Il diritto all’ultima parola sulla propria vita

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di Cinzia Sciuto

C’è un equivoco di fondo che inquina ogni discussione su eutanasia, testamento biologico e quasi ogni questione bioetica. E’ un equivoco talmente evidente che si fatica a capire come sia possibile che anche un giornale che su questi temi ha sempre seguito una linea piuttosto liberale possa cascarci. L’equivoco è quello della presunta equivalenza tra posizioni opposte. "Repubblica" ha pubblicato in prima pagina qualche giorno fa la lettera (1) della figlia di una donna, Livia, malata di Sclerosi laterale amiotrofica (la stessa malattia di Welby) che, dopo anni di sofferenza, voleva morire e, visto che in Italia non è consentita l’eutanasia e che i figli rischiavano serie conseguenze legali se avessero accompagnato la madre in Svizzera, sì è suicidata. Da sola, bevendo con la cannuccia un mix di barbiturici e infilando la testa in un sacco di plastica.
Successivamente lo stesso giornale pubblica – quasi per dovere di "par condicio" – una lettera (2) del marito di una donna affetta dalla stessa terribile malattia, la quale invece non ha alcuna intenzione di morire. Si dice: due risposte diverse. Ma i due approcci NON sono equivalenti, per la semplicissima ragione che la signora Livia è stata costretta a suicidarsi (da sola, con tutti i rischi conseguenti) perché la legge non consente l’eutanasia, mentre la moglie del signor Beretta è liberissima di continuare a vivere circondata dall’affetto dei suoi cari. Ma – e qui sta l’equivoco – la moglie del signor Beretta sarebbe liberissima di continuare a vivere come desidera ANCHE se ci fosse una legge che consentisse a persone che invece – per ragioni sulle quali nessuno, neanche altri malati, possono sindacare – vogliono liberarsi del proprio corpo, di farlo con le dovute cure da parte di personale medico.
La richiesta di una legislazione che garantisca la libertà di poter morire NON implica (e c’è bisogno di ripeterlo?) una mancanza di attenzione al modo in cui le persone affette da malattie così gravi conducono la loro vita. Uno Stato civile deve fare tutto quello che è in suo possesso – e che l’innovazione tecnologica consente – per alleviare le sofferenze dei malati e rendere la loro vita meno dolorosa possibile. Quello stesso Stato civile ha però il dovere di lasciare libero ciascun singolo individuo di dire l’ultima parola sulla propria vita. Cosa cambierebbe nella vita del signor Beretta e di sua moglie se avessimo una legge sull’eutanasia? Assolutamente nulla. O meglio, la signora potrebbe vivere e godere dell’affetto dei suoi cari fino a quando vorrà, consapevole che – se un giorno lo desiderasse – non sarebbe costretta a bersi con la cannuccia un mix di barbiturici, a infilarsi una busta di plastica in testa e ad attendere, da sola, la morte.

(1) "Prigioniera di un corpo così mia madre si liberò"
la Repubblica, 12 luglio 2008

Caro direttore, questa è la storia di mia madre, Livia, che coraggiosamente è riuscita a liberarsi da quella terribile malattia che è la SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica). Livia, nata nel 1935, carattere forte, indipendente, amante della libertà, appassionata di libri, della bicicletta, delle corse a piedi, ex infermiera, separata negli anni ‘ 80, cresce una figlia da sola. Nel 2001 le viene diagnosticata la SLA. Lei è documentata, divora libri di neurologia e sa perfettamente a quale dramma andrà incontro. Fortunatamente è una forma più lenta delle altre, ma a poco a poco tutte le funzioni fisiche rallentano, creando innumerevoli difficoltà a compiere gli atti più scontati della vita, fino ad arrivare al suo ultimo anno, il 2007, dove decide di liberarsi del suo corpo, che ormai è diventato una prigione, prima di raggiungere l’ inabilità totale e di perdere quindi ogni dignità. Era davvero difficile vivere in quelle condizioni ed anche per i suoi cari era molto doloroso vederla spegnersi con impotenza. La sua casa era stata attrezzata, da mio marito, nei minimi dettagli perché potesse vivere sola, come da suo desiderio, non potevamo privarla anche di questa libertà, la mente era lucida e non voleva che nessuno decidesse per lei. Fortunatamente il mio lavoro part-time mi consentiva di pranzare e trascorrere ogni giorno alcune ore con lei prima dell’ uscita da scuola del nipotino, e poi di risentirci dopo cena per la buonanotte. Talvolta accennava con lucidità al suo desiderio di suicidio con me e le sue amiche, ma si reputava una vigliacca perché non aveva il coraggio di farlo, e anche perché non avrebbe potuto avere la certezza che sarebbe andato a buon fine. Come si poteva biasimarla? Noi capivamo benissimo la sua situazione, ma potevamo solo consolarla e starle vicino. Il suo desiderio era l’ eutanasia, poter abbandonarsi in un sonno profondo, assistita da un medico e da me, sua figlia, nella tranquillità della sua casa, in tutta legalità. Ma questo non era possibile, non in Italia, e nemmeno alla Dignitas di Zurigo poteva essere accompagnata, senza farci subire conseguenze legali. Nell’ ultimo anno le cose erano peggiorate molto, la difficoltà della parola rendeva complicata anche una semplice telefonata, si stancava dopo qualsiasi banalissima azione e riusciva a malapena a passare dalla sedia a rotelle al letto o al wc, e spesso cadendo a terra. Lei sapeva benissimo che al prossimo peggioramento avrebbe dovuto lasciarsi assistere e perdere la sua minimissima autonomia, ma non si parlava più di questo, nemmeno di suicidio. Tutti noi pensavamo che si fosse rassegnata. Quel giorno era serena e nessuno avrebbe immaginato quello che sarebbe successo. Aveva organizzato tutto, nei minimi dettagli. Verso le 16, orario in cui nessuno sarebbe entrato in casa sua, ha raccolto tutto il suo coraggio e soprattutto le sue ultime forze, ha bevuto (con la sua cannuccia) un flacone intero di un potente sonnifero, mescolato a qualche cucchiaio di Martini (probabilmente per potenziarne l’ effetto) e si è sdraiata composta sul suo letto, infilandosi un sacchetto in testa, chiuso con il suo foulard; la sua ossigenazione era già scarsa e si è addormentata per sempre. Ovviamente la telefonata del dopocena non ha avuto risposta. Frequentemente non rispondeva al telefono, soprattutto se si appisolava, e dopo tanti falsi allarmi, come da sue disposizioni, sarei passata a casa sua a verificare che non fosse caduta solo dopo qualche ora di silenzio. Era mezzanotte quando entrai in casa. La trovai nel suo letto. Accesi la luce e scappai per le scale piangendo, tremando, fra un vortice di emozioni: il vuoto, il dolore per la perdita, la sorpresa inaspettata, ma anche la grande soddisfazione nel vedere che ci era riuscita! Vorrei averle potuto dire: «Mamma ce l’ hai fatta! Sei stata coraggiosa! Sei libera!». Ha lasciato dolci bigliettini di addio a tutti noi, ribadendo la serenità nella sua decisione. Quella non era più vita. Capisco il suo gesto e lo approvo. Sono orgogliosa di avere avuto una mamma così coraggiosa. Ora le sue ceneri, per desiderio del suo amato nipotino di 9 anni, sono in un angolino di casa nostra, e talvolta mi permettono di intrattenere la famosa «corrispondenza di amorosi sensi». Firmato: sua figlia C. ***

(2) Mia moglie è prigioniera ma lei vuole vivere. Il caso della malata di sclerosi suicida: una risposta diversa
di Francesco Beretta*, la Repubblica, 15 luglio 2008

Caro direttore, è tardi, è quasi mezzanotte, Laura dorme abbracciata ad Alice. Anche questa sera è riuscita ad andare a letto con la sua mamma, e fino a quando non la porterò nel suo lettino potrà godere delle sue "gambe morbide". "Stai attenta a non toccare i tubi della mamma&
quot; le ho detto prima di salutarla, con la paura che potesse inavvertitamente manomettere il ventilatore che permette a Laura di respirare. Gli amici di una vita sono andati via da poco; una piacevole serata: pennette al sugo, una pepata di cozze, un fritto misto e per concludere qualche prugna gustosa presa al mercato stamattina. Ripenso a quella lettera della figlia di Livia su "La Repubblica" di oggi. Non mi è piaciuta, non mi rispecchia e credo che non rispecchi moltissimi altri "amici" che come me vivono direttamente la sclerosi laterale amiotrofica.
Laura mi chiama. Con uno degli ultimi muscoli che riesce a contrarre volontariamente attiva il campanello che mi fa allontanare dal computer per aiutarla. Ha freddo, la sistemo e torno a scrivere. Ma per chi sto scrivendo? Per me, sicuramente.Si scrive sempre per se stessi, per fare il punto, per "esserne certi". Forse per Ale e Marco, i miei figli "grandi" che condividono consciamente questa avventura della mamma ammalata.
Forse per la nostra famiglia, allargata da chi negli anni ha deciso di starci vicino nonostante le difficoltà. Forse per chi invece ha deciso di "stare alla finestra" per paura, per "rispetto", per non sporcarsi le mani, perchè non ha tempo. Forse per chi non ci conosce e non vorrei che si facesse un’ idea distorta di cosa vuol dire vivere una malattia riesumata quando la cronaca porta a parlare di eutanasia e cosÏ poco ricordata nella fatica affrontata da chi la vive ogni giorno. Che parole pesanti, che strana sensibilità, che orgoglio difficile da condividere quello della figlia di Livia. E’ da quasi otto anni che a Laura è stata diagnosticata la sclerosi laterale amiotrofica e il decorso della malattia si sta manifestando nella sua tragica normalità.
Non cammina più da 6 anni, non usa più le mani da 5, non parla più da 4, si alimenta attraverso un sondino nello stomaco da 3, da qualche mese respira aiutata da un respiratore e da una tracheotomia. Eppure è serena! Certo non è felice di essere ammalata, preferiva certamente la sua "vita precedente". Libera e indipendente, amante della bicicletta e della vita all’ aria aperta ha dovuto rinunciare a tutto e costruirsi un nuovo equilibrio per affrontare la malattia con la speranza di sconfiggerla. In questi anni ha continuato a fare la mamma e la moglie, a gestire la sua casa, a fare la spesa e a fare acquisti via internet, a dare buoni consigli e ad amare tutti quelli che aveva intorno. Ha persino iniziato a scrivere, riuscendo a farsi pubblicare tre volumi da un’ importante casa editrice. Ha finanziato un progetto in Africa, ha raccolto fondi per la ricerca sulla SLA, ha guadagnato soldi per pagare l’ università dei nostri figli. Vive con grande dignità la sua vita, anche se in modo diverso dal "solito", amando ed essendo amata da tutte le persone che le sono vicine o che la contattano da lontano. E’ questo il vero coraggio! Cercare di vivere la propria vita con pienezza.
Nonostante tutto, nonostante le difficoltà diventino ogni giorno più pesanti, nonostante la stanchezza, nonostante la ricerca non trovi una strada che alimenti le nostre speranze. Poi, a cadenza quasi periodica, i giornali tornano a parlare di noi. Un nuovo caso di cronaca riporta alla ribalta la nostra malattia, le nostra "tragedia", le nostre fatiche. Non per cercare di alleviarle, per venirci incontro, per darci nuovi ausili, nuovi supporti, nuovi finanziamenti alla ricerca o maggiori contributi per l’assistenza. L’ obiettivo è sempre supportare le tesi a favore di una legislazione sull’ eutanasia. Questo argomento per noi non è un tabù, anche se non abbiamo mai pensato che fosse vicino alla nostra esperienza personale, ma vorremmo che nei limiti imposti dalla nostra condizione ci venissero garantite le possibilità per poter continuare a vivere con dignità e in libertà. In questi ultimi anni il dibattito pubblico e la richiesta alle istituzioni si è incentrata sulla richiesta della libertà di poter morire. Ciò che noi chiediamo alle istituzioni è che i malati e le loro famiglie siano finalmente messi nelle condizioni di essere liberi di vivere.

*marito di Laura

(18 luglio 2008)



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