Il disegno intelligente

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di Gianni Perazzoli

Naturalmente, ci saranno quelli che diranno che Obama in realtà è manovrato da questo o quello e che in fondo non cambierà nulla, perché il Gattopardo non vive solo in Italia. Comunque la pensiate, però, una cosa è certa: con Obama ha stravinto una grande speranza di cambiamento. Questo non lo può negare nessun pessimista. Anche i sogni hanno un peso politico. E il sogno che ha vinto oggi è il più impegnativo di tutti: è il sogno del riscatto sociale e della giustizia. Un sogno che la sinistra italiana, quando va bene, fa solo di notte, per poi farsene assolvere in confessione il giorno dopo.
Con buona pace dei pessimisti, oggi è ripreso il cammino dell’emancipazione sociale. Ma la via del cambiamento procede in avanti, tornando indietro. Certamente ci riporta a prima di Bush, a prima dell’11 settembre. Ma non solo. Certo, è finita l’era dei neoconservatori, che hanno inondato il mondo di paccottiglia ideologica e di sciocchezze surreali, e la cui mercanzia i nostri piazzisti specializzati hanno avuto l’amabilità di riproporci. I Giuliano Ferrara, ad esempio. I Christian Rocca. Sembrava quasi che ricevessero direttamente dall’America il kit del neoconservatore, con i libri giusti da leggere, le strategie comunicative e la lista degli argomenti, sempre gli stessi, da usare in pubblico, perché già sperimentati come persuasivi e vincenti (che poi non erano un granché, per la verità). Vi ricordate quanto a lungo la menò, il Ferrara, con la storia di quel tizio che se ne andava nei tribunali degli Stati Uniti a piazzare una stele in pietra, che immagino pesantissima, con incisi i Dieci comandamenti? La parabola di questo signor Obelix e del suo dolmen doveva ammaestrarci, nelle intenzioni di Ferrara, sulla compenetrazione armoniosa di religione e laicità negli Stati Uniti. Una lezione che ci lasciò, però, del tutto indifferenti. Comunque, per ora se ne sono andati. Si volta pagina. L’ultradestra, quella del disegno intelligente, quella che crede che ai disastri climatici rimedia per noi Iddio, assume adesso il volto della signora Palin. Forse, effettivamente, un segno della provvidenza.
In realtà, però, la vittoria di Obama ci riporta indietro a molto prima di Bush. Persino a prima di Reagan. Ci riporta alla crisi del ’29 e al New Deal. No, non mi impegno in un pedante raffronto su analogie e differenze. Accolgo in partenza l’osservazione profondissima che “Oggi non è ieri” o che “Ogni epoca è diversa dall’altra”. Ma il fatto vero è il ritorno della politica redistributiva e del buon vecchio Keynes.
Il neopremio Nobel per l’economia Paul Krugman, che in questi anni oscuri non ha mai smesso di criticare la politica di Bush, non è il solo a osservare che oggi, come nel ’29, la diseguaglianza sociale, specialmente negli Stati Uniti, è cresciuta enormemente. Pochi hanno quasi tutto e tutti gli altri non hanno quasi niente. Dopo la crisi del ’29, il New Deal aveva posto rimedio all’enorme disuguaglianza con uno strumento diretto ed efficace: le tasse sui redditi alti. Senza troppe storie. E funzionò. Ma funzionò perché, come scrive Krugman, la politica era politica, e sapeva fare il suo mestiere.
A leggere oggi il discorso pronunciato da Franklin Delano Roosevelt alla vigilia delle elezioni del lotano1936 c’è da saltare sulla sedia:
“Fu necessario lottare contro i vecchi nemici della pace: i monopoli industriali e finanziari, la speculazione, l’attività bancaria sconsiderata, l’antagonismo di classe, il settarismo, l’affarismo di guerra.
Avevano cominciato a considerare il governo degli Stati Uniti come una mera appendice dei loro affari. Ora sappiamo che il governo esercitato dalla finanza organizzata è altrettanto pericoloso del governo esercitato dalla plebaglia organizzata.
Mai prima d’ora, nell’intero arco della nostra storia, queste forze sono state così unite nell’opporsi a un candidato. Sono unanimi nel loro odio nei miei confronti e io mi compiaccio della loro avversione”.
La situazione che descrivono queste parole la conosciamo: ma non conosciamo politici che oggi avrebbero il coraggio di parlare così. Leggere queste parole, dice Krugman, “significa sentirsi ricordare quanto prudente, quanto timoroso e garbato sia diventato il pensiero liberal dei giorni nostri”. Vero, ne sappiamo qualcosa anche noi.
Toni accesi, ma da allora, almeno fino a Reagan, nessuno, neanche tra i Repubblicani, ha più osato mettere in discussione lo stato sociale. C’erano per la verità degli oppositori, ma allora non contavano molto. Li descrive in questo modo, in una lettera al fratello, il presidente repubblicano degli Stati Uniti, Dwight Eisenhower nel 1954: «Se un qualsiasi partito politico tentasse di abolire i sistemi di protezione sociale e di protezione contro la disoccupazione, e di abrogare le leggi sul lavoro e i programmi agrari non sentiresti mai più parlare di quel partito nella nostra storia politica. Esiste una minuscola fazione, come sai, convinta che queste cose si possano fare. Ne fanno parte H. L. Hunt (forse conosci l’ambiente da cui proviene), alcuni altri petrolieri miliardari del Texas e qualche politico o imprenditore di altre aree. Il loro numero è trascurabile, e sono stupidi».
Chissà a chi pensava Eisenhower, nel 1954, riferendosi ai petrolieri texani stupidi. Comunque, sappiamo come è andata a finire.
Oggi il problema è se l’elezione di Obama potrà veramente portare alla ripresa di quel progetto interrotto, demolito e screditato ad arte. Se così sarà, il trentennio che ci lasciamo alle spalle dovremo ricordarlo come una parentesi nel cammino del riscatto sociale e della giustizia: l’unico disegno intelligente che ci piace.

(5 novembre 2008)



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