Il discorso del re Conte e i sudditi disorientati
Tomaso Montanari
«Nel corso di una riunione, i medici allo stremo avevano chiesto e ottenuto da un prefetto disorientato nuove misure per evitare il contagio, che nella peste polmonare avveniva per via aerea. Come al solito, nessuno sapeva niente».
Il giorno dopo la festa della Liberazione, l’ennesimo discorso del presidente del Consiglio lascia agli italiani l’amara sensazione descritta da questa pagina della Peste di Albert Camus: una grande confusione in cui «nessuno sapeva niente».
Sia ben chiaro: questo pessimo governo è il migliore dei governi possibili ora, semplicemente perché ogni alternativa sarebbe peggiore. Ma questo non vuol dire che non si debba ‘disturbare il manovratore’: trattare i critici da ‘disfattisti’ non solo significa non aver capito nulla della natura della democrazia, fondata sul dissenso almeno quanto lo è sul consenso, ma significa anche collaborare all’avvento del peggio.
E ciò che va ora criticato con forza è la mancanza di chiarezza, di trasparenza, di comunicazione razionale. Non è in discussione l’evidente necessità di prolungare il dolorosissimo sacrificio delle libertà di noi tutti. Ma si tratta di una situazione così grave ed eccezionale da richiedere profonde e persuasive spiegazioni: non siamo sudditi in stato di minorità, chi governa ha il dovere di spiegarci cosa, chi, come, perché e (fino a) quando. E, se alcuni di questi punti sono ancora oscuri, di dirlo chiaramente, spiegando le ragioni di tale oscurità.
Da questo ennesimo discorso del re al popolo (un formato discutibile, la cui disintermediazione è in sé un dato di cui preoccuparsi) ci si aspettavano notizie serie e credibili sui numeri del contagio (lontani con ogni evidenza anni luce da quelli degli stanchi bollettini ufficiali), sull’uso di tamponi e test sierologici, su una campionatura che possa dirci come stano davvero le cose in Italia, sulle decisioni prese intorno alle famose ‘app’, sul calendario scaglionato delle ripartenze regionali. Ma nulla di questo è stato detto: c’è stata invece un’omelia confusa, raffazzonata e contradditoria, che ha aperto la strada a congetture, interpretazioni, interpretazioni delle interpretazioni, nel solito caos del Paese delle grida manzoniane, con la sua inestirpabile genia di Azzeccagarbugli (quella cui, in fondo, appartiene anche lo stesso Presidente del Consiglio).
Abbiamo così imparato che ‘chi ama l’Italia rispetta le distanze’: giusto, ma ci si chiede se davvero sia necessario continuare a trattare i cittadini sovrani da bambinoni da blandire con la lacrima patriottica e quindi da colpire con la stretta poliziesca. E, mi raccomando, non nutrite, non esprimete rabbia, dice il buon parroco di Palazzo Chigi: lui stesso infantile nel ripetuto, compiaciuto autoelogio sull’Europa che ammirerebbe le sue misure.
Ma questo è lo sgradevole fumo: è invece l’arrosto ad essere indigesto. È invincibile la sensazione che si debba ripartire non perché siamo pronti dal punto di vista epidemiologico, ma perché i signori dell’economia non sono più disposti ad aspettare. Dunque la formula della Fase 2 è: produci, consuma, vai a trovare i congiunti. E crepa (possibilmente non di Covid). La vita ridotta alla funzione economica.
E poi, quel che è peggio, ecco emergere un’idea dell’Italia che è francamente nauseante. Il familismo moralista di chi non riesce a pensare se non ai parenti ‘regolari’ (ci vorrà tutto l’indomani per far ammettere che, sì, per estensione si possono visitare anche compagni di vita di ogni tipo e natura). L’ampio margine di interpretazione di norme contradditorie e irrazionali, che delega un enorme margine applicativo alle forze di polizia (con tanti saluti alla certezza del diritto), e un fantastico lasciapassare per i potenti e ben introdotti. La noncuranza verso la scuola, che entra nel discorso solo grazie alla domanda di un giornalista. Una rimozione gravissima in sé, ma due volte grave perché si risolve nell’ennesimo colpo al lavoro femminile: è chiaro che a restare a casa per guardare i bambini saranno infine le mamme, in questo Paese ancora così patriarcale.
Ma in questo modello (Dio, patria, famiglia) non rientrava anche appunto anche la religione (beninteso quella esteriore ipocrita dei maschi italiani destrorsi: come il cialtrone neofascista che brandisce i rosari)? E dunque perché il no alle messe, allora? I vescovi che protestano hanno le loro ragioni, ma sbagliano l’analisi: nessuno ha voluto conculcare la libertà di culto, è solo che il loro culto agli occhi del governo è poca cosa, rispetto al culto vero. Quello del dio denaro.
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Le mostre aprono, le messe no. E non perché le prime siano cultura: magari fosse una presa di posizione illuministica. No, le prime sono bieco mercato, e tutto il sottobosco di sanguisughe del patrimonio culturale sta tallonando Franceschini e Conte perché concedano la riapertura dei botteghini: mentre per andare a messa non si paga il biglietto. E, dunque, il paradiso può attendere.
Cattolici o no, questa situazione preoccupa. Perché la sintesi è che non siamo più trattati come persone ¬– quelle il cui pieno sviluppo viene indicato dall’articolo 3 della Costituzione come il vero obiettivo dell’esistenza stessa della Repubblica – ma come variabili di una funzione economica: potremo lavorare finché, ammalandoci e morendo, non intaseremmo troppo il sistema sanitario nazionale.
Una delle peggiori menzogne che circolano è che di fronte all’emergenza non può esserci essere conflitto, si deve stare tutti insieme. È una menzogna, perché il conflitto c’è già: ed è, come sempre, dall’alto contro il basso. Non esiste un modo solo per gestire una crisi come questa: esiste un modo di destra, e uno di sinistra. Il primo autoritario e dalla parte dei padroni e dei ricchi, il secondo democratico e dalla parte dei lavoratori e dei poveri.
Siamo tutti sollevati che non ci sia Salvini, al governo. Ma più la gestione della crisi sarà (confusamente) di destra, più si prepara il ritorno del consenso alla destra vera.
Saremo dopo quel che siamo ora, nella gestione dell’emergenza: cambiare passo, dunque, è vitale.
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