Il film della settimana: “ACAB” di Stefano Sollima
Giona A. Nazzaro
I versi di Pier Paolo Pasolini sui figli di contadini e operai che indossano la divisa li ricordiamo tutti. Solo per dire che non ci arruoliamo nella truppa di coloro che hanno strumentalizzato lo strazio del poeta friulano per favorire le proprie discutibilissime posizioni. E per fortuna nemmeno Stefano Sollima, reduce dal successo dell’eccezionale serial Romanzo criminale, chiama inutilmente in causa Pasolini.
Sollima, lavorando sulla traccia del libro di Carlo Bonini, ha la scaltrezza e l’intelligenza politica di piombare lo spettatore, senza troppe storie, nel bel mezzo della guerra. I protagonisti del suo film sono presentati alle prese con i pugni che sferra loro il quotidiano senza troppi complimenti. Il problema è che Cobra, Mazinga e gli altri (interpreti sublimi con il trio Favino, Giallini, Sartoretti che merita la standing ovation) i pugni li possono restituire come e quando vogliono. Loro indossano la divisa. E anche quando non la indossano, le mani trovano sempre modo di menarle. E Sollima ha il merito di sporcarsi le mani con storie che da noi si raccontano ancora troppo poco.
Nel paese del maresciallo Rocca (che non ce ne voglia Gigi Proietti) e di Don Matteo, un film come ACAB assomiglia a un folle salto nell’iperspazio. Perché la fiction nazionale ama la mamma e la polizia più del brigadiere Pasquale Zagaria. Se negli Stati Uniti la democrazia passa come processo di condivisione attraverso le punte più avanzate dell’immaginario collettivo, basti pensare solo negli ultimi anni a serie come The Shield o The Wire, che hanno portato alla luce le contraddizioni del sistema giudiziario e politico statunitense, in Italia la polizia continua a essere rappresentata attraverso modalità tipiche dello strapaese (senza contare che nel suo piccolo un serial come La squadra ha provato a indicare anche strade alternative). Per cui ACAB (nelle sale dal 27 gennaio), con il suo incipit nel quale Favino canta a squarciagola “CELERINO FIGLIO DI PUTTANA”, si getta addosso al pubblico in sala azzannandolo alla gola. E non molla la presa per tutta la durata dei suoi novanta minuti di proiezione. Come dire: questa non è la solita polizia. Questa è un’altra storia.
Sollima, degno erede del mai troppo celebrato Sergio, senza perdere un colpo, equilibra interni domestici squallidi, vicende familiari e un senso del branco così forte e caldo come non si vedeva dai tempi di Ultrà di Ricky Tognazzi (che purtroppo ha dimenticato come si fanno certi film). I celerini di ACAB (ah sì, è un acronimo… All Cops Are Bastards… tutti gli sbirri sono bastardi) sono TUTTI fascisti. Ma di quelli brutti. Lo sbirro disilluso che ha fatto il ‘77 e adesso è tutto un dolore per i mali del mondo che affolla certa narrativa neo-noir non abita qui.
I celerini di Sollima sono fascisti duri. Di quelli che ci credono e che gli studenti del G8 di Genova, gli immigrati, i tossici, senza dimenticare i comunisti, li manderebbero nei campi di lavoro, a dir poco, magari con qualche osso rotto, tanto per fargli capire chi comanda. E che non vede l’ora di menare le mani. Operai, immigrati, studenti. Tutta gente che non rispetta il paese. Gente che si comporta in Italia come se fossero a casa loro. Gente che manda tutto a puttane. Ma, come sostiene Claudio, celerino messo a riposo dopo i fatti della Diaz, se avessero lasciato fare a Cobra, Mazinga e camerati a Genova, a quest’ora il paese starebbe meglio (loro, starebbero meglio).
Sollima è molto abile nel non schematizzare il conflitto in atto. ACAB riesce a dare una forma non retorica a una dimensione esistenziale e politica concreta che produce, nemmeno tanto paradossalmente, una solitudine autentica, per quanto politicamente inaccettabile e irricevibile (ma sulla quale è inevitabile ragionare…). La solitudine di chi serve lo Stato, dall’estrema destra, e che si sente tradito dalle istituzioni (che non avverte come abbastanza di destra). La solitudine di chi spera che prima o poi si possa finalmente fare piazza pulita mentre non si può far altro che tacere di fronte agli intrallazzi del palazzo, perché NOI siamo lo STATO. Perché loro sono pagati per stare in prima fila.
Sollima, a contatto con questa materia incandescente, evita la caricatura. Osa avvicinare lo sguardo, con il rischio di accecarsi, per evidenziare una cosa sconvolgente: questa gente qua, questi celerini incazzati neri, fascisti, sono esseri umani, e prendono pedate anche loro. E, una volta avvicinatosi, evita di chiederci compassione per loro, ed evita di operare pericolose equazioni: loro come noi e viceversa. Sollima prende atto. A Cobra piace menare. Ma poi ha paura anche lui. E lo riconosci come umano proprio quando ha paura. Quando, solo nella sua paura, succhia il suo odio per farsi coraggio, per menare le mani. ACAB è questo. L’odio che ti divora da dentro e ti rende cieco. Che ti fa urlare “vaffanculo al paese tuo!” a una ragazza africana che piange perché non vuole essere rispedita indietro. Una ragazza che preferirebbe restare chiuso in un campo di concentramento italiano pur di immaginare di avere una possibilità. Una sola.
Ma le cose sono ancora più difficili e complesse. C’è gente che pensa che individui come Cobra e Mazinga non facciano bene il loro lavoro. Che si sono svenduti alla politica. Che hanno tradito l’Italia. E che tocchi ad altri fare pulizia. Che sia giunto il momento degli italiani veri. E a Firenze abbiamo visto cosa significa quando l’uomo della strada s’incazza. Così Cobra e camerati si ritrovano presi a calci in faccia dalla politica, dalla vita e dai loro simili. E ACAB è agghiacciante nel tracciare il ritratto di un paese diviso tra fascisti e fascisti più fascisti dei fascisti. Solitudini a confronto in cerca di una voce, in assenza di una politica che dia voce per davvero, di una democrazia che sia autenticamente partecipativa. In assenza di una vita e di un futuro. Solitudini che inevitabilmente si cercano dei nemici. Nemici individuati negli ultimi, quelli che nessuno difende. Tant’è vero che l’unica forma di conflitto sociale nel quale ci si torna a guardare in faccia è incarnata dagli ultras.
Genova e la Diaz sono un incubo sullo sfondo. Macelleria messicana, la definisce Mazinga. Sollima, che ha raccontato con accenti quasi scespiriani il crimine, con ACAB si ritrova di fronte a un compito arduo: mettere in scena la legge e l’ordine dalla parte di chi incarna questi valori come compito e dovere. Ciò che emerge è il ritratto credibile di un paese lacerato che ci pare inciampi solo nel ritratto della Spina, fascista come gli altri, che di fronte all’ennesima scorribanda è fulminato sulla via di Damasco del rispetto della divisa. Una piccola debolezza, ci pare, quasi un inevitabile dazio per avere osato tanto nero. Un dazio che in qualche modo ricomponga un equilibrio separando le mele marce dalle buone. Facile. Un po’ troppo.
Per il resto, però, Sollima non commette l’errore di stare da due parti contemporaneamente. ACAB abita un cuore di tenebra impressionante e il film è tutto visto dalla parte dei celerini. D’altronde, cinematograficamente, si può stare solo dalla parte di chi le prende o di chi le dà. È una questione etica. E Sollima non cambia postazione quando le cose diventano insostenibili. Lui resta per vedere chi, cosa e come resta in piedi quando il gas dei lacrimogeni si dirada. Una debolezza, quindi, che si riscatta nel finale astra
tto, metafisico, di fronte al campo di battaglia dello Stadio Olimpico. Dove gli ultras sono ombre lontane, voci, suoni. Resta solo il gruppo. Un forte Alamo dei disperati. Disperati pronti a vendere cara la pelle in una battaglia dove perdono tutti. Ma proprio tutti. Dove il massacro è l’unico rito che garantisce una riconoscibilità sociale. Al diavolo il principio d’individuazione. Al diavolo il principio di realtà. L’inferno sono gli altri.
(28 dicembre 2011)
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