Il dopo Società Aperta: democratura o suicidio?
di Pierfranco Pellizzetti
straniera del comunismo può ritornare al suo vero
alveo storico: il fascismo»[1].
Paul Krugman
«La moderna democrazia totalitaria è una dittatura
che si basa sull’entusiasmo popolare»[2].
Jacob L. Talmon
Ivan Krastev e Stephen Holmes, La rivolta antiliberale – Come l’Occidente sta perdendo la sua battaglia per la democrazia, Mondadori, Milano 2020
Albert Otto Hirschman, Retoriche dell’Intransigenza – Perversità, futilità e messa a repentaglio il Mulino, Bologna 1991
La strana coppia
Un recentissimo volume mondadoriano sul rigetto a Est della cultura occidentale, scritto a quattro mani (Stephen Holmes, filosofo del diritto nell’Università di New York, con il politologo bulgaro, opinionista del New York Times, Ivan Krastev) e un celebre saggio di mezzo secolo fa, che smascherava i meccanismi retorici con cui vengono propugnate le ragioni del pensiero reazionario.
Partendo dal testo attuale, qui si confessa subito di non aver mai sentito nominare l’autore venuto da Sofia: un cinquantacinquenne coronato l’altr’anno dal successo con un’opera sulla crisi del progetto europeo[3], che – guarda caso – tanto apprezzamento ha ricevuto sulla pagine berlusconiano/masnadiere/inciuciste de il Foglio[4]. Ricorrente caso – quello di Krastev – del maître à penser giunto dal mondo postcomunista sulle orme dello psicanalista lacaniano Slavoj Žižek da Lubiana? Il destinatario della caustica battuta di Tony Judt: «siamo fra intellettuali famosi soprattutto per… essere intellettuali. Nel senso in cui Paris Hilton è famosa per… essere famosa»[5].
Insomma, “gente alla moda”, alla Bernard Henry Lévy, alla Régis Debray, che animano il dibattito, altamente permeabile alle trovate dialettiche, rimpallato tra Rive Gauche e New York. Nel caso di Krastev, si tratta dell’assunto secondo il quale l’attuale spaccatura tra Est e Ovest, tra popoli ed élites, troverebbe la sua spiegazione nell’arrivo di milioni di migranti da Sud e da Est; invasione barbarica di cui la democrazia liberale sarebbe colpevole non avendo capito che a indebolire il sistema democratico non sono oggi le diseguaglianze sociali o la recessione economica, bensì la crisi migratoria. Dunque, la spaccatura che si allarga nelle società occidentali tra internazionalisti e nativisti riguarderebbe coloro che cavalcano la globalizzazione e coloro che la subiscono. Sicché, in questo contesto, i confini aperti non sono più un simbolo di libertà ma un tangibile segno di insicurezza.
Nel caso nostro, mentre a Ovest i “valori cosmopoliti” sono ritenuti le fondamenta dell’Unione europea, all’Est sono considerati una minaccia. E se il cosmopolitismo tedesco – conclude Krastev – risulterebbe una reazione al suprematismo nazista, il nazionalismo dell’Europa dell’Est lo sarebbe all’internazionalismo comunista.
A prescindere dal fatto che – come ammettono gli stessi autori del saggio in questione – la reazione etno-nazionalista all’universalismo liberale sconta il fatto che le istanze anti-immigrazione si affermano (grottescamente) in un’area sostanzialmente priva di immigrati, per cui «i cittadini dell’Europa centrorientale che hanno lasciato i loro paesi per l’Europa occidentale a seguito della crisi finanziaria 2008-2009 sono più numerosi della totalità dei profughi arrivati a causa della guerra in Siria» (IK e SH, pag. 47); considerando che la tesi della divergenza tra cosmopolitismo delle élites e isteria popolare non è propriamente fresca di giornata (tanto per dire, anche in questo sito si è parlato delle ricerche sulla società svedese in via di polarizzazione per il fenomeno migratorio dell’antropologo Jonathan Friedman alla fine degli anni Novanta[6]); magari prendendo atto che le pandemie 2020 hanno spostato l’attenzione collettiva dagli extracomunitari ai virus, indirizzando le psicosi verso altri mostri reali/immaginari. Tutto ciò premesso, resta il fatto che il castello della “rivolta antiliberale” di cui si parla mette in campo stereotipi opinabilmente reali quanto a forte sospetto di irrealtà: le caricature del Liberalismo e del Populismo.
In una narrazione che coinvolge inaspettatamente un autore solitamente dotato di grande sagacia analitica, quale Holmes.
Un’altra operazione alla moda?
Cosparso il capo di cenere per aver ignorato sinora l’esistenza del “grande politologo bulgaro” (copy Wlodek Goldkorn, l’Espresso 20 gennaio 2020), provo a salvarmi l’anima da recensore avventizio affermando di seguire da decenni la saggistica del suo attuale partner americano, ammirandone l’illuminante eterodossia. A partire dall’acuta focalizzazione del Liberalismo, sulla scia di De Ruggero, come teoria e programma politico basato su «l’idea che il dissenso costituisca una forza creativa è forse il principio più innovativo e radicale»[7]. Un quarto di secolo fa. Cui fece rapido seguito l’illuminante spiegazione del ruolo decisivo svolto nella democrazia liberale dal principio di “ispezionabilità del potere” («le élite politiche della vecchia Europa hanno sempre sostenuto che le masse dell’umanità sono fondamentalmente incapaci e stupide, sicché hanno bisogno di essere governate. I liberali hanno fatto propria questa tesi, nel contempo l’hanno universalizzata: al pari degli uomini comuni, anche i governanti hanno bisogno di essere governati»[8]). Ma anche più di recente Holmes ci aveva offerto analisi puntuali segnalando l’azzeramento della società politica, con la nascita di una verticale del potere come verticale dell’impunità («prodotto di un movimento per la liberazione dei ricchi: i potenti non vogliono dominare perché hanno capito che non è un’attività abbastanza lucrativa; vogliono soltanto arricchirsi e allontanarsi sempre di più dal resto della società blindandosi dietro recinzioni, usando una polizia privata, scuole private, ospedali privati e via dicendo»[9]).
Risulta un po’ difficile capacitarsi di come questa dote di affondare la sonda analitica nella realtà sia venuta trasformandosi, nella partnership con Krastev, in uno strumento spuntato dal conformismo. Perché, se è vero che la transizione avviata a Est dal dopo 1989 sta sfociando nel disamoramento del modello occidentale; questa reazione – che faceva seguito a intensi esperimenti imitativi del paradigma vincente – non può essere addebitato a un patrimonio liberale accantonato già da tempo dai diretti interessati. La denunciata ipocrisia dell’Occidente, uscito vincitore dal lungo scontro della Guerra Fredda, verte in effetti sulla mutazione genetica intervenuta nel proprio campo: la liquidazione dei valori liberali (tolleranza e tutela delle minoranze, pluralismo, anticonformismo critico, universalismo, individualismo, democrazia competitiva, mobilità orizzontale e verticale e chi più ne ha più ne metta) a vantaggio del ritorno egemonico di quanto noi italiani chiamiamo Liberismo (e gli anglosassoni Neoliberalism). David Harvey interpreta «la neoliberalizzazione come un progetto utopico finalizzato a una riorganizzazione del capitalismo internazionale, oppure come un progetto politico per ristabilire le condizioni necessarie all’accumulazione di capitale e ripristinare il potere delle &e
acute;lite economiche»[10]. Insomma, dopo la stagione della cittadinanza inclusiva welfariana, il ripristino di assetti oligarchico/reazionari, per l’affermazione dell’assiomatica dell’interesse avido/egoistico che Maurice Duverger definiva “plutodemocrazia”.
Niente a che vedere con il venerando ideal-tipo di “Società aperta”, in auge all’inizio dell’ultimo quarto del XX secolo e ispirato a un celebre testo di Karl Popper, scritto nel lontano 1943 con chiari intenti anti-totalitari: la giustificazione epistemologica della liberal-democrazia. Tesi verso cui l’occidente capitalistico, stappato il vaso di Pandora della Guerra Fredda e liberato dai contrappesi che ne tenevano a bada le pulsioni distruttive, ormai non dimostra il benché minimo interesse. Tanto da lasciare ipotizzare che lo scontro finale, nell’Armageddon della nostra civiltà, dovrebbe avvenire tra liberali e liberisti, col terzo incomodo dei sovranisti comunitari.
Dunque, è questo tipo di società egemonizzata della finanza accaparrativa che si presenta come l’ideale da assumere e modello da imitare per i Paesi dell’Est europeo, nel totale smarrimento creatosi nel collasso post Unione Sovietica. Che assumeranno e imiteranno fino allo choc del 2008 (esplosione della bolla speculativa che determina il crollo di Wall Street, con rimbalzi devastanti in tutto il sistema-Mondo). Il momento in cui la leadership occidentale perde legittimità, coinvolgendo nel discredito l’utopia positiva della Società Aperta, in quanto ormai promotrice più di inquietudini che di speranze.
A seguito del marasma conseguente al manifestarsi del volto devastatore della globalizzazione, nelle nazioni sotto minaccia di estinzione etnica sorge l’esigenza difensiva di perimetrare la propria specificità come ritorno agli assetti di un passato idealizzato, nella formula a base identitaria di “democrazia illiberale”. Sicché, per i Paesi aderenti al cosiddetto Gruppo di Visegrad, con in testa l’Ungheria di Viktor Orban e la Polonia di Jaroslaw Kaczynsky, «la minaccia più grave per la sopravvivenza della maggioranza cristiana bianca in Europa è l’incapacità delle società di difendere se stesse. E non possono difendersi perché i preconcetti del liberalismo contro il comunitarismo rendono i suoi sostenitori ciechi di fronte alle minacce che li attendono» (IK e SAH pag. 55).
L’opposizione al post-nazionalismo cardine dell’Unione europea (al tempo stesso contestata, stavolta per le pur timide tracce solidaristiche originarie, da parte dai cultori delle pratiche di austerity bancario/bottegaie NeoLib, oggi presidiate della componente nordica dei cosiddetti “Frugali”; nonostante le loro attitudini affaristiche a spese dei “mediterranei”: olandesi, danesi, austriaci e svedesi).
Il sintomo palese di una catastrofe degli assetti egemonici del sistema-Mondo, nello smarrimento dei suoi valori legittimanti (in altri tempi efficacemente espressi da Holmes). Ben oltre i rimbalzi in dimensioni regionali sostanzialmente periferiche, seppure in grado di indurre a loro volta effetti imitativi in altri nativismi reazionari.
Ma la battaglia per la liberal-democrazia è stata persa già da quel dì. E su altri fronti.
Putin populista? E pure Trump.
Se è vero che la presunta rivolta anti-liberale è – in effetti – la conseguenza inevitabile del fallimento della restaurazione liberista veicolata dall’Unione europea, rivisitata in chiave reazionaria a Est, il contestuale risentimento nella Russia post-sovietica si indirizza contro l’antagonista che l’ha umiliata, stroncandone il profilo imperiale: gli Stati Uniti d’America, di cui la propaganda putiniana ha più volte sottolineato la brutalità e l’ipocrisia. Ma con una singolare analogia, evidenziata dai nostri autori: «Putin come Trump vuole proteggere il suo Paese dall’Occidente liberale» (IK e SH pag. 152). Un’affermazione comprensibile, che – tuttavia – suona a smascheramento dell’uso indebito – nei confronti del duo “protettori” – fatto da Krastev e Holmes del termine “populisti”, non di rado in abbinamento con “demagogia”. Quasi che l’un aggettivo fosse il rafforzativo dell’altro.
Ormai è diventata insopportabile la sciatteria lessicale al servizio del travisamento definitorio, per cui “populistico” sarebbe un’indistinta accozzaglia che mescola ingredienti di destra e sinistra: dal movimento del Front National di Marine Le Pen a quello greco di Syriza e di Podemos in Spagna, gli Stati Uniti con Donald Trump e i CInquestelle in Italia. Il confusionismo per confondere le acque e la percezione reale di processi politici profondamente diversi, malamente agglutinati da Krasten in un’ipotetica “Era del Populismo”. Sorta di tip tap in cui – di questi tempi – si è esercitato con successo (di pubblico e critica) il docente della Princeton University Jan-Werner Müller. Tra l’altro sperticato ammiratore di Ivan Kratev, da lui definito nientepopodimeno che “il Tocqueville dei nostri giorni”.
Secondo costui si tratterebbe di una «visione moralistica della politica, un modo di percepire il mondo politico che oppone un popolo moralmente puro e completamente unificato […] a delle élite ritenute corrotte o in qualche altro modo moralmente inferiori»[11]. Una concezione che valuta illegittimo il potere che ci governa in quanto corrotto, per cui – di conseguenza – estenderebbe la propria esecrazione alla stessa essenza democratica complessivamente intesa.
Cosa ci sia di attendibile in questa tesi peregrina è difficile discernere, visto che avrebbe come massime espressioni il presidente degli Stati Uniti e quello della Russia, entrambi assai poco propensi a occuparsi di questioni etiche nell’uso spregiudicato, ben oltre la soglia del cinismo, che fanno del potere. Per quanto riguarda la loro ipotetica avversione dell’establishment, risulta palese il comune intento di rimpiazzare una vecchia élite del potere, magari screditata (gli oligarchi affaristi di Eltsin per l’uno, le avide nomenklature di Washington per l’altro), e installare se stessi al vertice della piramide del potere. Mentre il richiamo al popolo e ai suoi bisogni risulta platealmente strumentale. In questo Trump e Putin, insieme a Orbán, sono davvero «anime gemelle» (IK e SH, pag. 176). Ma loro e i loro compari sono agli antipodi di chi propugna una rifondazione etica della politica democratica. E lo dimostrano nei fatti. Come dice il duo Krastev-Holmes: «Trump perché si è ritirato dall’accordo di Parigi sul clima e dal trattato nucleare in Iran. Perché cerca di smantellare l’Obamacare, concede generosi tagli fiscali ai ricchi e al tempo stesso annulla i finanziamenti destinati ai programmi a favore dei poveri, mette in gabbia i minorenni separati dai genitori lungo il confine con il Messico, minimizza le nefandezze commesse dagli autocrati che ammira, usa il termine globalista per suggerire che gli ebrei americani sono sleali e via dicendo» (IK e SH, pag. 221).
E che dire del nuovo zar più di quanto segue? «Le elezioni truccate sono state lo strumento che ha permesso a Putin e alla sua cricca di governare senza doversi confrontare con le enormi sfide amministrative di un paese assediato da un numero infinito di problemi apparentemente ingestibili. Elezioni del genere ben si adatt
avano alla natura di un regime che non sfruttava la gente […] ma le ammansiva con una relativa stabilità e prosperità e poi le ignorava mentre accumulava ricchezze stratosferiche vendendo all’estero le risorse naturali del paese. L’occultamento dell’incapacità, piuttosto che il rafforzamento delle capacità era (e rimane) al centro dell’abilità politica di Putin» (IK e SH, pag. 131).
I due leader mondiali, una coppia di populisti? Solo secondo una semantica improvvida (o strumentale) che vorrebbe tale lemma quale sinonimo di “spudorati demagoghi arruffapopoli”.
La retorica anti-populista al vaglio di Hirshman
Uno spettro si aggira per l’Occidente – lo spettro del Populismo. Tutte le potenze della vecchia società, i partiti “responsabili” e la finanza, Macron e George Soros, tecnocrazia di Bruxelles e baroni dell’Accademia, si sono alleati in una santa caccia spietata contro questo spettro.
Il senso della presente parafrasi è che la critica dell’establishment declinante, in questo lungo interregno di transizione egemonica, resta oggi l’unica posizione praticabile per un approccio progressista (vogliamo dire “di sinistra”?) e costituente all’istanza di AltraPolitica. Contro cui si indirizzano le strategie argomentative del sistema di potere sotto minaccia, intenzionato a resistere mistificando la realtà.
Si era nel 1991 quando Albert Otto Hirschman, grande “irregolare” della cultura liberale del Novecento, dava alle stampe The Retoric of Reaction (titolo stravolto nella traduzione italiana, dove “reazione” diventa inopinatamente “intransigenza”), in cui si analizzavano le modalità argomentative delle posizioni che si muovono lungo la filiera conservazione/oscurantismo. A quell’epoca era già in atto l’inversione di clima politico/culturale nello spirito del tempo (tra il 1978 e il 1980 si erano insediati Thatcher e Reagan, la caduta del blocco sovietico nel 1989 aveva eliminato ogni contrappeso al Turbo-Capitalismo), eppure l’onda lunga del pensiero welfariano ancora induceva gli avversari a pratiche mimetiche. «Il carattere ostinatamente progressista dell’epoca moderna fa sì che i ‘reazionari’ vivano in un mondo ostile. Essi si trovano a fronteggiare un clima intellettuale in cui qualsivoglia nobile obiettivo additato alla società da soggetti sedicenti ‘progressisti’ si vede per ciò stesso assegnare un valore positivo. Stante questa condizione della pubblica opinione, i reazionari sono poco inclini a lanciare un attacco globale contro un obiettivo del genere. Essi invece lo sottoscriveranno (più o meno sinceramente), ma tenteranno poi di dimostrare che l’azione proposta o intrapresa è malconsigliata» (AOH, pag. 19).
Da qui la triplice retorica, articolata in perversità (le azioni riformatrici producono effetti contrari non intenzionali), futilità (ogni tentativo di cambiare le cose è destinato ad abortire) e messa a repentaglio (ogni tentativo di riforma crea pericoli mortali per preziose conquiste precedenti).
Rispetto agli anni in cui Hirschman licenziava il suo saggio, molte cose sono radicalmente cambiate: la reazione rampante è venuta impunemente allo scoperto, il fronte progressista è in rotta mentre i suoi componenti si sono omologati ai vecchi avversari dando vita a un’unica corporazione autoreferenziale del potere (vulgo “Casta”), gli arsenali della comunicazione si sono arricchiti di paradigmi argomentativi sorprendentemente elaborati a sinistra (in particolare il declassamento dei “lavoratori” in “consumatori”). Ma mentre la componente demagogica all’attacco – da Trump a Putin – ha sdoganato, legittimato e ostentato i propri umori più nefasti – dal diritto alla menzogna al giustificazionismo di qualsivoglia mezzo per il raggiungimento dei propri fini più spregiudicati – la componente establishment, che ancora popola le istituzioni, non può permettersi tali sbracature. Difatti pratica nei confronti della minaccia populista le retoriche hirschmaniane. Sicché la critica dell’establishment metterebbe a repentaglio gli equilibri di governo creando pericolosi vuoti di potere; la denuncia delle politiche anti-popolari sarebbe futile perché non ci sono alternative (TINA: there is no alternative thatcheriano); la denuncia populista risulterebbe perversa nella misura in cui apre le porte ai sovranisti e ai suprematisti indebolendo con il discredito il fronte dei “responsabili”.
Tutte retoriche che, nella difesa di un declinante status quo, non sfiorano neppure per un istante il problema di rifondare una democrazia sfigurata come “post-democrazia” e svuotata come “democratura”. Peggio, la rimozione del problema: ossia il vero pericolo di un Occidente che se lo è allevato in seno, come il serpente velenoso del nuovo totalitarismo prossimo venturo.
In conclusione vale la pena di ricordare le parole di un altro combattente liberaldemocratico – Karl Polanyi – pronunciate in una conferenza tenuta alla Columbia University alla fine degli anni Cinquanta. Il tema era l’avvento del totalitarismo fascista. «L’alternativa era: o un’integrazione della società attraverso il potere politico su basi democratiche; oppure se la democrazia si fosse rivelata troppo debole, l’integrazione su basi autoritarie in una società totalitaria, al prezzo del sacrificio della democrazia. Il sistema sociale americano non si trova, a mio avviso, di fronte a questo tragico dilemma. Ma, affinché sia evitato il rischio della perdita della libertà , esso dovrà compiere due sforzi allo stesso tempo: accettare la necessità di un’integrazione e realizzarla attraverso metodi democratici»[12].
Sessant’anni sono passati da allora e quel rischio che Polanyi reputava ipotetico si fa di giorno in giorno più reale. Ma non per gli insignificanti personaggetti che conquistano il potere in staterelli postcomunisti cavalcando le isterie delle proprie popolazioni extra urbane, incolte e impaurite (e che diventano mine vaganti solo per l’inettitudine del concerto europeo e i suoi sedicenti statisti di cartone), neppure per i maneggi, le eliminazioni sospette e le piraterie informatiche di un ex KGB installato a vita nel Cremlino ad arrabattarsi per ripristinare un irrealistico revival imperiale.
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NOTE
[1] P. Krugman, “Se l’America perdesse la libertà”, la Repubblica 29 agosto 2018
[2] J. L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, il Mulino, Bologna 1967 pag. 14
[3] I. Krastev, Gli ultimi giorni dell’Unione – Sulla disgregazione europea, LUISS University Press, Roma 2019
[4] «La caratteristica principale del populismo è l’ostilità non all’élitismo ma al pluralismo» David Allegranti, “Il dibattito europeo ai tempi del Sovranismo”, il Foglio 7 febbraio 2019
[5] T. Judt, Lo chalet della memoria, Laterza, Roma/Bari 2011 pag. 109
[6] J. Friedman, Politicamente corretto, Meltemi, Milano 2018
[7] S. Holmes, Anatomia dell’antiliberalismo, Edizioni di Comunità, Milano 1995 pag. 7
[8] S. Holmes, Passioni e vincoli – i fondamenti della democrazia liberale, Edizioni di Comunità, Milano 1998 pag.8
[9] S. Holmes, Poteri e contropoteri in democrazia, Codice, Torino 2013 pag. 26
[10] D. Harvey, Breve storia del Neoliberismo, il Saggiatore, Milano 2007 pag. 29
[11] J-W Müller, Cos’è il populismo, Università Bocconi Editore, Milano 2017 pag. 26
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