Il dramma del coronavirus, l’arte della politica e la libertà di agire
Alberto Bradanini
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Ogni sera alle 18 la TV italiana a rete quasi unificate consuma il mesto rito di una sottoinformazione coperta da una lettura sterilizzata (questa sì) di dati e numeri poi smentiti – al primo telegiornale che segue – dalle tragiche testimonianze provenienti dai luoghi maggiormente colpiti dal virus, non solo Bergamo e Lodi, dove si soffre e si muore molto di più di quanto viene registrato. Quando si farà il consuntivo, se mai si farà, ne sapremo di più. Sia detto sin d’ora, la realtà è oggettivamente drammatica e per di più l’Italia, in questa angosciosa evenienza, fa i conti con un apparato pubblico in disarmo, la cui qualità ed efficienza, per usare un eufemismo, presenta ampi margini di miglioramento. Se oggi, malgrado tutto, il sistema riesce a ridurre i danni è grazie all’eroismo di medici, infermieri e altri operatori civili e militari di quello Stato che è stato umiliato per anni da discredito e abbandono. Queste sintetiche osservazioni vanno intese come aspetti di critica positiva, la quale deve trovare posto anche nei momenti tragici come questo.
Se la paura dei controllori dell’informazione è quella di contenere l’allarmismo – nozione diversa da allarme che è invece giustificato – l’obiettivo è tutt’altro che raggiunto, dal momento che la popolazione spettatrice ne esce smarrita e confusa.
In un setting di stretto rito sovietico, con la telecamera fissa sul podio a misurare l’inquietudine sacrificale di funzionari inviati al fronte, la quotidiana conferenza-stampa presieduta da Protezione Civile e Consiglio Superiore della Sanità notifica per default il panico di un governo irreperibile, che preferisce l’eclissi davanti ai drammatici numeri palesi e nascosti di cittadini che soffrono e muoiono. Va detto che questi valorosi sostituti meritano la nostra riconoscenza anche quando ricorrono ad ardite acrobazie per tenersi lontani dalla verità. Ma essi potranno difficilmente guadagnarsi la stima genuina di un popolo maturo che chiede totale trasparenza quando è in gioco la salute e la vita di tutti, se continueranno a rispettare la consegna ricevuta, centrata sul dogma di non farsi capire. Sarebbe un passo nella giusta direzione se alle domande persino discrete di giornalisti invisibili, costoro ricorressero alla potenza evocativa del silenzio. Gli spettatori lontani capirebbero di più.
V’è poi un altro aspetto. Se per alcuni la ratio tecnicistica di un palcoscenico che ricalca la tragicità del teatro greco trova ragione nella natura specialistica delle comunicazioni, si deve invece rilevare che le questioni in gioco hanno un’anima e una dimensione innanzitutto politica.
Le discussioni mediatiche sull’ermeneutica dell’impegno del governo, sull’opportunità di effettuare o meno i tamponi, sui ricoveri ospedalieri o l’autoisolamento, su zone rosse o arancioni, sulla scarsità di ventilatori o l’irreperibilità di mascherine e via dicendo costituiscono il volto emergente di una babele che chiama in causa la politica, l’arte di governare. Dietro aspetti apparentemente di contorno o di valenza tecnica (dove si mescolano le voci di virologi, epidemiologi, protettori civili, funzionari sanitari internazionali e così via) si nasconde invero il muscolo cardiaco della statualità, la cui inarrestabile dissolvenza ha contribuito al dramma di un paese in via di sottosviluppo, con campagne, montagne e borghi abbandonati, servizi pubblici deteriorati, disoccupazione e precarietà massicce, ritiro della funzione pubblica in economia, deindustrializzazione diffusa, abbandono ed emarginazione delle regioni del Sud, minime prospettive di ripresa e beninteso gravissima insufficienza degli investimenti nella salute pubblica.
Un sano pessimismo induce a ritenere che non sarà sufficiente questa cupa esperienza a indurre un ceto dirigente improvvisato, ondivago e in preda al panico di perdere i suoi privilegi a resistere alla tentazione di cedere all’oblio non appena la piena del fiume avrà ceduto alla calma del tempo mite.
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Eppure, l’occasione sarebbe davvero unica, se i partiti che un tempo raffiguravano i sempiterni valori del socialismo democratico avessero ancora un’anima, quell’anima! In tal caso, gli strumenti per ricostruire il paese su basi diverse, allontanandosi dal liberismo mondialista e utilizzando le enormi risorse finanziarie disponibili in uno stato moderno (Keynes diceva che per costruire un edificio potranno mancare la sabbia o i mattoni, ma mai il denaro, che si produce a costo zero) sarebbero a portata di mano.
In tale ipotetica evenienza, il primo obiettivo, partendo dalle macerie, sarebbe dunque la rigenerazione dello Stato – a partire dagli investimenti nei servizi essenziali e nella cultura, prima ancora che nell’industria e nei servizi – da non confondersi con il Governo, quest’ultimo transitorio per definizione. Il ceto dirigente del nostro Paese (ancora una volta, se il pungolo del pensiero socialista, sommerso da annosi compromessi e carrierismi, facesse sentire la sua voce perduta) dovrebbe riedificare le strutture pubbliche oggi lacerate, su basi democratiche, di capacità e di trasparenza, senza lasciare all’illusoria mano invisibile del mercato, come avvenuto sinora, il compito di reperire le risorse finanziarie necessarie. Per far questo gli strumenti ci sono, basta allungare la mano, rinunciando alla scappatoia pretestuosa del vincolo esterno, ripiego disonorevole di chi copre il vuoto di orizzonti politici e la propria dabbenaggine affidandosi alle tecnocrazie non democratiche di un’Europa utopica, distruttiva del nostro benessere e della nostra democrazia.
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