Il film della settimana: “12 anni schiavo” di Steve McQueen

Giona A. Nazzaro

Un Oscar annunciato, quello attribuito a 12 anni schiavo, terzo lungometraggio dell’acclamatissimo Steve McQueen. Un Oscar inevitabile, che non si poteva non dare, che si doveva dare.

Chissà cosa avrà pensato Armond White, critico afro-americano dalle opinioni sovente contropelo rispetto al conformismo cinematografico statunitense, defenestrato dall’associazione dei critici di New York per avere espresso ad alta voce il suo dissenso nei confronti di McQueen (secondo alcune fonti pare lo abbia addirittura insultato ma ciò non giustifica la censura e l’ostracismo).

Che il gioco fosse truccato in partenza era chiaro. Tutti i film in lizza per la statuetta avrebbero meritato di più il premio. Persino Gravity. Così com’era evidente che il lupo di Scorsese sarebbe rimasto a bocca asciutta.
In questo senso, gli Oscar 2014 sono stati i più prevedibili degli ultimi anni, nonostante un paio di scelte che hanno premiato film relativamente piccoli ma sorprendenti e fuori dal coro come Dallas Buyers Club e Her.

Calato il sipario, non restano altro che i film e con quelli bisogna fare i conti al netto delle chiacchiere di circostanza. E quindi cosa resta di 12 anni schiavo?
Non molto. Un equivoco. McQueen è evidentemente in fase di discesa, considerato che già Shame era nettamente inferiore a Hunger che a sua volta prometteva ma non reggeva sino in fondo il peso delle proprie ambizioni.

D’altronde 12 anni schiavo non è altro che la versione autoriale dei classici melò sulla segregazione e lo schiavismo come A spasso con Daisy o, in tempi più recenti, The Help. Buone intenzioni liberal, tanto dolcificante.
Certo. A McQueen non si può rimproverare il sentimentalismo, questo no, ma la matrice produttiva dell’operazione è in sintonia con un’idea di cinema hollywoodiano conciliata e conciliante.

La cosa più interessante è come la formazione di videoartista di McQueen abbia di fatto informato la lettura e la visione di un lavoro estremamente convenzionale, spacciando per ricerca formale quanto invece è poco più di un racconto mainstream (e chissà quanti degli apologeti hanno visto anche uno solo dei numerosi film di Kevin Jerome Everson, lui sì autenticamente innovatore e visionario).

Il distacco, la composizione delle inquadrature di McQueen, tutto è stato ricondotto a una solennità autoriale utile in definitiva a confermare solo un’idea evidente in partenza: lo schiavismo è una gran brutta storia. Bella scoperta, verrebbe da aggiungere.
Per porre l’accento sul punto in questione, terribili frustate squarciano la pelle dei malcapitati schiavi, con il rosa della carne e il rosso del sangue a giocare di cromatismi con la pelle delle vittime che a qualunque altro regista sarebbero costate accuse di razzismo.

In realtà, è in quanto macchina produttrice di consenso che il film di McQueen evidenzia qualche spunto d’interesse.
Annunciato come capolavoro dalle recensioni d’oltreoceano, capolavoro è stato. Esattamente il contrario di quanto accaduto, per esempio, con un film dignitoso come The Monument’s Men di George Clooney.

Il protagonista di McQueen, sottratto alla sua vita da trafficanti di carne umana, si ritrova in un perimetro linguistico – la piantagione, la schiavitù, la prigionia – limitato. Nonostante sia un musicista, quindi individuo dotato di strumenti per decifrare il mondo, è ridotto alla medesima condizione di tutti gli altri.

Il problema, in questo caso, non è la presunta fedeltà al libro che sta alla base del film o alla vicenda autobiografica di Solomon Northup (quella sì agghiacciante). Il problema di McQueen è il suo sguardo incapace di produrre un qualsivoglia scarto percettivo o politico. Tutto ricade entro un perimetro autoritario nel quale l’unica libertà esercitata è quella del regista stesso che impone in questo modo un percorso unico al suo film, proprio come agli schiavi non resta altro che essere schiavi. A proposito di scelte ideologiche.

McQueen non si premura di mettere in scena delle relazioni. Da contenutista si premura di dare forma, inevitabilmente autoritaria, a delle convinzioni, a dei pensieri precostituiti. Degli apriori che, ironicamente, la maggior parte della critica ha letto come manifestazioni di un pensiero formale e politico.

Solomon, calato in un mondo di illibertà, si trova esposto nei confronti di bianchi che esercitano su di lui diritto di vita e di morte, ma al regista non sorge mai il sospetto di mettere in scena la contraddizione che non tutto il paese si reggeva sulla schiavitù, e che quindi questa parte di mondo si situa ai confini della realtà dell’altra.

Per McQueen questo problema dialettico si risolve in una sorta di generica benevolenza dei bianchi che, infatti, nel finale salvano Solomon dal suo aguzzino. Allo stesso modo Brad Pitt, quasi un incrocio fra John Brown e Abramo Lincoln (illuminante l’intuizione della locandina italiana con il faccione di Pitt che osservava, quasi da una prospettiva divina, la fuga di Solomon nei campi…), si presenta in versione salvifica al protagonista a sottolineare, rispetto al feroce Fassbender, che i bianchi sono sia buoni che cattivi. E anche questa è una scoperta terrificante nella sua banalità.

Non occorre mai a McQueen di mettere in scena la privazione in quanto tale. La vita nuda di Solomon non è mai tale, se non in relazione alla sua presunta condizione edenica anteriore alla schiavitù che coincide, guarda caso, con una sorta di dimensione borghese. Cosa che la dice lunga sull’orizzonte politico di McQueen.
Il campo biopolitico della schiavitù non è mai affrontato come tale ma sempre e solo dall’interno di un’ideologia che ha già ratificato a monte ciò che è bene e ciò che è male e pertanto non riesce a vedere, paradossalmente, l’oggetto del proprio discorso che è la schiavitù stessa.

Solomon è un homo sacer: la nuda vita opposta al potere sovrano. McQueen non vede, da contenutista qual è, il dilemma al cuore del suo film. Solomon non è più in grado di distinguere fra il suo corpo biologico e quello politico. La schiavitù crea un campo biopolitico che McQueen non intuisce nemmeno lontanamente, al contrario di Quentin Tarantino, per esempio, che in Django Unchained poneva la casa padronale, retta non a caso da un afroamericano, al centro della vita economica data invece dalla piantagione. Non si tratta quindi di schiavitù e libertà, concetti che espressi così sommariamente non significano nulla e che, essendo deprivati di senso, si traducono anche in scelte formali altrettanto deprivate di senso.

In questo senso Amistad di Steven Spielberg, dileggiato e lapidato dalla critica, scavava con ben altra forza nella memoria schiavista degli Stati Uniti e a quanti si son detti turbati dalla violenza del film di McQueen occorre ricordare che per molto meno, un tentativo di fuga, a Kunta Kinta era offerta la possibilità di scegliere fra l’evirazione o il taglio del piede (e ricordiamoci che Radici è stato scritto da Alex Haley, biografo di Malcolm X). Senza contare il sofferto Mandingo di Richard Fleischer, ancora oggi considerato dalla maggioranza dei critici come poco più di un exploitation movie.

In questo senso 12 anni schiavo dice molte cose interessanti. Non sullo
schiavismo, sugli afroamericani o sul cinema. Bensì sulla falsa coscienza occidentale che periodicamente richiede di fustigarsi pubblicamente solo per potere riaffermare il proprio dominio culturale che ovviamente esce fortificato dal presunto bagno di umiltà.

Non è un caso che il film di McQueen abbia falciato anche quello che sembrava essere un perfetto film da Oscar, ossia Un maggiordomo alla Casa Bianca di Lee Daniels – regista del celebrato ma in realtà pessimo Precious e dell’inutile The Paperboy – film che non ha ottenuto nemmeno una nomination lasciando così a casa tutti gli interpreti afroamericani della pellicola, peraltro eccellenti, prima fra tutti la straordinaria Oprah Winfrey.

Un maggiordomo alla casa bianca, film che con evidente premeditazione ha provato il colpaccio giocando sui sensi di colpa bianchi e sul residuo di permanenza di Obama nella stanza ovale, tenta nonostante tutto un discorso politico non banale. E offre per questo motivo una compensazione che 12 anni schiavo, nonostante il suo proporsi come il film per eccellenza sullo schiavismo, non riesce a fare.

Il film di Daniels osa recuperare nell’alveo delle conquiste afroamericane verso la parità formale dei diritti il lavoro di servitù svolto da uomini e donne in condizioni salariali svantaggiate. Ossia la qualità del lavoro svolto in condizioni disumane e umilianti da donne e uomini per generazioni può finalmente essere rivendicata come patrimonio della comunità non solo afroamericana. Come patrimonio di un corpo politico.

Non si tratta di una conquista formale, cinematografica, del film di Daniels, peraltro estremamente formulaico. No. Daniels la presenta come una dichiarazione. Eppure, questa semplice rivendicazione, ci sembra molto più “politica” di una qualsiasi delle inquadrature di 12 anni schiavo che preferisce restare nell’alveo delle convenzioni narrative dominanti pur offrendosi come un film sull’emancipazione. Cosa che politicamente si traduce in un disastro etico. In un enorme carrello di Kapò. Ma Gillo Pontecorvo, almeno, sapeva da dove parlava e perché.

(13 marzo 2014)



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