Il Dio di Vito Mancuso

Gianni Mula

, da ildialogo.org

Devo confessare che al tempo della pubblicazione del suo primo successo editoriale, L’anima e il suo destino, nutrivo molte perplessità sull’uomo Mancuso, perché il libro mi era parso più un’operazione commerciale molto ben confezionata che una credibile testimonianza di fede. Successivamente il suo comportamento in varie vicende pubbliche, e soprattutto il giudizio molto positivo sul piano umano che dà di lui Alberto Maggi, mi avevano indotto a cambiare opinione. È quindi senza pregiudizi sul piano personale e con curiosità culturale che sono andato alla presentazione in Sardegna del suo ultimo libro, Io e Dio, aspettandomi di incontrare un personaggio notevole. E queste aspettative non sono andate deluse, perché Vito Mancuso è davvero un personaggio straordinario: non capita spesso di incontrare autori di grande successo che abbiano la stessa capacità di comunicare il proprio messaggio in maniera tanto accattivante e comprensibile a tutti. Una capacità non basata su particolari doti retoriche ma solo sull’estrema semplicità della sua maniera di confrontarsi con gli altri. Il suo messaggio è una dichiarazione d’amore per la fede cristiana che scaturisce palpabilmente da una vita vissuta in coerenza col proprio credo. La sua grande cultura classica non solo non appesantisce le sue argomentazioni ma fa venir voglia di leggere i suoi libri.

Detto questo, devo dire con molta franchezza che, per quanto accattivante, la conferenza ha confermato i miei pregiudizi culturali sulla teologia di Mancuso: è vero che si tratta di una teologia molto più accettabile di quella, sempre più asfittica e rinchiusa in se stessa, della curia vaticana, ma è debitrice di una filosofia che nella sua astrattezza metafisica non appare in grado di dar conto delle concrete esperienze di vita del mondo contemporaneo. Certo il discorso di una fede che scaturisce non dal terrore dell’inferno ma dalla ricerca della vita buona è molto interessante, e non stento a credere che possa convincere anche tanti lettori dei suoi libri. Ma ridurre Dio ad astratto contenitore della giustizia, del bene, della bellezza perfetta, in definitiva di una realtà ideale, non corrisponde alla mia maniera di essere cristiano.

È un cristianesimo che ha poco a che spartire col Cristo biblico, perché lo vede soprattutto dal punto di vista della filosofia greca. Il fatto che nella “vita buona” di Mancuso la coscienza sia più importante dell’obbedienza, che il principio extra Ecclesiam nulla salus non vi sia accolto, che i rapporti con le altre religioni non siano più visti attraverso le lenti dell’obbedienza e della disciplina, rende il suo cristianesimo molto più umano e comprensibile del cattolicesimo ormai ridotto dalla curia vaticana a mero strumento di potere. E capisco anche che un lettore che non riesca ad accettare il cattolicesimo ufficiale possa acquietare il suo complesso di colpa immaginandosi protetto da punti di riferimento autorevoli come Platone, Aristotele, S.Agostino e S.Tommaso, per di più rivisitati alla luce di Kant e di Hegel, e possa con ciò dichiararsi fedelmente e compiutamente cristiano. Non sarò certo io a contestargli questo diritto, visto soprattutto che concordo senza riserve con Mancuso sul fatto che l’ortoprassi sia molto più importante dell’ortodossia.

Va detto che la posizione di Mancuso è molto più complessa della schematizzazione che per brevità ho dovuto farne. Durante la presentazione ha detto esplicitamente di oscillare tra una posizione nella quale la componente filosofica ha un peso non trascurabile, anche se inferiore a quello della componente “religiosa”, e una definibile come un atteggiamento fondamentalmente mistico. Quest’ambito di oscillazione può ben spiegare il “corto circuito teologico” segnalato, nella sua recensione a Io e Dio, da Gian Enrico Rusconi [1]:« … [l’autore] si muove con sicurezza nei testi evangelici, analizza criticamente i passaggi classici di Paolo, Agostino, Tommaso su su sino a Benedetto XVI. Mostra i loro punti deboli o sbagliati – ma alla fine è volontaristicamente solidale con loro nella comunanza della fede che non intende affatto abbandonare. Va detto che con altrettanto impegno rilegge e ricupera i classici laici, in particolare Kant. Ma questa operazione è inficiata dalla esclusiva preoccupazione di Mancuso di guadagnare strumentalmente i grandi autori laici (credenti) alla sua idea della centralità assoluta della fede presentata come unico modo autentico di fare domande e dare risposte di senso alla vita. Non c’è traccia significativa del riconoscimento dell’autonomia del pensiero laico». Ma ancora di più ci spiega come la conciliazione, tra l’indiscutibile sincerità del “mistico” e l’altrettanto evidente contraddittorietà del filosofo, avvenga prevalentemente a spese della razionalità.

Chiaramente per i non mistici, vale a dire per la stragrande maggioranza delle persone di oggi, condividere il cristianesimo di Mancuso può solo essere al massimo un credere di credere, per dirla con Gianni Vattimo, anche se in un senso molto differente. Vediamo infatti come Mancuso presenta la sua visione in una recente conferenza su La pedagogia della gioia [2]: «Oggi non siamo più in grado di pensare il mondo come armonia. È stata la rivoluzione scientifica a distruggere la possibilità di coltivare dentro di noi l’estetica classica. Ed è solamente ascoltando l’impresa scientifica, riformulando una nuova filosofia della natura, che è possibile giungere a una filosofia in grado di abbracciare nuovamente il polo del reale con quello dell’ideale, della verità, della bellezza, della giustizia. Ci sono tre insegnamenti che vedo emergere dall’impresa scientifica contemporanea e che vanno pensati per giungere a vedere la possibilità di conciliare il reale con l’ideale della verità, della bellezza, della giustizia. La prima legge della scienza è l’espansione: l’universo ha cominciato a espandersi e continua a espandersi. Anche noi siamo universo e anche noi tendiamo a espanderci. Il secondo insegnamento è l’entropia, il disordine. Il prezzo di questa espansione è la degradazione dell’energia, ovvero il caos, il disordine, la negatività. Il lavoro è fatica e la fatica è necessariamente perdita di ordine. La terza grande legge che emerge è la neghentropia, cioè l’ordine, l’organizzazione. Questo è paradossale: aumenta il disordine e al contempo aumenta l’ordine, almeno in questo piccolo settore di universo che è il pianeta terra. In questo senso possiamo parlare di evoluzione come passaggio da una minore a una maggiore organizzazione. Da qui deriva l’unico canone etico oggi possibile, quello dell’ottimismo drammatico. Siamo all’interno di un dramma, un processo che produce lacrime e dolore ma che è capace di aumentare l’organizzazione vitale fino al livello dello spirito».

Solo se consideriamo questa presentazione come la voce profetica di un mistico possiamo cogliere l’intrigante suggestione di una nuova filosofia della natura in grado di coniugare l’inesorabilità del reale con gli ideali della verità, della bellezza, della giustizia. Se invece analizziamo questo brano dal punto di vista puramente filosofico, cioè sul piano puramente razionale, allora è difficile contestare Rusconi che definisce questi ragionamenti come semplicemente avventurosi. E allora bisogna
dire che sul piano razionale l’aspirazione all’assoluto di Mancuso suona come la nostalgia per una mitica età dell’oro che non c’è mai stata e mai ci sarà. Accontentarsi della fede volontaristicamente riconciliata prospettataci da Mancuso (come di quella, con differenze da questo punto di vista tutto sommato marginali, prospettataci dal catechismo della chiesa cattolica) significa quindi ignorare la concretezza della fede biblica, e, di conseguenza, della fede cristiana.

* * *

Il cristianesimo vivo e reale di oggi, dopo il Vaticano II e a dispetto della restaurazione in atto, è quello testimoniato dalla teologia della liberazione, è quello di Enzo Bianchi, Silvano Fausti, Alberto Maggi, Carlo Maria Martini, Carlo Molari, Arturo Paoli e Giuseppe Ruggieri, giusto per nominare qualche italiano vivente. È un cristianesimo che è memore dell’insegnamento di David Maria Turoldo che «La Chiesa si riforma sempre partendo da un altare. Un popolo di Dio o nasce dalla liturgia o non nasce in nessun modo e in nessun altro luogo», e si sforza di dar ragione della propria speranza anche attraverso la comprensibilità del linguaggio e dei simboli liturgici. Giusto quanto a Mancuso, che ha speso parole a favore della restaurazione liturgica imposta da Benedetto XVI, non piace. No, caro Mancuso, con la nostalgia del sacro, del latino e del gregoriano proprio non ci siamo. Quello è un cristianesimo morto, che può forse andar bene per qualche autentico mistico o per tanti pii benintenzionati, ma che ha perso ogni capacità di essere davvero il sale della terra e la luce del mondo.

Che differenza c’è tra il modo di credere dei teologi che ho citato e quello di Mancuso? E si tratta di una differenza davvero importante per la salvezza?

Qui si toccano questioni fondamentali che vanno al cuore di come si possa essere cristiani in un mondo dominato dalla scienza e dalla tecnologia (lascio volutamente da parte ogni questione riguardante la conformità alla dottrina ufficiale della chiesa cattolica delle possibili risposte, perché mi pare che in materie come la salvezza le risposte che contano possano solo essere quelle della propria coscienza). Per i teologi citati vivere la fede cristiana oggi consiste nel porsi alla sequela di una persona reale, Gesù Cristo, un ebreo marginale cresciuto nella fede del suo popolo, mentre per Mancuso consiste nella ricerca della “vita buona”, in pratica nel riconoscersi nella dottrina ufficiale del cattolicesimo pur rivendicando, nel nome della libertà di coscienza, il diritto di contestarla nei numerosi punti che giudica inaccettabili.

Potremmo anche dire che, mentre gli altri teologi credono in Gesù Cristo, Mancuso crede in Dio. Ma in quale Dio? Per dirla con Pascal Mancuso crede nel Dio dei filosofi e degli scienziati, non certo in quello di Abramo, Isacco e Giacobbe. Mancuso l’ha infatti ammesso esplicitamente, sia mostrando repulsione per la fede di Abramo, sia ironizzando sull’argomento della scommessa di Pascal. Alla fede di Abramo, che da sempre e da tre religioni è considerato immagine di perfetta obbedienza e fedeltà alla chiamata divina, Mancuso obietta che il sacrificio di Isacco è immagine di una divinità spietata e disumana, del tutto inaccettabile, A Pascal, pur dichiarando di sentirsi d’accordo con lui su molte cose, obietta, con abile manipolazione retorica, che l’argomento della scommessa è un argomento irrilevante, e in fondo indegno, a favore della fede in Dio. Il fatto è che Pascal non credeva nel Dio dei filosofi, ma nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, come è scritto nel memoriale che dopo la sua morte gli fu ritrovato cucito in una fodera dell’abito. E per misurarsi con l’irriducibile dimensione di rischio della fede nel Dio di Abramo l’argomento della scommessa è una proposta perfettamente adeguata e tutt’altro che banale.

Forse Sergio Quinzio descriverebbe i due poli estremi dell’alternativa tra un Dio come categoria metafisica, e un Dio che sceglie di incarnarsi per amore dell’umanità, come ispirati il primo da Hölderlin, il grande poeta romantico tedesco che cercava l’assoluto attraverso la poesia, e il secondo da Nietzsche, che denunciò per primo il carattere relativo della verità, e preciserebbe subito che entrambi non riuscirono a vivere all’altezza dei loro ideali e impazzirono. Ma ribadirebbe anche che entrambe le visioni sono profetiche, esprimono cioè aspetti veri della realtà, perché «La fede cristiana, se riusciamo a disseppellirla da sotto le eterogenee montagne che da duemila anni l’hanno ricoperta, è fede nell’assoluto che si fa relativo, nell’insufficienza cioè delle loro separate e contrapposte autonomie. Questa può ben essere la trascrizione in un linguaggio oggi comprensibile del supremo mistero cristiano dell’incarnazione, passione, morte e resurrezione di Dio. … L’uomo Gesù, morto crocifisso come uno schiavo fuggitivo, è Dio, il creatore e signore dell’universo: in lui il relativo più misero, più straziato dall’impotenza, riceve senso dalla coincidenza con l’assoluto divino. Solo se l’assoluto divino si fa relativo, solo se le due cose si congiungono in una, la nostra situazione non è pura, paralizzante aporia.» 3

Accogliendo l’invito ideale di Quinzio a non scegliere per forza tra i due poli potremmo allora dire che il problema non è tanto la verità di una data visione di Dio, quanto se e come il far memoria della passione, morte e resurrezione del figlio di Dio ci sostenga davvero nel conflitto quotidiano tra l’incudine dell’essere e il martello del dover essere, tra il bene che non riusciamo a fare, pur volendolo fare, e il male che invece ci riesce benissimo, pur senza volerlo. E allora, se l’alternativa è così modificata, quale approccio alla fede sia preferibile rimane un problema di scelta individuale, a patto, naturalmente, di accettare di essere giudicati sulla base del criterio evangelico: «dai loro frutti li riconoscerete».

* * *

Colgo al volo due spunti per un’ulteriore riflessione che mi vengono offerti dalla vita di questi giorni. Il primo è la scritta che compare nell’immagine finale del film “Il villaggio di cartone” (per inciso, bellissimo) di Ermanno Olmi: “O noi cambiamo il corso della Storia, o la Storia cambierà noi”. Il secondo lo traggo da un post4 su il Fatto Quotidiano di Alessandro Ferretti, ricercatore all’Università di Torino e tra i fondatori della rete 29 Aprile: “Cambiare il mondo è difficile, ma se non lo si capisce è addirittura impossibile: in questo frangente condividere il sapere è il primo passo per immaginare e praticare soluzioni alternative”.

Ciò che colpisce in entrambe le frasi è la loro estrema attualità accoppiata con il loro essere segni del kairòs, del tempo opportuno, del «c’è un tempo per tutte le cose» del libro di Qohelet. La scritta nel film di Olmi, un credente, da un lato sottolinea la rilevanza, nel tempo presente, per la nostra civiltà del problema dei migranti e della loro accoglienza, e dall’altro esprime la sua convinzione di cristiano che la ragion d’essere della fede cristiana, in ogni tempo, sta nello schierarsi dalla parte dei diseredati e degli oppressi. In ogni tempo, perché è quando ci sono i diseredati e gli oppressi che arriva il tempo per testimoniare a loro favore.

La frase del post di Ferretti, per quel che ne so uno spirito laico assolutamente libero, mette in evidenza quasi plasticament
e la verità puramente laica che dalla crisi attuale si esce solo se l’urgenza del cambiare la società è coniugata con la comune consapevolezza dei tempi e dei modi che sono necessari per costruirne una nuova. Ma l’accento sull’importanza della condivisione del sapere rende questa verità attuale un segno dei tempi, perché ci dice che il tempo di porre rimedio a una crisi arriva quando si comincia a comprenderne le ragioni sulla base di un sapere condiviso.

Mi pare che entrambe queste verità, quella del credente come quella del laico, ci ricordino qualcosa di importante e molto concreto sul senso dell’essere cristiani in ogni tempo. Quindi anche nel nostro tempo, perché non ne abbiamo un altro. Questo qualcosa è che non ci si può salvare da soli, né come laici, né come credenti. Per questo motivo la fede, che per essere grazia di Dio non è di meno fatto umano, non può essere pensata al di fuori di una comunità di credenti. Ricordiamoci che il Cristo ci ha detto: dove due o tre saranno riuniti nel mio nome, io sarò in mezzo a loro.

È questa dimensione comunitaria della fede che non trovo nella religiosità di Mancuso, e che invece mi pare evidente nella maniera di essere cristiani testimoniata da Bianchi e dagli altri; anche se certo ogni testimonianza non può essere misurata sulla base del successo nell’azione, perché in definitiva siamo sempre tutti servi inutili, ma solo sulla base della sincerità e autenticità dei comportamenti concreti. Questo vale naturalmente anche per Mancuso, ma la sua ricerca della vita buona mi pare una proposta individuale che vede il bene comune come insieme di scelte soggettive ed indipendenti anziché come la conclusione di un cammino di fede condiviso.

Turoldo diceva «Io avrei paura a credere da solo». Ecco, io credo che avrei paura a credere come Vito Mancuso, perché mi sentirei solo.

NOTE

[1] La Stampa – 18 settembre 2011 – Gian Enrico Rusconi – Mancuso e Dio un corto circuito teologico
[2] OREUNDICI – ottobre 2011 – La pedagogia della gioia – Vito Mancuso (Testo non rivisto dall’autore) – (CONFERENZE – TREVI 2011).
[3] Sergio Quinzio – LA CROCE E IL NULLA – ADELPHI 2006, pag. 215
[4] Alessandro Ferretti – La crisi: capirla per combatterla

(17 ottobre 2011)

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