Il dito di Santa Bibiana: grandi mostre e occasioni perdute
Mariasole Garacci
Il fenomeno delle mostre blockbuster comporta una continua migrazione di opere d’arte in giro per l’Italia e all’estero, e l’episodio del capolavoro di Bernini danneggiato durante un trasporto rivela tutta la superficialità di una politica culturale priva di carattere e impegno.
A febbraio si è conclusa una magnifica mostra monografica su Gian Lorenzo Bernini alla Galleria Borghese, curata da Andrea Bacchi e Anna Coliva: i visitatori hanno potuto ammirare, insieme ai pezzi appartenenti alla collezione Borghese, famiglia con la quale Bernini ebbe un prolifico rapporto, una quantità di straordinarie opere scultoree concesse da prestatori nazionali e internazionali tra cui lo Stato Vaticano, il Louvre, lo Staatliche Museen di Berlino, il Thyssen-Bornemisza di Madrid, la National Gallery di Londra, il Bargello di Firenze, oltre che da diversi collezionisti privati.
Il fenomeno delle grandi mostre blockbuster comporta una continua migrazione di opere d’arte in giro per l’Italia e all’estero, talvolta senza considerazione per le lacune lasciate nei luoghi di appartenenza, temporaneamente privati dei loro tesori, e dell’incoerente decontestualizzazione delle opere. L’opera d’arte, dal vaso dell’artigiano greco alla Volta Sistina è sempre un capolavoro squisitamente ‘relativo’. L’opera non sta mai sola, è sempre un rapporto. Per cominciare: almeno un rapporto con un’altra opera d’arte, scriveva Roberto Longhi a proposito del mito del capolavoro assoluto. Un rapporto che l’opera intrattiene anche con l’insieme architettonico e pittorico in cui è inserita, elaborato dallo stesso artista o da altri.
C’è da considerare, d’altro canto, che le mostre offrono spesso l’opportunità di vedere riunita la produzione di un artista o di un periodo, dunque di contestualizzare l’opera trasversalmente, per così dire, e di godere di capolavori che non a tutti sarebbe possibile raggiungere nelle loro sedi attuali. Sedi sparse per l’Europa e per il mondo come lo sono i grandi musei, in cui la presenza di un’opera è comunque storicizzata, ma che a loro volta non sono il luogo per cui l’opera era stata ideata e creata dall’artista, avendo questa già subito, dunque, la frattura del rapporto con il contesto d’origine. E’ il caso delle ricche collezioni, ad esempio, della National Gallery di Londra o del Louvre di Parigi, quest’ultimo nato dal saccheggio di capolavori italiani seguito al ” nella nuova Atene francese. Ma anche non misconoscendo l’utilità e il senso delle mostre, bisogna rilevare che queste rappresentano a volte delle grandi occasioni mancate di vera valorizzazione.
Tra le opere esposte alla Galleria Borghese nella monografica dedicata a Bernini, ad esempio, era la statua di Santa Bibiana proveniente dalla chiesa omonima fatta costruire da Urbano VIII per il giubileo del 1625, sotto la direzione dello stesso Gian Lorenzo Bernini allora al suo primo incarico architettonico, in luogo del sacello che custodiva il corpo della martire vissuta nel IV secolo. Il piccolo edificio, all’epoca circondato da vigne di campagna, si trova ora, pressoché sconosciuto e dimenticato insieme ai tesori racchiusi, a ridosso della Stazione Termini dalla parte di Via Giolitti, all’entrata del lungo sottopassaggio che collega questa strada con Via di Porta San Lorenzo, poco lontano dal ninfeo noto come tempio di Minerva Medica. Ho sempre trovato che il contesto attuale riveli un’inattesa e indefinibile bellezza, data dal cortocircuito visivo tra la fatiscenza di quell’angolo di Esquilino, l’architettura di Termini e la nobiltà della chiesa seicentesca su cui svetta, avvolta da una matematica e quasi borrominiana scala a chiocciola, una delle due metafisiche torri dell’architetto futurista Angiolo Mazzoni ai lati della stazione (1939-40).
La statua di Santa Bibiana è un lavoro magistrale, splendido, appositamente creato da Bernini per essere inserito nella nicchia sull’altare maggiore della chiesa, vicino la colonna del supplizio qui conservata. Raffigura la giovane romana mentre riceve la palma del martirio rivolgendo gli occhi verso il luminoso Padre Eterno che le viene incontro dalla volta affrescata del presbiterio, tra le pareti dipinte da Pietro da Cortona e Agostino Ciampelli con scene della sua storia. Uno scrigno prezioso, insomma, o meglio un vero e proprio teatro barocco del sacro (tale concezione tipicamente berniniana si può ammirare anche nella più famosa cappella Cornaro con l’Estasi di Santa Teresa d’Avila nella chiesa di Santa Maria della Vittoria). Un equilibrio inviolabile realizzato con regia sapiente.
Se nella nostra città esistesse una politica culturale intelligente e davvero attenta alla valorizzazione, la statua di Bernini non sarebbe stata sottratta al suo palcoscenico, al suo rapporto. Chi ha curato la mostra avrebbe dovuto, invece, condurre un’indagine sull’area che ho descritto, per valutare la possibilità di condurre i visitatori in loco –una mostra diffusa, concetto moderno evidentemente estraneo alla logica del blockbuster- dando loro la possibilità di capire realmente la bellezza e il significato di quest’opera, anziché esibirla, come una mannequin sulla passerella, in una sala affollata di altre sculture. Una cura di questo tipo avrebbe sfruttato la realtà del quartiere enfatizzando i nuovi sensi prodotti dal contesto moderno, e avrebbe potuto intessere un rapporto collaborativo con altri soggetti locali, avendo presente che una statua di Bernini non è un’opera d’arte assoluta (ciò che Longhi intendeva), ma un pezzo di un’opera d’arte, e che anche la realtà urbana, sociale e antropica cresciuta intorno a quest’opera si deposita su di essa e ne diviene parte.
Per fare un esempio tra altri possibili, a seicento metri dalla chiesa di Santa Bibiana esiste Binario 95, un centro d’accoglienza diurna e notturna per le persone senza fissa dimora che cercano rifugio nella stazione o nei dintorni. Binario 95 ha negli anni messo in atto programmi concreti di inclusione sociale, accoglienza, sostegno materiale e psicologico e altri servizi che hanno aiutato gli ospiti del centro a cercare lavoro, a ritrovare la propria dignità e a riscoprire le proprie risorse. Si tratta di un soggetto serio e competente, patrocinato dal Comune di Roma e dalla Regione Lazio, che dunque a pieno titolo avrebbe potuto essere riconosciuto come partner e che, in una politica culturale volitiva e sinergica, sarebbe stato coerente e proficuo interpellare e coinvolgere, impiegando anche gratuitamente gli ospiti del centro nella gestione e nella ricezione dei visitatori della mostra di Bernini nella chiesa stessa, come in un satellite temporaneo della Galleria Borghese.
Un’opportunità come questa, l’utilità culturale di includere nelle considerazioni scientifiche e curatoriali di una mostra la conoscenza vera, non libresca e astratta, del contesto urbanistico, antropico e storico stratificato da cui si prende un’opera d’arte, la quale da esso assume invece ulteriore significato e valenza estetica, non sono state neanche concepite. Si è ritenuto di trasportare nel prestigioso museo la statua che si trovava a soli quattro chilometri di distanza, anziché lasciarla nella sua sede così vicina alla stazione per la quale, presumibilmente, molti turisti stranieri si sono trovati a passare proprio per raggiungere la Galleria Borghese (questo, almeno, nell’ambito di una gestione del turismo non viziata dall’invasione di pullman e NCC). Una mancanza la cui superficialità è stata dolorosamente aggravata dalla frattura dell’anulare destro che la statua di Santa Bibiana ha subito durante il suo ricollocamento dopo la mostra, danno che si è cercato vigliaccamente di tenere nascosto finché, pochi giorni fa, non è stato scoperto per caso e reso noto da un docente universitario in visita nella chiesa. Si è persa, in questo modo, l’occasione di praticare una vera storia dell’arte, che dovrebbe essere sempre anche una critica d’arte, e di fare qualcosa di intelligente.
(8 maggio 2018)
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