Omofobia e aborto: il doppio attacco della destra cattolica italiana

Vittorio Bellavite


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Appena terminata la fase intensa del Coronavirus e in pieno periodo estivo la destra cattolica, in particolare tutto il suo associazionismo famigliare, si è riattivata con grande passione su due questioni che si ritengono di grande rilevanza etica e che impattano con le istituzioni, ricevendo consensi da molti vescovi e attenzione da parte dell’Avvenire (anche se con prudenza e non sempre a senso unico). Sinceramente mi sembrano questioni di secondo livello rispetto ad altre che dovrebbero avere, in questo momento della vita della nazione, un ben più forte e generalizzato coinvolgimento etico dei credenti. Basti pensare alla questione dei migranti, basti pensare alle tante e diffuse sofferenze conseguenti alla pandemia e si può aggiungere l’accertato peggioramento della condizione femminile che si è verificato negli ultimi mesi per la condizione di maggiore costrizione in cui molte donne si sono trovate.

La discriminazione contro gli omo non fa problema

La prima “campagna” riguarda l’ostilità nei confronti del disegno di legge che vuole introdurre un’aggravante per chi viola l’art. 604 bis del codice penale perché essa, nell’ambito del reato di discriminazione razziale, etnica e religiosa, possa prevedere una particolare e più severa punizione per chi usa violenza, fisica o morale, nei confronti degli omosessuali. Si sostiene che le norme ci sono già per tutelare a sufficienza gli omo. L’esprimere opinioni critiche sui gay ricadrebbe in questa aggravante limitando quindi la libertà di espressione. “Noi Siamo Chiesa” l’11 giugno ha già detto quanto era necessario, anzitutto per denunciare il disconoscimento della realtà da parte di chi non vuole prendere atto che esistono ancora ed in modo diffuso discriminazioni e violenze esplicitamente esercitate nei confronti delle realtà LGBT che esigono dalle istituzioni una sanzione particolare. Poi “Noi Siamo Chiesa” ha deplorato l’intervento a gamba tesa della Presidenza della CEI del 10 giugno secondo cui questa “introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide”. Contra factum non valet argumentum, per cui di fronte alla realtà, ben conoscibile dalla cronaca quotidiana, la campagna dei vescovi non è che, in definitiva, una specie di non detta continuazione della diffidenza nei confronti del mondo LGBT che era stata alla base dello scontro sulla legge sulle unioni civili. L’intervento della CEI è stato, inoltre, privo di laicità per il suo diretto e pesante intervento nei confronti della Commissione Giustizia della Camera investita della questione.

La Ru486

La seconda “campagna” è partita a ferragosto quando il Ministero della Salute ha emanato linee di indirizzo sulla gestione della pillola abortiva Ru486. Queste indicazioni del ministero non sono vincolanti, ma solo orientative per le strutture sanitarie che dipendono dalle Regioni. Esse prevedono che non sia più necessario il ricovero dopo l’assunzione della pillola, che essa può essere assunta fino alla nona settimana della gravidanza (prima era fino alla settima) e prescritta anche nei consultori (questo punto merita di essere approfondito, alcune obiezioni che negano questa possibilità forse hanno un fondamento). Queste indicazioni sono accusate di costringere la donna ad abortire nella solitudine al di fuori di ogni struttura e ne sottolineano i maggiori rischi sanitari. Esaminando la questione, le contestazioni all’intervento del Ministero sono costrette a reagire in modo critico a ben tre pronunciamenti delle massime autorità sanitarie del nostro paese, il Consiglio Superiore di Sanità (Css), l’agenzia Italiana del farmaco (AIFA) e la Società italiana dei ginecologi ed ostetrici (SIGO); i tre organi si sono pronunciati nella medesima direzione e tutto ciò ha dato poi il nullaosta al Ministero che ha preso atto di dover andare oltre le precedenti indicazioni del 2010. I vescovi non hanno scritto testi firmati dalla CEI ma ci sono singoli pronunciamenti (come quello del cardinale Bassetti del 15 agosto: “non viene mantenuto nemmeno il ricovero”), ma in generale l’atteggiamento è stato più sobrio di quello contro la legge sull’omofobia mentre invadente e assillante è stato quello dell’associazionismo. Mi sembra che le prese di posizione delle autorità sanitarie taglino, come si usa dire, la testa al toro e possano zittire le contestazioni. A fronte della tanto pretesa solitudine della donna senza ricovero ospedaliero ci sono poi opinioni nettamente contrarie al suo ruolo che non sarebbe sempre positivo. Un bell’articolo di Paola Lazzarini Orrù (“Avvenire” del 12 agosto) dice cose importanti: «nessuno si preoccupa del fatto che le donne sono più spesso sole, spaventate ed esposte a rischi nelle corsie di un ospedale che a casa propria… l’istituzionalizzazione non ha mai favorito l’autonomia e la riflessività , anzi, al contrario, il funzionamento del sistema sanitario si fonda proprio sulla deresponsabilizzazione dei pazienti che vengono gestiti, manipolati, spostati».

Un animus antiabortista gestito male


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In effetti, dietro gli interventi critici sulle linee guida del Ministero si vede con evidenza un forte e comprensibile animus antiabortista che trova l’occasione per farsi sentire, ma che non risulta efficace nello specifico. Esso infatti ci sembra mal indirizzato; si richiama anche alla 194 cercando di utilizzarne i primi due articoli (“lo Stato… tutela la vita umana dal suo inizio”) . Mi piace ricordare che questi articoli “antiabortisti” furono scritti dai cattolici democratici della Sinistra Indipendente (non dimentichiamocelo) mentre allora, come adesso, lo scontro di una vasta area del mondo cattolico contro la 194 nel suo complesso fu molto duro e permane tuttora così come permane l’accettazione della legge da parte di tanti credenti che pure contrastano con forte convinzione l’aborto, dramma per la donna, sconfitta per la società. Mi sarebbe piaciuto un intervento che non trascurasse le tante altre concrete questioni di fondo che riguardano la continuazione della vita, dal problema della contraccezione a quello della denatalità, dalla ben scarsa responsabilizzazione dell’uomo di fronte alla scelta all’accompagnamento della donna che si interroga se abortire o meno (e non quindi sulle modalità dell’intervento), dall’esistenza e dal funzionamento dei consultori fino al problema dei problemi, quello delle tante precarietà (casa, lavoro, prospettive per il futuro, ecc.) davanti alle quali si trovano le giovani coppie che sono costrette a frenare, spesso con sofferenza, la voglia di maternità e di paternità. Più in generale si tratta del problema stesso della condizione della donna nella società e nella famiglia. La politica per i giovani e per la famiglia nei suoi tanti vari aspetti è stata ed è veramente ancora troppo debole nel nostro paese. Da tempo ricordo che da settantacinque anni uomini politici che si ispirano, spesso in modo enfatico e arrogante, ai valori cristiani hanno avuto in modo ininterrotto le massime responsabilità nella gestione delle nostre istituzioni a livello sia nazionale che locale. I ben scarsi interventi per la famiglia e contro la denatalità non sono senza padri e senza nonni.

* coordinatore nazionale NOI SIAMO CHIESA
(15 settembre 2020)





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