Il femminicidio Pomarelli, tra cliché e ipercorrettismi di genere

Elettra Santori

La metafora del “gigante buono” che un giornalista ha utilizzato recentemente per Massimo Sebastiani, l’assassino di Elisa Pomarelli, aizzando lo sdegno dei social, ha un difetto imperdonabile. Che non è quello di dipingere come uomo bonario il femminicida di Carpaneto (leggendo l’articolo è evidente che la metafora si riferiva al Sebastiani non ancora omicida, alla maschera un po’ circense di forzuto innocuo con cui era conosciuto in paese), bensì quello di essere una immagine terribilmente usurata. Certo virgolettare, almeno, l’infelice metafora avrebbe aggirato gli equivoci, e disinnescato un po’ della facile suscettibilità del web, ma non le avrebbe restituito dignità: “gigante buono” è uno di quei cliché (come “canto del cigno” o “tallone d’Achille”) che, come dice George Orwell, ci risparmiano la fatica del pensare, e che si trovano sempre a portata di mano del prosatore moderno come l’aspirina ai primi sintomi dell’influenza.

«Mai usare una metafora, una similitudine o altre figure retoriche che sei già abituato a vedere stampate in giro», suggeriva Orwell in “Politics and the english language”. “Gigante buono”, nella sua banalità, è lessico da favole, da letteratura per ragazzi (ambito in cui peraltro già si è evoluto in altre locuzioni, vedi il Grande Gigante Gentile di Roald Dahl). Al massimo funziona nella leggenda di San Cristoforo, corpacciuto traghettatore che si carica Gesù Bambino a spalla, ma, al di fuori delle fiabe e della religione popolare, è un’immagine che non regge il peso della realtà complessa.

Uomini con l’aspetto di Sebastiani se ne incontrano, a volte, nelle campagne e nei paesi rurali: l’espressione bolsa, le mani tozze e legnose, il corpo da soma che la fatica contadina ingrossa senza scolpirlo né raffinarlo. I compaesani li chiamano “buoni”, ma con ciò intendono “idioti”. Li definiscono “miti”, ma solo perché tipi così sottostanno agli scherzi senza ribellarsi e, pur di farsi accettare, si prestano a ridicolizzarsi lanciandosi in sfide insensate – correre in retromarcia per 15 chilometri, tuffarsi in un lago ghiacciato, proprio come aveva fatto Sebastiani. Quello che Elisa, di professione assicuratrice, ha potuto trovare nell’amicizia di uno come Massimo, operaio-contadino con la fama di “tarlùc” – pirla –non lo sapremo mai: forse per lei era qualcuno con cui condividere l’amore per la natura e i boschi, o forse un outsider, un “diverso” in cui lei, lesbica in un paese di provincia, poteva solidarizzare. Uomini come Sebastiani – supini con altri uomini, nonostante la loro mole – con le donne possono mostrarsi anche accudenti, protettivi: mettono la loro stazza a disposizione di esseri che considerano alla stregua di animali bisognosi da difendere e da salvare; e questo può succedere anche con una ragazza dinamica come la bella Elisa, capelli a spazzola e piglio tomboy, lesbica dichiarata e come tale, forse, agli occhi di Sebastiani, angelo perduto da proteggere, innanzitutto da se stessa e dalla sua natura.
Proteggere, uccidere. Due atti infinitamente distanti, che però possono diventare confinanti e consecutivi quando il loro minimo comune denominatore è il senso del possesso. E il possessivo considera sempre l’oggetto del suo desiderio come un essere a lui subordinato. Quando Elisa ha smesso di voler essere l’amica cameratesca di un uomo ai margini divenuto troppo asfissiante, lui l’ha strangolata in un pollaio, con quelle virate brusche dal proteggere all’uccidere che caratterizzano il rapporto tra uomo e animale nella vita di campagna, dove il contadino tira il collo alla gallina che ha nutrito fino al giorno prima, e l’allevatore accompagna al mattatoio il vitello che ha aiutato a nascere e accarezzato.

Se “gigante buono” è una metafora consunta e troppo banale da applicarsi al Sebastiani pre-omicida, se “amore non corrisposto”, che pure certa stampa ha utilizzato, è un’espressione sicuramente deviante e inapplicabile all’ossessione di un femminicida, quali saranno le parole giuste per raccontare una violenza di genere come quella avvenuta a Carpaneto? Qui sorge un problema. Perché se si seguono alla lettera le indicazioni restrittive del Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione, varato nel 2017 dalla Commissione pari opportunità-Fnsi, pare quasi che il modo migliore di raccontare un femminicidio sia riportarlo in un linguaggio sterilizzato, o comunque secondo una scrittura standardizzata e preconfezionata quanto quella della cronaca nera, solo di segno opposto. «Evitare termini fuorvianti come “amore”, “raptus”, “follia”, “gelosia”, “passione” accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento», si legge nel Manifesto. Passi per “amore”, ma stigmatizzare “passione” e di conseguenza anche “crimine passionale” è un dettame che manderebbe in crisi non solo la cronaca nera, ma anche la sociologia e la statistica criminale.
Nell’Inchiesta con analisi statistica sul femminicidio in Italia, pubblicata sul sito dell’Istat e risalente al 2017, si fa riferimento ai possibili moventi del femminicidio (per quanto – si afferma – difficilmente classificabili, perché tortuosi), citando, tra i più frequenti, quelli «legati alla sfera del rapporto sentimentale: gelosia, amore possessivo e morboso, intento di porre la compagna a sottomissione», dunque moventi passionali, da tenere distinti rispetto ai casi di moventi economici, e cioè quelli «in cui l’uomo uccide una donna perché preferisce la sua morte alle conseguenze del mantenimento della relazione, oppure perché teme la scoperta o di relazioni extra-coniugali, o ancora, perché teme l’emersione di seri problemi economici cui lo stesso non riesce a fare fronte».
Nell’indagine si legge anche che nel 55,8% dei casi di omicidio di donne «tra autore e vittima esiste una relazione sentimentale, in atto al momento dell’omicidio o pregressa»: censureremo dunque anche l’espressione “relazione sentimentale” perché utilizza impropriamente la parola sentimento per descrivere la relazione morbosa dell’assassino con la sua vittima? E come distingueremo, allora, questa tipologia da quella in cui tra l’omicida e la sua vittima c’è una “relazione di parentela”, come nel caso di quei padri o di quei fratelli che uccidono la donna che rifiuta di assoggettarsi alla loro visione della religione?

Altra stretta alla libertà di parola e, indirettamente, di indagine delle scienze sociali viene al punto 10d del Manifesto di Venezia: «Evitare di suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando la violenza con “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” e così via». Dunque evidenziare concause, o cause scatenanti significherebbe giustificare un femminicida? Persino nei terroristi stragisti la sociologia cerca di rinvenire cause multifattoriali del passaggio al radicalismo violento, senza con ciò giustificare né indulgere. La ricognizione complessa dei “push factors” serve a profilare, a prevenire, a incrementare la consapevolezza nelle potenziali vittime. Senza considerare che “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione” del partner possono essere fattori leganti e ricattatori che tengono bloccata una donna in una relazione ad alto rischio, dunque perché non nominarli nemmeno e far finta che non esistono? Al punto 10e si legge infine: «Evitare di raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole, partendo invece da chi subisce la violenza». Ma senza insight nella mente del colpevole, le parole per descriverlo si riducono a una sola: femminicida, punto. I dettami del Manifesto di Venezia, con il loro ipercorrettismo, la loro ansia di ricacciare ogni dettaglio nell’Innominabile, rischiano di ridurre il colpevole ad un essere astratto, senza contesto e senza biografia, di cui è possibile dire soltanto che è un criminale. In sostanza, una semplificazione al pari di “gigante buono”. Se davvero il potenziale femminicida fosse così – una specie di monoblocco senza altro attributo che non una macchinale pulsione di morte – per la donna sarebbe decisamente più semplice riconoscerlo e schivarlo. O comunque meno faticoso divincolarsi da una relazione.

(17 settembre 2019)


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