sollevato dal C.S.M. facendo fare a quest’ultimo una figura veramente orribile.
La nota pittoresca è che il C.S.M., per promuovere quell’inammissibile ricorso, non è stato assistito dall’Avvocatura dello Stato, che ha preferito difendere il T.A.R., ma da un avvocato del libero foro. In sostanza, pur di sostenere l’insostenibile, il C.S.M. ha assunto un avvocato libero professionista!
Ed è ovvio che non mi riferisco qui all’impugnazione delle sentenze adottate dal T.A.R. con motivazioni che fanno riferimento all’esercizio illegittimo di poteri discrezionali, con riferimento alle quali potrebbe essere meno facile, a volte, decidere dei torti e delle ragioni, ma a quelle nei quali viene stigmatizzata puramente e semplicemente la violazione di legge, molto agevole da riconoscere da persone molto esperte di legge come i membri del C.S.M..
E non è finita per Clementina anche per un’altra ragione: tentata la via del primo processo disciplinare e fallita come si è detto, praticata quella illegittima del trasferimento ex art. 2 e fallita pure quella, chi vuole Clementina “punita” a tutti i costi non si arrenderà di certo.
Dunque, c’è da aspettarsi che sperimentino qualcos’altro: un parcheggio in divieto di sosta, qualche sentenza depositata in ritardo, … Qualcosa, insomma, che faccia accadere a lei quello che un ex alto magistrato ora passato ad altro importante incarico pronosticò per Luigi De Magistris: farle passare il resto della vita a difendersi. Così impara. Lei e tutti quelli come lei. A dare fastidio alle persone potenti, che hanno amici potenti.
Ma bisogna chiedersi anche: poiché è di tutta evidenza che violazioni di legge tanto gravi e reiterate da parte del C.S.M. e condotte complessive come quelle più volte stigmatizzate dai giudici amministrativi distruggono irrimediabilmente ogni possibile credibilità di quell’organo che dovrebbe assicurare un autogoverno indipendente della magistratura, cosa induce i suoi consiglieri a perseverare nelle loro condotte ad onta di sentenze del T.A.R. sempre più umilianti?
L’unica risposta logicamente possibile è che la credibilità del C.S.M. non è il valore principale e di riferimento dei suoi componenti.
Accade a loro qualcosa si simile a ciò che accade al potere politico.
Abbiamo assistito molte volte negli ultimi anni ad atti del potere politico palesemente viziati di illegittimità, posti in essere nella piena consapevolezza di ciò, in considerazione del fatto che per sancire quella illegittimità ci vuole un certo tempo e quando essa viene dichiarata il vantaggio politico che si aveva di mira è stato comunque conseguito.
Con riferimento a vicende come quella di Clementina Forleo ciò che appare è che i motivi per i quali si intende “colpire” il magistrato sgradito prevalgano su tutto e inducano a raggiungere comu
nque per intanto quel risultato, rinviando a tempi successivi la gestione delle conseguenze della sua illegittimità. Tanto più che accade sempre in questi casi che la notizia della dichiarata illegittimità venga data con molto minore zelo di quella della “cacciata”. E così, infatti, sta accadendo anche per la sentenza del T.A.R. che dà ragione a Clementina, sulla quale vige, nei circuiti di comunicazione interni alla magistratura associata, il più tenace e accanito silenzio.
Il valore assoluto è “colpire” il magistrato sgradito. La legalità o no della cosa e del modo con cui la si fa risulta meno rilevante se non del tutto irrilevante.
In questo – e purtroppo anche in altro – il C.S.M. è assolutamente simile a quel potere politico dal quale sostiene di essere diverso e dal quale per dettato costituzionale dovrebbe essere indipendente.
Il dramma di questo Paese, la crisi profonda della sua democrazia sta nel rapporto malato fra il potere e la legge.
Il potere distrae i cittadini, tenendoli impegnati in una inutile faida fra tifoserie sedicenti di destra e sedicenti di sinistra.
La magistratura associata distrae i cittadini, parlando loro di “politici cattivi” e “magistratura buona”.
Ma il cuore del problema non è nel colore politico di questo o di quello e neppure nell’appartenere questo o quello alla schiera dei politici (che non sono tutti “cattivi”) o dei magistrati (che non sono tutti “buoni”), ma nel rapporto di tutti – finti di destra e finti di sinistra, deputati in Parlamento o consiglieri del C.S.M. – con la legge.
Perché si possa parlare di democrazia, devono essere lo Stato e il potere al servizio della legge.
In Italia oggi il potere non si ritiene al servizio della legge, ma ritiene la legge al suo servizio.
E’ un ritorno a un’idea della legge prerivoluzionaria.
Non più la legge come valore da difendere, non più la legge come imperativo al quale anche il potere (C.S.M. compreso) è soggetto, come tutti i cittadini, ma la legge come strumento di potere e del potere, da usare e spesso anche abusare.
Che questo accada in una U.S.L. è grave. Che una amministrazione periferica sforni delibere illegittime dà la misura di quanto grave è la crisi del nostro Paese. Ma che questo avvenga al C.S.M. è davvero esiziale.
E riconoscerlo è insieme doveroso e indispensabile.
Alcuni miei colleghi deprecano che io esponga considerazioni critiche nei confronti del C.S.M. e sostengono che questo “farebbe il gioco” di chi vuole modificato l’assetto dell’autogoverno.
Ma io credo, invece, che sia assolutamente doveroso e indispensabile dire la verità sull’autogoverno della magistratura.
Perché:
1. ciò che serve alla magistratura e al Paese è un autogoverno conforme alla Costituzione e non un autogoverno che agisce illegalmente;
2. la difesa corporativa è un paravento che serve da alibi all’esercizio di un potere “interno” che non giova all’indipendenza dei giudici, ma vi attenta;
3. c’è una soglia di illegalità sopra la quale chi tace è solo complice e non c’è nessun opportunistico calcolo corporativo che possa rendere legittima ed eticamente accettabile quella complicità.
Io credo che sia doveroso dire la verità sul nostro autogoverno, perché credo che prima o poi in questo Paese si debba prendere atto che la frontiera della battaglia per la democrazia non è più quella del colore politico di appartenenza né quella della difesa corporativa di questo o quello solo perché “è dei nostri” e si debba riconoscere che, perché qualcosa incominci a cambiare e ci possa essere anche solo una fioca speranza della democrazia che non abbiamo, non è importante che uno sia seduto in Parlamento o al C.S.M., che sia magistrato o falegname, che sia Capogruppo di un partito o Vicepresidente di una commissione del C.S.M. o capo di una corrente dell’A.N.M., ma che rispetti la legge e che renda conto se non lo fa.
(1) La storia della riunione alla quale si fa riferimento nell’articolo di Carlo Vulpio è ricostruita testualmente come segue da Ferdinando Imposimato, nel corso di una deposizione riportata a pag. 302 del bellissimo e documentatissimo libro di Antonio Massari “Clementina Forleo un giudice contro”, Aliberti Editore 2008: «IMPOSIMATO: Ribadisco di aver parlato alla Forleo delle pressioni esercitate dai politici coinvolti nelle intercettazioni (…). Il realtà mi riferivo a fatti accaduti fin dal 6 giugno 2007, di cui non avevo parlato con la Forleo, quando ci fu una riunione nella stanza del capogruppo Anna Finocchiaro dell’Unione, nel corso della quale era sopraggiunto anche il ministro Mastella, sollecitato dagli altri convenuti (Calvi, Latorre e altri) a un’ispezione ministeriale presso il Tribunale di Milano. Il ministro, inizialmente, aveva rifiutato di disporre l’ispezione, perché pensava di dover attendere le determinazioni dei presidenti delle Camere. Successivamente ci furono reiterate accuse, prima di illegittimità, poi di abnormità, soprattutto da parte dei legali degli esponenti dei Ds (…)».
(5 maggio 2009)
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