“Il dovere di essere ribelli con intelligenza”. Intervista a don Luigi Consonni

Giuseppina Vitale

Luigi Consonni – classe 1941, famiglia cattolica: una madre donna di fede semplice, un padre cresciuto nell’opposizione al fascismo, fino a diventare ufficiale dei partigiani bianchi nei giorni decisivi attorno al 25 aprile – è ordinato prete nel 1968. Presta il suo primo servizio a Baggio (Mi) fino al ’72, in un quartiere nuovo di edilizia popolare.
Lì intuisce che il modo più serio di annunciare il Gesù a cui crede non è parlarne ai ragazzini della scuola media, ma testimoniarlo nel silenzio vivendo nelle condizioni materiali dei genitori di quei ragazzini.
Dopo altri 4 anni vissuti come prete dei giovani lavoratori a Trezzo sull’Adda (sono gli anni caldi del golpe cileno e poi del referendum sul divorzio e della "paura" del sorpasso dei comunisti nelle elezioni successive), nel 1976 inizia la sua vita da operaio: fino al 1980 lavorerà alla Lamprom, una combattiva fabbrica metalmeccanica che produce cerniere lampo, di proprietà di una multinazionale, zona sud di Milano: ma il progetto della nuova linea metropolitana (la linea "gialla") svuota delle fabbriche tutta la zona e la Lamprom chiude: la classe operaia non sarà più "maestra" di lotte e di vita nella fascia sud della città…
Nel 1981 viene assunto alla Breda Fucine di Sesto San Giovanni, zona nord-est di Milano: 40.000 posti di lavoro nell’industria metalmeccanica pubblica e privata, decenni di lotte operaie a partire dalla lotta antifascista prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale. Ma bastano i due decenni 70 e 80 per fare piazza pulita delle grandi fabbriche e cancellare la leggenda della "Stalingrado d’Italia".
La sua ultima esperienza lavorativa, dal 1996 al 2005, è quella di operaio al Comune di Milano, dove è riuscito insieme ai compagni di lavoro che per diversi anni hanno dovuto lottare per difendere il diritto al lavoro proclamato dalla costituzione.
Trent’anni di vita lavorativa che si esprimono nella sua personalità decisa e battagliera. Alle sue spalle, durante la nostra conversazione, spiccano un Atlante geografico, due dizionari, uno d’italiano e l’altro di francese, ed i manuali di storia contemporanea di Peppino Ortoleva e Marco Revelli. Certamente il mio interlocutore è un uomo che è appartenuto al suo tempo.
Il suo nome compare nell’elenco dei preti che hanno sottoscritto l’appello contro la legge sul fine vita (in merito al “Caso Englaro”) pubblicato da MicroMega (2009); nel 2007 aveva sottoscritto una lettera aperta al Vescovo, ai presbiteri ed ai laici della diocesi di Torino, che esprimeva il turbamento di molti di fronte alle prese di posizione di autorevoli rappresentanti della CEI sulla progettata legge sui diritti di convivenza (2007) .
Negli anni Novanta è stato in Rwanda dove ha vissuto direttamente i drammi della guerra e l’esodo in massa della popolazione verso la Tanzania.
Oggi si occupa di immigrazione e integrazione sociale a Pioltello, il centro urbano a est di Milano che si trova nei primissimi posti nelle classifiche relative all’immigrazione.

Consonni, qual’è il percorso che l’ha portato a scegliere il lavoro?
Ho cominciato a lavorare nel ’76, quando già si era nella fase discendente della forza della classe operaia in Italia; ma io avrei voluto iniziare qualche anno prima.
Nel ’68 sono finito a fare il “pretino” giovane a Baggio, periferia ovest di Milano, in uno dei quartieri malfamati, un quartiere di edilizia pubblica dove ho conosciuto per esempio i terremotati della Valle del Belice, ai quali veniva assegnata una casa popolare.
Ho avuto a che fare con un sottostrato sociale popolare; questa cosa mi aveva già convinto negli anni Settanta a mettermi a vivere come la gente comune, piuttosto che insegnare religione ai loro figli.
Le scuole medie in cui dovevo insegnare religione erano ribollenti, per cui il primo obiettivo di un preside "normale", sin dagli anni Settanta, era “tenere l’ordine”: non “insegnare bene”, ma “tenere l’ordine”! E se non sai tenere la classe, cosa insegni a fare?
Ma a me proprio non interessava "tenere la classe"…

Vuole parlarci della sua esperienza in fabbrica?
Sono riuscito ad andare in fabbrica come operaio nel ’76. Sono passati almeno 5-6 anni da quando avevo intuito che questa fosse la "mia strada": ci ho messo parecchio tempo perché volevo andarci senza gesti di ribellione verso l’autorità: erano quelli gli anni della contestazione anche dentro la Chiesa e alcune decine di preti erano entrati in condizione operaia contro il parere dell’autorità, che però aveva fatto terra bruciata intorno a loro, togliendo loro ogni ruolo all’interno della diocesi: ma io volevo poter continuare ad essere riconosciuto come prete dal mio vescovo…
Nel ’76 sono finito in una fabbrica di cerniere lampo, la Lamprom, nella zona Sud di Milano, zona Romana, una delle tre grandi zone industriali; la nostra azienda è finita rapidamente in crisi, in quattro mesi hanno chiuso ed ho perso il posto di lavoro.
Lì ho imparato la lotta da una compagna comunista emiliana di 45 anni; quando era arrivata a Milano, a 18 anni, aveva trovato una fabbrica quieta dove nessuno scioperava; quando sono arrivato io, era ormai la leader indiscussa di oltre 200 operai, in grande maggioranza donne.
Iole (così si chiamava) è stata molto importante per me, perché mi ha insegnato il valore del conflitto, di quel sano conflitto che è occasione di confronto e di crescita.
Era il 1980 quando abbiamo perso il posto di lavoro: vedermi chiudere la fabbrica e ritrovarmi in cassa integrazione "a perdere" (si diceva così allora) ha provocato anche in me una pesante crisi di identità. Oggi capisco bene cosa vuol dire per un operaio perdere il posto di lavoro: non si tratta solo di una questione economica, ma di identità. L’operaio senza lavoro non sa più chi è!

Che rapporto aveva con gli operai? Sapevano che era un prete?
No. Io sono sempre entrato in incognito, non solo perchè non mi interessava proprio di essere riconosciuto come prete, ma soprattutto perché se avessi dichiarato di essere un prete non mi avrebbero assunto.
Sono pochi i preti operai che sono entrati in fabbrica senza nascondere la loro identità di prete; anche perché se un padrone ti assume sapendo che tu sei un prete, gli altri operai si fanno di te un’immagine non proprio pulita, perlomeno ambigua.
Quando ho compilato la mia prima domanda di assunzione ho dovuto inventare qualche notizia su di me, dicendo che ero stato magazziniere nella ditta di mio padre che però era chiusa, etc.
Poi, in ogni posto di lavoro, lentamente sono arrivati a conoscere che io ero un prete, di solito a causa di incontri casuali: per esempio, alla Lamprom c’era un giovane impiegato che mi conosceva benissimo perchè abitava nella stessa parrocchia in cui io avevo inizaito a fare il prete; inizialmente ho ottenuto da lui il silenzio sulla mia identità, ma poi per altre vie la verità è saltata fuori.

Come viveva la "lotta operaia"?
Negli anni Ottanta a Sesto San Giovanni ho fatto in tempo a vedere quello che rimaneva della forza delle mobilitazioni operaie. Quei cortei che dalle periferie della città arrivavano a riempire piazza Duomo, davano un’immagine – a volte esaltante – di forza e determinazione.
Io credo che, se avessimo avuto una dirigenza seria e forte, ci saremmo conquistati il mondo.
Oggi per&ogr
ave; ho maturato uno sguardo piuttosto diverso, certamente meno ingenuo ed entusiasta di allora: i cambiamenti veri nella storia avvengono gradualmente e lentamente; e perchè avvengano devono crescere generazioni consapevoli della necessità di cambiare davvero radicalmente questo mondo.

E i rapporti con il suo vescovo, invece?
La storia dei PO è molto diversificata, prima di tutto perché siamo gente che ha studiato, che ha delle basi culturali; poi perché inevitabilmente la tentazione del potere è molto forte, perché rimaniamo pur sempre clero.
In Francia la storia dei PO è parecchio diversa da quella italiana: là i preti operai nascono già semi- istituzionalizzati sotto la spinta intelligente dell’arcivescovo di Parigi (il card. Suhard prima e il card. Feltin poi): è la chiesa di Francia che si assume la responsabilità della missione in mezzo alle masse operaie; missione che nel 1954 il Vaticano deciderà che venga chiusa: le mani che consacrano l’Eucaristia non possono sporcarsi nel lavoro in fabbrica…
In Italia, l’esperienza torinese tenta di estendere la forma francese: siamo nel periodo del card. Pellegrino, uomo intelligente e aperto, che dovrà dimettersi, avendo commesso il reato di sostenere pubblicamente la lotta degli operai Fiat.
Nel Veneto, meno industrializzato, di origine prevalentemente contadine la storia dei PO è decisamente diversa.
I PO della Lombardia invece hanno una storia di adesione alle lotte operaie; noi lombardi eravamo criticati dai veneti e piemontesi di essere marxisti; critica veritiera, a mio parere, pienamente giustificata dal fatto che a noi lombardi è toccato di vivere il periodo delle lotte della classe oepraia.
Diversa ancora è la vicenda di Sirio Politi a Viareggio, o di Luisito Bianchi a Mantova, etc.
La storia dei PO italiani è molto frammentata oltre ad essere variegata.
Nella maggior parte dei casi, i PO italiani sono entrati in condizione operaia senza il consenso del loro vescovo, o almeno senza il consenso ufficiale.
Io ho scelto di non scontrarmi con l’autorità: avevo già chiesto nel ’72 il permesso di lavorare, ma mi era stato negato; per questo nello stesso anno ho lasciato la parrocchia. Ma in linea di massima non ho avuto scontri diretti con i miei capi gerarchici. Dopo il ’72 mi hanno assegnato alla parrocchia di Trezzo sull’Adda, ai confini est della diocesi, dove per quattro anni ho operato a fianco dei giovani, dei lavoratori e delle Acli.
Nel referendum sul divorzio del ’74, io ho scelto di schierarmi con le Acli per il “NO” all’abrogazione della legge; naturalmente il vescovo mi ha richiamato, ma l’incontro con lui è finito con un invito a pregare di più…
Nel ’74 e nel ’75 altri due preti, con cui io avevo un rapporto di amicizia serio (uno era Don Cesare Sommariva, "fratello minore spirituale" – se così si può dire – di don Lorenzo Milani) entrano in fabbrica; nel ’76 ottengo anch’io l’autorizzazione dal card. Colombo, con la condizione di risiedere nel monastero di Chiaravalle insieme a loro. Dopo tre anni siamo riusciti ad ottenere un incarico pastorale in un quartiere proletario a Cologno Monzese.
Siamo riusciti a stare lì per una dozzina di anni: ci siamo impegnati fortemente sulla formazione all’impegno sociale come primo passo che può introdurre a un cammino di fede cristiana.
Erano gli anni fecondi del card. Martini, che nel 1981 ha voluto venire a farci visita a casa nostra (noi abitavamo in un appartamento dentro quel quartiere); e da allora ci ha incontrato un’intera serata ogni anno, facendoci continue domande sulle condizioni di lavoro e sulla vita e le preoccupazioni delle famiglie operaie.

Perché la scelta a fianco degli operai?
Perché pensavo (e penso oggi) che un mondo come questo sia intollerabilmente ingiusto; ed ero convinto (e tuttora lo sono) che la trasformazione del mondo può avvenire dal basso; e in quel momento storico la classe operaia aveva ancora potenzialmente la forza e le capacità per realizzare quella trasformazione.
Lasciami qui citare il Don Milani che scrive ai cappellani militari: "se voi avete il diritto di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”.

Andiamo all’aspetto politico, voi PO lombardi vi sentivate rappresentati dal partito cattolico della Democrazia Cristiana?
Certamente no! Noi, in genere, abbiamo rifiutato di avere rapporti istituzionali con tutti i partiti, anche con il PCI. Naturalmente in fabbrica avevamo rapporti, spesso profondamente umani, con operai del PCI, perché i delegati di maggior rilievo erano di solito compagni comunisti.
Con gli uomini della DC c’era spesso un rapporto di diffidenza, o di ignoranza reciproca. A cavallo degli anni 50-60 don Cesare Sommariva, che era il più vecchio di noi, nella sua parrocchia a Pero aveva cercato di formare una generazione di giovani che si impegnasse in politica dall’interno della DC. Prima di lui Don Milani, e prima ancora Don Mazzolari fecero tentativi di quel genere; ma la DC, quella che aveva dentro La Pira e Dossetti, uomini grandi e generosi, fu immediatamente contaminata dalla tentazione del potere: il sogno democristiano di Sturzo è subito fallito.
Neanche con gli altri partiti abbiamo avuto una grande simpatia. Nei quartieri delle periferie noi abbiamo semplicemente scelto di metterci dalla parte della gente, così come in fabbrica stavamo dalla parte degli operai.

Dunque a voi PO non interessava agire politicamente per ottenere uno spazio istituzionale nella società? Agire per edificare una "società cristiana”?
Ci siamo mescolati insieme con il popolo che lotta per ottenere la sua emancipazione, non solo economica ma anche sociale, senza distinugere tra cristiani e non: davanti alla sofferenza e alla ingiustizia siamo tutti uguali. E tutti abbiamo il dovere di lottare contro sofferenza e ingiustizia per costruire un mondo che sia umano, indipendentemente dalla religione nella quale ciascuno ha il diritto di riconoscersi.
Questa impostazione è nettamente diversa da quella di Comunione e Liberazione – per esempio.

È anche vero che nei vangeli si ritrovano immagini diverse tra loro, l’una di fianco all’altra: "sale della terra" o "luce del mondo"?
I ciellini vogliono essere la luce del mondo, lo facciano pure.
Io ho scelto l’altra immagine. Io credo che sia importante mischiarsi in mezzo alla gente come il lievito nella farina, per dar sapore alla vita; o come il sale nella minestra, che per darle sapore accetta di scomparire…

(8 ottobre 2012)



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